In particolare si intravede un loggiato lungo lungo, non distante dallo studiolo di Isabella d’Este, che divide una grande area verde con piante di gelso, all’interno delle mura del palazzo, da una bordatura di salici d’argento che crescono nella limpida acqua liliacea. Qui i Duchi ed i loro cortigiani si godevano l’aria fresca quando, dopo il tramonto, le Alpi apparivano mano a mano sopra la pianura e osservavano, da una parte, le complesse quadriglie e le giostre della scuola di equitazione; e dall’altra le gare di barche e ogni tipo di spettacoli d’acqua. Lo sappiamo dai testi della nobile arte dell’equitazione: piume e riccioli che ondeggiano sopra i corvettanti cavalli spagnoli, e lo scopriamo e lo veniamo a sapere dai rari libri di allegorie teatrali e dei primi melodrammi del XVI e XVII secolo, maschere dove Orione appare sul suo colossale delfino guarnito di tiorbe e viole d’amore, cantando qualche aria elaborata di Caccini o di Monteverdi, piena di lamentose fioriture ed inattese note minori. Veniamo a conoscenza di tutto questo, la classica pastorale ancora intrisa del romanzo medioevale, dal Tasso e dal Guarini o meglio da Fletcher e da Milton. Inoltre un certo cavalleresco duca Gonzaga, forse lo stesso Vincenzo che aveva fatto dipingere il soffitto azzurro e oro secondo lo schema del labirinto nel quale era stato tenuto prigioniero dai Turchi, e con qualche probabilità, speriamo, Orsino d’Illiria con al fianco una non ancora luttuosa dama Olivia; e forse dirigendo il concerto al virginale, qualche paggio cantante di nome Cesario... S’immagini una pastorale d’acqua, come la parte di Sabrina nel Comus, a cui s’assista da quel portico! La ninfa Manto, fondatrice di Mantova, che sale dal lago, conchiglia di cartone o vera conchiglia? O i pastori di padre Virgilio che cercano di trattenere Proteo, ma tutto è nastri e fiocchi, versi zampillanti come Aminta o Il Pastor fido. E ora si sente solo il gracidare delle rane che sale dal falasco e dai salici, dove il castello merlato immerge il suo sperone nel lago.
C’è un’altra parte in questo palazzo dall’aspetto shakespeariano che sa non di romanzesco, ma di un grottesco che sfiora l’orrore. Ci sono gli appartamenti dei nani! Immagina un’intera ala dell’edificio, concepita a sé stante per la loro vita sciagurata, una conigliera fatta di minuscole stanze, inclusa una cappellina contro la cui volta si sbatte la testa, e per scendere una scalinata così bassa che dà la nausea. Strani tuguri umani o semi-umani, che si presume non siano mai stati utilizzati, costruiti come scherzo brutale dal duca di Mantova sotto l’influsso di qualche mostriciattolo saturnino, simile a quelli che si trovano sulle ginocchia dei Gonzaga nell’affresco del Mantegna.
Dopo aver visto il Castello e la Corte Nuova si pensa che sia doveroso andare a vedere il Palazzo Te appena fuori città. Affreschi inconcepibili, con colossali e scomposte divinità maschili e femminili, tutti polvere di gesso e di mattone, tali da far rivoltare nella tomba Raffaello che ne era responsabile attraverso il suo abominevole allievo. Stucchi macchiati di umidità e cortili invasi dalle erbacce con l’unico suono emesso senza tregua sugli olmi dalle stridenti cicale. Quale assoluto oblio di uomini e di dèi esprime questo splendore dei Gonzaga! Ma tutto intorno c’è un verde lussureggiante e fiumi dall’aspetto inglese serpeggiano con l’acqua a livello del terreno fra i grandi salici. Lasciammo in gran fretta il Palazzo Te dietro di noi e ci dirigemmo a Pietole, il luogo natale di Virgilio. Ma rimanemmo stregati dalla magia di uno dei laghi. Sedemmo sui meravigliosi e verdi argini che erano già stati fortificazioni degli austriaci, con gli alberi che si immergevano nell’acqua e il delizioso odore, fresco e maturo, delle foglie e dei fiori bruciati dal sole e notammo la folta presenza di grossi pesci nell’ombra verde del ponte ferroviario. Di fronte a noi, sotto le mura rossastre della città, s’estendeva un immenso campo di bianche ninfee, e più oltre, tra l’acqua azzurra lievemente increspata, si ergevano le torri, le cupole e i bastioni del palazzo dei Gonzaga, del più pallido rosa che si possa immaginare, inconsistente, del tutto irreale nella calura vibrante del mezzogiorno.
Ansbach e i cavalieri del cigno
Ad Ansbach scendemmo dal treno senza l’effettiva intenzione di fermarci, spinte dall’incapacità di restare sedute più a lungo sotto l’influsso dell’umor nero lasciatoci da Norimberga, dal fumo delle sue fabbriche, dai treni elettrici e dagli alberghi modello. La mia amica ricordava confusamente di aver letto qualcosa del luogo nel Frederick di Carlyle; per parte mia avevo letto le memorie di Elisabetta Lady Craven, Margravia di Ansbach, quando avevo dodici anni; poi c’era il fatto che la città aveva dato i natali a Carolina, moglie di Giorgio II e un affare oscuro concernente Kasper Hauser, personaggio ancora più oscuro; ma oltre questo, penso che nessuna di noi due si fosse effettivamente resa conto del luogo e dell’esistenza di Ansbach, finché non sentimmo gridare il suo nome alla stazione.
La piccola città è circondata da giardini pieni di bellissime rose e si intuisce che i suoi abitanti hanno tutto l’agio per coltivarle e ammirarle. Posta in basso con i suoi tetti a tegole arancioni e i campanili a forma di imbuto in mezzo a pascoli di un verde brillante, a prima vista appare come una versione ingrandita dei prosperosi villaggi dall’aspetto antico raggruppati intorno alla chiesa e che, simili a giocattoli, si trovano ogni due miglia lungo le basse valli della Franconia. Solo dopo essere giunti alla Residenz, lo splendido palazzo stile Luigi XV dei Margravi, notammo che Ansbach non è una città esclusivamente tedesca e ci accorgemmo (un tempo l’idea della Francia lo suggeriva) che molte case hanno tetti arrotondati alla francese, mansardes, decorate porte-cochères e che alcune strade, con vista sugli alberi del parco, ricordano vagamente Fontainebleau.
Non ho mai visto un palazzo più gradevole di questo di Ansbach, né uno che faccia pensare in modo così vivo (in particolare dopo una serie di città medievali tedesche, sia autentiche che fasulle) all’ideale di vita agevole, graziosa e amabile che la Francia insegnava al mondo nel XVIII secolo. Le stanze sono abbastanza ampie, tali da permettere alla gente di parlare senza alzare la voce e senza che il loro tête-à-tête si confonda con quello dei vicini. Sono piene di luce, i pavimenti a parquet scintillano quasi senza intralci come tappeti erbosi, i mobili sono quelli che ci vogliono, sistemati in modo simmetrico negli angoli, eleganti pezzi di mobilia che fanno sentire chi si siede a proprio agio, ma non libero e comodo; i pochi dettagli, cornici, modanature, candelieri sono assolutamente perfetti, mentre l’insieme appare dilatato dall’aggiunta di porte e di finestre immaginarie create da enormi specchiere l’una di fronte all’altra nella pannellatura. C’è una sala da pranzo rivestita interamente di piastrelle cinesi bianche e azzurre che esalta l’incanto di pochissimi piatti, scelti con cura e squisitamente cucinati, e una conversazione in cui ogni cosa veniva indicata, ma nulla affermato con insistenza, perché si intonasse con il tutto. C’era anche un incantevole salotto per la musica, dove si potevano seguire i tempi di un quartetto d’archi e udire ogni sottigliezza nell’aumentare e nel diminuire di una nota, nell’arrotondare o puntualizzare una frase, quando le mani si alzavano dall’arpicordo e la voce veniva lasciata a se stessa. Il cordiale guardiano, il cui entusiasmo nello spiegare faceva presagire una scarsa presenza di visitatori, ci mostrò con molto piacere alcuni buffi candelabri di Dresda donati da Federico il Grande a sua sorella la Margravina, i quali rappresentano un pastore esile e incipriato, di certo «grande» lui stesso, intento a scrivere lettere incompiute. I personaggi, naturalmente, sono due volte il naturale, e tre volte comprensibili in ogni loro aspetto; così senza quasi esitazione (con gran gioia del custode) si può decifrare su un candelabro una lettera che inizia con la parola Sire che annuncia una grande vittoria; un’altra lettera con la parola Monseigneur che si profonde in frasi colme di gentilezza; e una terza con la parola Mademoiselle, interrotta con discrezione sotto la mano di porcellana orlata di pizzi.
Come la maggior parte delle piccole località, Ansbach ha come proprio idolo una celebrità caduta in oblio, il poeta del XVIII secolo Uz, continuamente evocato nelle lapidi e nelle colonne commemorative come «l’amante del suo genere». E ora che mi viene in mente, non era forse quell’Uz che Jung Stilling, piacevole unione di romanzo e di pietismo settecentesco, volle visitare ad Ansbach versando lacrime di filantropica e poetica gioia al solo vederlo? Faceva parte della piacevole letizia e della leggerezza di quel secolo, dopo tutto, sciogliersi il più spesso possibile in lacrime. E chi non gioirebbe nel versare lacrime tra persone così piacevolmente ingegnose, sensibili e oziose quali dovevano essere quelle che affollavano questo incantevole palazzo di Ansbach?
Questo è il lato francese di Ansbach. Ma in modo inaspettato vi si nasconde un pezzetto di Germania; della Germania, per di più, del romanzesco, dell’improbabile e, si potrebbe pensare, del favoloso medioevo. Si viene accompagnati alla chiesa Gumbertus, dopo che ci è stata mostrata la volta dei Margravi che si apre sulla strada, dove essi giacciono sotto le loro effigi imparruccate e mucchi di bronzei trofei di vittorie sconosciute alla fama.
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