(VI, 103.)
E si segua tutto l’episodio, che s’irradia, come doveva, in una straordinaria gamma di eventi.
Un che di fatale e vagamente magico, come un filtro, sembra diffondersi dalle scene d’amore. Ecco Clorinda con «le chiome dorate al vento sparse» che impone il suo luminoso svelarsi agli occhi di Tancredi, e fa ch’egli non ardisca neppure difendersi dal ferro di lei: «né sì dal ferro a riguardarsi attende, / come a guardar i begli occhi e le gote / ond’Amor l’arco inevitabil tende» (III, 24). Senso fatale che il poeta compone altrimenti nel giro di una immaginosità più esornativa che costruttiva, preludendo agli sviluppi dell’alto classicismo barocco. Clorinda è ferita al collo da un soldato nel passaggio:
ne’ confini
del bianco collo il bel capo ferille.
Fu levissima piaga, e i biondi crini
rosseggiaron così d’alquante stille,
come rosseggia l’or che di rubini
per man d’illustre artefice sfaville. (III, 30.)
E la narrazione segue più per via d’immagini che d’eventi. Ma si veda anche altrove l’effetto di sortilegio all’apparire dell’«alta guerriera»; come quando Tancredi muove per affrontare Argante in duello, e gli si offre allo sguardo la creatura amata:
Bianche via più che neve in giogo alpino
avea le sopraveste, e la visiera
alta tenea dal volto... (VI, 26.)
E, intrecciandosi con tale episodio, segue Erminia che, dal primo mattino al farsi della notte, dall’alto di una torre, «antica torre», si macera nel tormento d’amore – «s’asside, e gli occhi verso il campo gira / e co’ pensieri suoi parla e sospira» –, e sempre ha in mente «l’amato cavaliero», che le sembra, e teme, di veder ferito a morte e insanguinato, e vorrebbe correre a curarlo con le sue arti, e avvelenare il nemico di lui, mentre in petto le fan guerra Onore e Amore; e ora immagina di avvicinare al «valoroso petto» «la pietosa... medica mano», ora delira tanto da sognar le nozze «ne la bella Italia»; principessa barbara tormentata dalla sua stessa timidezza, che, con scelta avventurosa, presa dalle «furie d’amor», decide alla fine di travestirsi con le armi di Clorinda per raggiungere l’amato. E certo nessun poeta come il Tasso aveva cantato con più abbandono gli sviluppi di una passione amorosa, innestando al vecchio tronco cavalleresco l’esotismo, fino al presagio romantico. Puro racconto fantasioso ambientato in una Etiopia romanzesca è la vicenda della nascita e della vita di Clorinda. E qui più che mai gli elementi in gioco fanno pensare a una traccia esotico-cavalleresca che, dopo il Boccaccio, non aveva avuto più riscontro tra noi (l’elemento favoloso cavalleresco dell’Ariosto è del tutto immerso nella chiarezza rinascimentale), e se un riscontro può farsi, è solo alla leggenda pittorica a Venezia, da Giorgione al Carpaccio, e finalmente al Tintoretto della straordinaria serie di «favole», fra il 1555 e il 1560: che vanno dal San Giorgio di Londra al Ritrovamento di Mosè, alla Liberazione di Arsinoe, alla stupenda Susanna al bagno, e, perché no?, al Tancredi che battezza Clorinda morente: che «è databile intorno al 1580, e deve quindi essere stato desunto dalle primissime stampe del poema» (Argan).
Ora, l’interessante è che in tutte queste fantasticazioni, soliloqui e avventure, il ritmo, e fin la clausola narrativa, siano dati dall’avvicendarsi di giorno e notte, come a dire gli eventi naturali per cui i fatti umani si saldano all’universale. Non si deve dimenticare il carattere tutto speciale dell’attenzione all’ambiente che fiorisce nel periodo del tardo Rinascimento, quando fu superato il diverso, e più empirico sentire dell’epoca precedente. È ora che la scoperta dell’universo si apre per la prima volta in dimensioni grandiose, e si avvera un sentimento cosmico tanto più aperto e diffuso di prima. Viene meno a poco a poco il simbolismo religioso ereditato dal Medioevo, e si tenta di accostare la natura nella sua autonoma realtà. Sia uomo di lettere o speculativo, sia pittore e incisore, il rinascimentale si rivolge alla natura come ad una meravigliosa organizzazione da rispettare nel suo ciclo di sviluppo o degenerazione, e sente il mondo come un qualcosa di animato di cui vuol tradurre in immagini tutta l’intima vitalità. Sorgono così, dalle radici delle cose, forme complicate e conturbanti che ne traducono l’intima ricchezza, e l’arte, passando dal grado di apprensione sensoriale a quello simbolico, scopre una conoscenza enigmatica ed esoterica. Scaturisce un linguaggio simbolico-pittografico «dal rapporto con la materia, di cui cerca di scoprire l’anima, e si articola nei modi più vaghi giacché la materia suggerisce, e non parla, allude e non spiega» (Battisti). In analogia al gusto corrente della piena evidenza, sono accentuate ed esasperate nell’arte le qualità fisiche primarie delle cose, e l’elaborazione della materia avviene in forma biomorfica, spesso animalesca, applicando su una vasta serie di associazioni immagini e segni zoomorfi anche al regno minerale. Nell’aria, nell’acqua, nella terra e nel fuoco germoglia una pleiade di esseri incredibili e mostruosi. E si pensi all’accenno, nel Messaggiero tassiano, alla luce come elemento dove sono immersi gli dèi, e all’affermazione che i dèmoni sono necessari perché l’aria sia «adorna» di elementi vitali, non bastando gli uccelli, che nell’aria non riposano; o al ribadire il concetto neoplatonico e ficiniano dell’universo come «un grande animale vivente» alla stregua dell’uomo. In tal modo tutte le cose, piante, animali, minerali, appaiono animate dal sentimento per rendersi conformi ai disegni misteriosi della volontà divina, riempite ciascuna di una propria «anima». L’arte, in gara con la natura per renderne il senso interno, finisce per svolgere con ambigua complessità l’originario naturalismo; anziché al processo razionale di sviluppo delle forme l’occhio va alla loro essenza misteriosa, e dovunque, anche nelle comuni apparenze, ci si addestra a cogliere un significato tutto particolare. Nasce un paesaggio che, «anche quando non è propriamente fantastico,raramente è comune» – come in letteratura non lo era già col Sannazaro, che con tutta l’aspirazione alla natura genuina aveva preso a fantasticare delle montagne «più deserte», delle valli «singolari e straordinarie», dei prati «intatti», degli alberi «straordinariamente frondosi» –; e dove alla fine (ricorda il Bousquet) s’impiantano in pittura sfondi da paradiso terrestre o radure dove possono giocare le ninfe e riposare gli dèi, e le rocce son tagliate in modo fantastico con grotte enormi e strapiombi vertiginosi, mentre le foreste allineano alberi intricati dai rami penduli come liane e dai tronchi mostruosamente contorti.
L’immagine, prima compatta, si disintegra; ed è caratteristico come le cose siano considerate ciascuna singolarmente, quasi eccepite nello spazio (Argan). Agli oggetti si guarda come a res ben individuate, riempite ognuna di un’anima; donde la tendenza a frazionare l’insieme dei fenomeni in altrettante individualità «aggettivali». In tal modo, accanto all’infusione ovunque di un afflato cosmico, sorge una minuta proliferazione di forme, che finirà per assumere gli aspetti di un surrealismo magico; e si pensi nella letteratura alle descrizioni di mostri, arpie, idre, gorgoni, sfingi ecc., da Rabelais a Ronsard a Spenser, e, fra noi, dopo l’Ariosto, al Tasso; e soprattutto, in pittura, alla straordinaria tematica analoga, specie al nord, da Bosch a Grünewald, da Brueghel a Martin de Vos, e, da noi, alle decorazioni del Palazzo Te a Mantova di Giulio Romano, e al parco di Bomarzo. In un tipo siffatto di rappresentazione naturale è chiara la parte che assumono magia e astrologia. Ed è logico, per tornare al Tasso, che – se pure l’affermarsi di tali tendenze rispondeva al carattere dell’uomo e al gusto dell’infaticabile lettore dello strano e dell’inedito – l’interpretazione delle cose vada in modo tutt’altro che razionale. Non dunque, come si è ritenuto, soltanto un aspetto patologico di quella mentalità; ma un mezzo vero e proprio d’interpretazione del reale; che, sia pure in un’atmosfera definitivamente mitologica, o propensa a sfociare nel mitologico, non veniva meno allo scopo di rappresentare certe credenze di fondo, tonificate da una versatilità ambiguamente religiosa e in rispondenza all’irrazionalismo vitalistico del sentimento dell’essere.
Avviene così che la natura, oltre a essere infestata dai soliti nocivi interventi diabolici, appare tutto un pullulante semenzaio di forze occulte. E s’intende come, ancorata all’animismo e al pampsichismo la sua visione del cosmo, il Tasso finisca per attingervi quel sospiro verso l’ignoto, quel profondo smarrimento e quel dominante «sentimento della solitudine dell’uomo» (Getto) che determinano il senso universale della sua poesia. Negli spessori di una visione inquieta e turbata, nel tendere verso l’«ignoto», l’«infinito», l’«antico», le immagini s’infondono anche più di quanto convenga di allusive vibrazioni: e un’anima oscura sembra riempire le figure della emblematica astrologica, si tratti del comune avvicendarsi diurno e notturno, si tratti soprattutto di eventi dannosi e maligni come la siccità, regolati dalle «crudeli stelle», dai tristi presagi del sole e dall’«avara luna».
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