Elizabeth è “insensibile al fascino e ai valori della civiltà birmana e riesce a rispondere soltanto alle sollecitazioni connesse con atti di distruzione”.4
È così che l’unico momento di intimità quasi fisica fra John ed Elizabeth si verifica nel corso della caccia, con toni ancora una volta prepotentemente hemingwaiani. Si tratterà però di un momento fuggevole, insufficiente ad arrestare o invertire, nella ragazza, il processo di totale integrazione nel modus vivendi dell’uomo bianco in Oriente e, nel mercante, il deterministico approfondirsi della sua emarginazione. Il tentativo di Flory di fare ammettere il dottor Veraswami all’interno del club, cittadella angloindiana, naufraga miseramente nonostante l’aureola di eroismo che Flory s’è conquistata negli avvenimenti connessi alla sommossa indigena, e al protagonista non rimane che un colpo di rivoltella come ultima, drastica decisione. Attraverso tutta la vicenda, ha operato in modo più o meno sotterraneo un complesso di determinazioni materiali, sociali, psicologiche, contro le quali nulla poteva la fragile e incerta resistenza dell’individuo John Flory; e il deus ex machina, l’entità maligna che si muove dietro le quinte riassumendo in sé queste determinazioni, l’infido parassita U Po Kyin, potrà infine celebrare il proprio trionfo. Della ribellione del mercante di legnami non resterà traccia nella comunità di Kyauktada, microcosmo di un impero che va sgretolandosi.
Una delle prime incursioni orwelliane nella narrativa, Giorni in Birmania rivela abbastanza chiaramente i propri limiti, con quell’impianto tradizionale, di un naturalismo che sconfina a volte nell’ovvietà e non va esente da cadute di tono (Flory che salva Elizabeth dal bufalo, la dichiarazione d’amore interrotta dal terremoto, un’aura di romance che avvolge il corteggiamento, l’assoluta malvagità di U Po Kyin, il capitolo riassuntivo finale). Ma proprio in quanto “opera prima” il romanzo possiede anche indubbie qualità, che anticipano l’Orwell maturo.
Così, la descrizione dell’ambiente angloindiano ha una sua forza polemica che trascende il risentimento personale, autobiografico, dell’autore, e annuncia la satira sferzante e icastica che sarà propria di opere successive di ben altro spessore. Ed è vero che i “bianchi” sono meno credibili degli “indigeni”, che U Po Kyin risulta più a tutto tondo di un MacGregor o di un Westfield, ma questo ci permette anche di cogliere meglio quella caratteristica di burattini legnosi e scomposti che Orwell attribuisce ai sahib. D’altra parte, il rovello di Flory, combattuto tra desiderio di difendere il proprio mondo interiore, separato, e bisogno di aggredire la realtà esterna, modificandone gli equilibri, è reso con toni convincenti e contenuti, mentre fa capolino, con una forza tutta propria, quella natura dotata di potenzialità rigeneratrici che sarà poi una costante negli scritti successivi.
Ma soprattutto Orwell indaga qui ed elabora quello che sarà il suo tema principale, il punto in cui narrativa e autobiografia finiscono per convergere e intersecarsi, al di là delle forme letterarie di volta in volta assunte: il tema dell’individuo che abbandona il proprio mondo d’origine e si muove ai margini, in cerca di una nuova terra di elezione. Giorni in Birmania, sebbene venga dopo Senza un soldo a Parigi e a Londra, si pone in realtà come primo titolo nella biobibliografia orwelliana, poiché segna e registra il distacco di Eric Arthur Blair dall’impero, dai suoi “complessi” e dai suoi “fardelli”, e annuncia la nascita di George Orwell, scrittore e giornalista in cerca di una nuova collocazione sociale, culturale e psicologica. E se Giorni in Birmania si conclude all’insegna del pessimismo, è un pessimismo nutrito da un lato dalla comprensione che questo “muoversi ai margini” non è frutto di scelte o di libero arbitrio, ma è conseguenza di determinazioni squisitamente materiali, e dall’altro dal riconoscimento della futilità di una ribellione individuale.
Dopo l’esperienza birmana, George Orwell si dedicherà con assoluta coerenza e onestà intellettuale alla ricerca della nuova comunità in cui mettere radici; la cercherà tra i vagabondi, gli emarginati, gli straccioni di Londra e Parigi, e poi fra i minatori dell’Inghilterra settentrionale (The Road to Wigan Pier, 1937),5 e la troverà sia pure per poco tra i miliziani spagnoli durante la guerra civile (Homage to Catalonia, 1938).6 Che questa ricerca non dovesse concludersi, che le nuove radici non dovessero in ultima analisi affondare da nessuna parte e che dopo l’esperienza spagnola non rimanessero che gli incubi più o meno alleviati dalla satira di Animal Farm (1945)7 e Nineteen Eighty-Four (1949),8 tutto ciò rimanda alla tragedia che si compì in quel periodo intorno a George Orwell, la tragedia di forze storiche che gli impedirono (negli anni del fascismo, dello stalinismo, della democrazia imperialista, della Seconda guerra mondiale) di trovare quella collocazione e di comprendere a fondo il perché di quegli avvenimenti.
In questo suo destino individuale, concluso non da un colpo di pistola ma dalla tubercolosi, George Orwell è molto vicino a John Flory.
Mario Maffi
1. G. Orwell, Down and Out in Paris and London, Gollancz, London 1933 (trad. it. Senza un soldo a Parigi e a Londra, Mondadori, Milano 1966).
2. «Times Literary Supplement», 18 luglio 1935 (recensione non firmata).
3. G. Orwell, Shooting an Elephant and Other Essays, Secker & Warburg, London 1950 (trad. it. Uccidendo un elefante, in G. Orwell, Giorni in Birmania, Longanesi, Milano 1975, pp. 23-24).
4. Gianni Zanmarchi, Presentazione a G. Orwell, Giorni in Birmania, cit., p. 9; di Zanmarchi si veda anche l’utile Invito alla lettura di George Orwell, Mursia, Milano 1975.
5. G. Orwell, The Road to Wigan Pier, Gollancz, London 1937 (trad. it. La strada di Wigan Pier, Mondadori, Milano 1960).
6. G. Orwell, Homage to Catalonia, Secker & Warburg, London 1938 (trad.
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