Qui come altrove sarebbe difficile immaginarsi un ambiente preciso che imprima un segno definito all’aura poetica circostante; ma è prevalente il senso di una natura che si offre nei consueti aspetti seducenti senza svelarsi del tutto, che rimanda l’animo dell’osservatore ad altre prospettive di tersa fascinazione. In un tale cosmo anche l’idea della morte ha un suo fascino e magari un’ambigua attrazione. E tutto nell’insieme sembra rispecchiare esattamente la condizione d’animo dell’autore nell’età di mezzo fra sperpero voluttuoso e una larva di coscienza, sullo sfondo di un clima dove per un attimo sembra possibile sognare il bene e il male senza incorrere nelle maglie della responsabilità cristiana.

Se un limite morale si drizza qua e là a correggere l’istintivo «s’ei piace ei lice», il poeta non fa mai una scelta fra amoralismo e rinunzia, e scampa, o finge di scampare, nel miraggio di un’età fantastica, la «bella età dell’oro», circoscrivendo la sensualità nel giro di un giovanile cinismo che a nessuno poteva recare offesa.

Nell’Aminta non abbiamo mai un’alterazione dell’evidenza a vantaggio dell’«espressionismo» e del «surrealismo» di taluni figurativi. L’unico elemento vagamente strabiliante dell’egloga tassiana è il fauno, che svolge la sua parte con una scaltrita bravura da cortigiano travestito. Lo spirito di deformazione non va mai troppo oltre una stimolazione panico-erotica. Tutti gli elementi tradizionali della Rinascenza sono, cioè, come rifusi in un crogiuolo scintillante, e il risultato finale è un effetto eclettico, che ci porta dal piano della realtà a quello di un illusionismo scenografico.

Lo stesso avviene nell’area delle coscienze e dei personaggi, elaborati a norma dell’ambiente. Così Aminta, che è detto figlio di Silvano e nipote di Pan, in concorde ascendenza dal sentimento trionfante della natura del mondo cinquecentesco. Pur di origine selvatica, si rivela discretissimo innamorato, talvolta perfino in preda all’inerzia: un’inerzia magata, fatata, quanto mai vicina all’animo di quel contemplativo edonista che è il Tasso, e che nel fargli idoleggiare le proprie intime reticenze motiva un raffinato contrappunto all’impianto scenografico.

Come nelle fibre della natura, così anche nell’interno degli animi cominciano ad aprirsi zone oscure, abissi che neppure chi ne soffre sospetta. L’uomo collude col suo segreto, con l’oscura malattia che minaccia di trascinarlo chissà dove. Una fascia di mistero recinge già gli aspetti della vita in Aminta, e anche l’amore è – panicamente – una di quelle forze di cui si ignorano le leggi, che schiaccia chi colpisce. Forza panica riconosciuta dai trattatisti rinascimentali, qui nel Tasso è simile alquanto a una fascinazione magica. Anche lo svolgimento psicologico è affidato a una linea sinuosa che tocca i più intimi avvolgimenti degli spiriti. Da ciò il tono ombrato ed elegiaco che tanto differenzia l’Aminta dalla linearità malinconica di un Sannazaro. Al di qua della vera vita, che sarebbe quella dell’aureo piacere, vibrano sottilmente motivi di trepidazione, di rimpianto. E, più che di vere personificazioni dialogiche, sembra il tutto una stupenda cantata elegiaca a più voci, dove ciascuno porta avanti il suo «tema» in un intreccio definitivamente unitario.

Artificioso e squisito sin che si vuole, il dramma pastorale non prescinde tuttavia dal naturalismo di sfondo – e si chiami pure un naturalismo di serra, o, aggravando il giudizio, di tipo teatrale –. C’è troppo un humus lirico, un idilliaco, accorato vagheggiamento di ideali remoti dal presente difficile e disumano per poterne riportare l’ispirazione all’area del puro gioco. L’Aminta è davvero una squisita invenzione che s’innesta alla consapevolezza; è l’arridere di un uomo ancora giovane alle fiabe che nel suo animo si mescolano di sensuale coinvolgimento e di amarezza disincantata. Perfino in quell’Arcadia che era stata del Quattrocento aveva sovrastato l’avvertimento della fine: Et in Arcadia ego. Né si dimentichi che un’espressione di quegli stati d’animo era già comparsa, e ricomparirà, in più di una lirica. Ma veniamo al tragitto che questo complesso sentimento della natura, a cui si accompagna, adeguata, un’idonea concezione della vita, viene evolvendo nella grande impresa successiva, anticipata dalla meditazione dei Discorsi dell’arte poetica, fino a sboccare nelle volute del poema eroico a cui, quasi negli stessi mesi della pastorale, il Tasso mette decisamente mano.

Nella Gerusalemme liberata lo spettacolo cosmico è regolarmente inquadrato nella struttura aristotelico-tolemaica (e si pensi alla descrizione dell’architettura celeste del IX canto, quando l’arcangelo Michele muove alla difesa dei cristiani). Ma più ancora importa il sentimento, l’accento, il colorito di cui l’infonde il poeta; che nel momento stesso di riscuoterne l’esatta simmetria, la dirotta in una previsione tutt’altro che normale delle entità cosmiche: a cominciare da Dio, che ha sotto i piedi il Fato, la Natura, il Moto, lo Spazio, il Tempo e la Fortuna:


Sedea colà dond’Egli e buono e giusto

dà legge al tutto e ’l tutto orna e produce

sovra i bassi confin del mondo angusto,

ove senso o ragion non si conduce;

e de l’Eternità nel trono augusto

risplendea con tre lumi in una luce.

Ha sotto i piedi il Fato e la Natura,

ministri umili, e ’l Moto e Chi ’l misura,

e ’l Loco e Quella che, qual fumo o polve,

la gloria di qua giuso e l’oro e i regni,

come piace là su, disperde e volve,

né, diva, cura i nostri umani sdegni.


Dio, che regna sublime e remoto nel profondo dei cieli, è quale sarebbe difficile identificare nella concezione del Tasso alla benigna e pietosa immagine cristiana della paternità universale; e, pur avendo sottostanti le figure pagane del capriccio fatalistico e dell’arbitrio, non esclude che intervengano laddove, com’è detto avanti, «se stesso il mondo strugge e pasce, / e ne le guerre sue more e rinasce» (IX, 61). In una struttura universale tutt’altro che razionalmente e organicamente fenomenica, ma volitiva e personalistica, tutto è affidato alla legge degli interventi occasionali, anche se alla fine riequilibrati dalla non meno occasionale e inopinata strapotenza divina; una divinità che sembra ricordarsi di quando in quando degli uomini, scossa dalle loro implorazioni. Nell’insieme, un concetto del divino che del suo tempo rifletteva soltanto quella che il Banfi dice la pompa barocca – «nel senso della vanità del mondo abbandonato a se stesso fuori dei vincoli provvidenziali e della vanità dell’opera e del sapere umano» – e meglio si potrebbe forse parlare qui di ritornanti inflessioni pagane (epicuree, lucreziane); che non mancava, però, poi (come invece vorrebbe lo stesso) di unità, dramma e poesia: ché la poesia avrebbe attinto proprio nell’aspirazione estremamente, neoplatonicamente tesa verso quel Dio lontano e inaccessibile anche perché troppo elevato sulle nostre miserie. Di contro alla fissità dei cieli, nella sfera della natura, tutto è abbandonato al ciclo eraclitèo della morte e della dissoluzione, con la rinascita dalle altrui ceneri. La stessa bellezza del creato all’insegna animante della luce, di cui si era tanto compiaciuta la speculativa primo-rinascimentale, qui è come infusa di un veleno di morte; anche nelle «belle / region de la luce e l’auree stelle» imperversano le figure maligne dei dèmoni, che san Michele scaccerà durante la battaglia per ordine di Dio (IX, 65). E dalle forme delle cose se ne mutua il senso nel poeta al grado stilistico, in un discorso che, nelle violente antitesi come nei folgoranti accostamenti, sembra evocare sin d’ora il luminismo secentesco con la sua straordinaria carica espressiva.

Sotto l’Eterno e sotto i cieli, regolati dalle antiche deità, si stende la terra con l’oceano, i monti, i «ciechi abissi», quasi immensa creatura vivente dalla cieca ottusità, travagliata da tempeste e dai dèmoni. In forma di altrettante personificazioni che denotano una volta di più l’irrazionalità dei fenomeni, si susseguono le vicende del giorno e della notte, dei mesi e delle stagioni, in incessante avventura. E proprio come in una serie avventurosa, ecco ogni volta albe o notturni tingersi di un significato sempre diverso; che va dai moduli più usuali, come è quello dell’alba che esce «de la magion celeste / con la fronte di rose e co’ piè d’oro» (ma dopo la procella scatenata dai dèmoni contro i crociati, questo color rosa e oro fa pensare a un qualcosa di stanco e raffinato, come d’oro vecchio e rosa antico), alle figure del giorno infuse del senso degli avvenimenti prossimi in astrologica partecipazione di spiriti, o a quelle della notte che ancor più esprimono il cupo collaborare della natura alla nostra sorte.

E son così giorni che scolorano in un’ombra folta di minaccia, e tramonti dei più sanguigni e oppressivi che abbia conosciuto la nostra figurazione letteraria:


Ma già distendon l’ombre orrido velo

che di rossi vapor si sparge e tigne;

la terra in vece del notturno gelo

bagnan rugiade tepide e sanguigne;

s’empie di mostri e di prodigi il cielo,

s’odon fremendo errar larve maligne:

votò Pluton gli abissi, e la sua notte

tutta versò da le tartaree grotte. (IX, 15.)


E si veda come il complesso dei fenomeni si frammenti in figure fantasmagoriche divenute parte dell’azione che va svolgendosi (le ombre che distendono il velo, le rugiade sanguigne che bagnano la terra, e finalmente il cielo che si riempie di mostri, prodigi e larve che scendono in fitta proliferazione sulla terra; e davvero il verso rende l’evidenza di quegli orrori e spaventi in una superiore maestà di dipinto: «che di rossi vapor si sparge e tigne...»). E sono altrove notturni fra i più espressivi che conosca la nostra letteratura, infusi prima di un contenuto equilibrio da classicismo prebarocco, poi, col sopravvenire delle presenze umane, di un’ardua pensosità:


Era la notte allor ch’alto riposo

han l’onde e i venti, e parea muto il mondo.

Gli animai lassi, e quei che ’l mar ondoso

o dei liquidi laghi alberga il fondo,

e chi si giace in tana o in mandra ascoso,

e i pinti augelli, ne l’oblio profondo

sotto il silenzio de’ secreti orrori

sopìan gli affanni e raddolciano i cori. (II, 96.)


– e segue la descrizione dei crociati ormai in vista di Gerusalemme, che «mirano ad ora ad or se raggio alcuno / spunti, o si schiari de la notte il bruno» –; o sono aperture di notti magiche, leggere e palpitanti, dove, come in un ampio corale, il cupo fondo d’ardore erotico dei petti umani si riunisce, effondendosi, al tremulo spettacolo lunare, e l’ansia amorosa sembra intrecciarsi col presagio degli astri: la notte in cui Erminia guarda affascinata alle belle agli occhi suoi tende latine:


Era la notte, e ’l suo stellato velo

chiaro spiegava e senza nube alcuna

e già spargea rai luminosi il gelo

di vive perle la sorgente luna...