Giorni in Birmania

George Orwell

Giorni in Birmania

Traduzione di Giovanna Caracciolo

Introduzione di Mario Maffi

Mondadori

Introduzione

Ai margini dell’impero

Burmese Days (Giorni in Birmania, uscito nel 1934 negli Stati Uniti e nel 1935 in Gran Bretagna), primo romanzo di Eric Arthur Blair alias George Orwell (1903-1950) dopo l’autobiografico Down and Out in Paris and London (1933),1 è senza dubbio un’aspra denuncia del colonialismo inglese, scritta da una “penna intinta nel fiele” come ebbe a dire un recensore anonimo e piuttosto risentito.2 Una denuncia così aspra da renderne travagliatissime le vicende editoriali in una Gran Bretagna che pure, una decina d’anni prima, aveva conosciuto un’opera tutt’altro che tenera nei confronti del passato-presente imperiale come A Passage to India (Passaggio in India, 1924) di E.M. Forster.

Ma Giorni in Birmania è anche, e forse soprattutto, un romanzo incentrato sulla tematica dei codici di comportamento e delle conseguenze della loro infrazione, con un sapore qua e là hemingwaiano, dello Hemingway, tanto per intenderci, di The Short Happy Life of Francis Macomber (La breve vita felice di Francis Macomber, 1936), posteriore di un paio d’anni. La vicenda di John Flory ha luogo a Kyauktada, piccolo avamposto dell’impero nella Birmania superiore, durante gli anni immediatamente successivi alla prima campagna (1920-22) della Satyagraha, la resistenza passiva contro il dominio britannico. L’impero è malato, scricchiola da più parti, e l’alcol ne è ormai l’unico cemento, come afferma sarcastico Flory (“Sono i liquori che fanno andare la macchina”). Nel microcosmo di Kyauktada, il pugno di inglesi – quegli angloindiani gonfi di “whisky e Edgar Wallace”, di patriottismo e di nostalgia per una Gran Bretagna più mitizzata che reale, con quelle mogli convenzionali fino alla banalità, succubi e asessuate – cerca di tenersi a galla grazie all’osservanza di una serie di codici di comportamento, di norme più o meno tacitamente riconosciute. Qualunque infrazione si traduce non solo in un affronto, in un delitto di lesa maestà, ma in una vera e propria minaccia, in un indebolimento dell’autorità dell’uomo bianco sui sudditi:

… gli fece una predica mordace prendendo come tema cinque tra le principali beatitudini del pukka sahib. Ossia:

Mantenere alto il nostro prestigio.

Mano ferma (senza guanto di velluto).

Noi uomini bianchi dobbiamo spalleggiarci.

Da’ loro un dito e si prenderanno il braccio.

Esprit de corps.

Della comunità bianca di Kyauktada, John Flory è un membro a pieno titolo. È un angloindiano, possiede interessi economici nella regione (è mercante di legnami), frequenta il club, beve abbondantemente, ha un’amante birmana come si conviene a uno scapolo trentacinquenne alla periferia dell’impero… Ma è anche un individuo solitario, che di quel gruppo non riesce a far parte fino in fondo, armonicamente. Glielo impediscono alcune sue caratteristiche: legge, per esempio, ma non Edgar Wallace; è attratto dalla civiltà orientale; intrattiene rapporti amichevoli con gli indigeni e in particolare con il dottor Veraswami; in una parola, non si riconosce in quei codici di comportamento, anche se non lo proclama apertamente. È un outsider che si muove ai margini della comunità, ne entra e ne esce, e questa sua posizione eccentrica è come tradotta in segno dal marchio che reca sul viso: “Una voglia scura che, a forma di mezzaluna frastagliata, gli attraversava la guancia sinistra, dall’occhio sino all’angolo della bocca”.

È una “deformità” che da sempre grava su di lui, paralizzandolo al momento dell’azione col fargli sentire la sua diversità. E che va ad aggiungersi a quel “morbo” che appesta il conquistatore inglese e lo distrugge a poco a poco consumandone ogni spessore umano. Di questo “morbo”, che Flory tenta angosciosamente di combattere, George Orwell (ufficiale dell’Indian Imperial Police tra il 1922 e il 1928) avrebbe scritto nel saggio del 1936 Shooting an Elephant:

… fu in quel momento, mentre me ne stavo lì col fucile in mano, che mi apparve per la prima volta chiara tutta la falsità, tutta la futilità, del dominio dell’uomo bianco in Oriente. Eccomi là, l’uomo bianco con il suo fucile, davanti alla folla degli indigeni disarmati – in apparenza il protagonista della rappresentazione; ma in realtà ero soltanto un assurdo burattino, fatto ballare di qua e di là dalla volontà di quelle facce gialle alle mie spalle. Compresi in quel momento che quando l’uomo bianco si trasforma in tiranno è la propria libertà che egli distrugge. Diventa una specie di vuoto manichino dalle pose artificiali, la figura stereotipata del sahib. La condizione essenziale del suo dominio è che dedichi tutta la vita a cercare di impressionare gli “indigeni”, e così in ogni crisi l’uomo bianco è costretto a fare quello che gli “indigeni” si aspettano da lui. Indossa una maschera e la sua faccia si trasforma fino a aderirvi perfettamente. Dovevo uccidere l’elefante. Mi ero impegnato a farlo quando avevo mandato a prendere il fucile. Un sahib deve comportarsi da sahib; deve apparire risoluto, sapere quali decisioni prendere e agire con precisione. Fare tutta quella strada, col fucile in mano e con duemila birmani che mi marciavano alle calcagna, e poi tornare indietro impacciato e incerto, senza avere concluso nulla – no, questo non era possibile. La folla mi avrebbe riso dietro. Tutta la mia vita, e la vita di ogni uomo bianco in Oriente, era una lunga lotta per non farsi ridere dietro.3

Anche il protagonista di Giorni in Birmania è preda di questo “complesso dell’impero”, è schiacciato da questo “fardello dell’uomo bianco” e lotta “per non farsi ridere dietro”. Ma, non riconoscendosi nei codici di comportamento della comunità dei sahib, è doppiamente vulnerabile: è un individuo sradicato che si muove tra due mondi, con il rischio di “farsi ridere dietro” da entrambi e di non trovare o ritrovare più una propria collocazione.

Sul piano esistenziale e psicologico, gli effetti di questa condizione sono devastanti: John Flory accumula dentro di sé un potenziale esplosivo di odio per l’impero in tutte le sue manifestazioni, ma è incapace di agire; quella “voglia scura” che proclama al mondo intero la sua diversità vanifica ogni sia pur debole tentativo di uscire dalla paralisi. Questa pusillanimità è sì un tratto caratteristico del sahib, ma negli altri angloindiani, proprio in virtù della scrupolosa osservanza di quei codici, si maschera di arroganza, di fanatismo patriottico, di virilità più che altro proclamata, o nelle donne si traduce in isterismo, dipendenza dal maschio, fame di status. In Flory, invece, essa affiora con prepotenza assoluta, conferendogli una dimensione angosciosamente amletica. Gli unici momenti in cui il mercante di legnami trova pace sono quelli in cui – molto simile qui allo hemingwaiano Nick Adams di The Big Two-Hearted River (Grande fiume dai due cuori, 1925) si rifugia nella giungla, immergendosi nella natura.

Quando la comunità angloindiana si accresce di una unità, nella persona della giovane Elizabeth Lackersteen, John Flory s’illude di avere trovato un’alleata con cui sconfiggere la propria solitudine. Ma Elizabeth non è altro che un tipico – e neppure troppo intelligente – prodotto femminile imperiale. Come gli altri, è “un assurdo burattino” alla ricerca della giusta maschera da indossare, al prezzo della rinuncia alla propria umanità. Se ne ha la prova quando la ragazza si ritrae inorridita e disgustata dalla festa indigena cui Flory l’ha condotta: il trionfo del corpo, della “fisicità”, celebrato da quei canti e da quei balli, è inconciliabile con l’osservanza dei codici angloindiani, con il rispetto del ruolo che la ragazza sta a poco a poco assumendo.