Portava ovunque con sé, non poteva non saperlo, la torcia della sua bellezza; la portava bene eretta in ogni stanza in cui entrava; e dopo tutto, per quanto potesse velarla, per quanto potesse dispiacerle la monotonia di quel peso da portare costantemente, la sua bellezza era palese. Era stata ammirata. Era stata amata. Era entrata in stanze in cui sedeva gente in lutto. In sua presenza la gente aveva versato lacrime. Uomini, e anche donne, rinunciando alla molteplicità delle cose, si erano concessi con lei il sollievo della semplicità. La offendeva che lui si ritraesse da lei. La addolorava. Pure, non era sano, non era giusto. Questo le dispiaceva, questo che si aggiungeva alla scontentezza che provava nei confronti del marito; la sensazione che ora provava, quando Carmichael le passò davanti trascinando i piedi, rispondendo con un cenno appena alla sua domanda, un libro sotto il braccio, le pantofole gialle, di essere sospettata; e che tutto quel suo desiderio di dare, di aiutare, non fosse che vanità. Era forse per una sua personale soddisfazione che desiderava così istintivamente di aiutare, di dare, perché si dicesse di lei: “Oh, la signora Ramsay! la cara signora Ramsay... ma certo, la signora Ramsay!” e si avesse bisogno di lei e la si cercasse e la si ammirasse? Non era questo che segretamente voleva? e di conseguenza quando Carmichael si ritraeva da lei, come fece ora, rifugiandosi in un angolo dove faceva ininterrottamente acrostici, non si sentiva semplicemente respinta nel suo istinto, ma veniva resa consapevole della meschinità di una parte di sé, e dei rapporti umani, di quanto fossero viziati, spregevoli, egoisti, nel migliore dei casi. Logora e stanca, e probabilmente non più una vista (le guance scavate, i capelli bianchi) che riempisse gli occhi di gioia, avrebbe fatto meglio a dedicarsi alla favola del Pescatore e di sua Moglie e a placare quel fascio di sensibilità (nessuno dei ragazzi era sensibile come lui), suo figlio James. 

«Il cuore dell’uomo si fece pesante» lesse a alta voce «e non voleva andare. Disse a sé stesso: “Non è giusto”,  e tuttavia andò. E quando giunse al mare l’acqua era violacea e di un azzurro cupo, e grigia e pesante, e non più verde e gialla; ma era sempre tranquilla. E lui si fermò là e disse.. 

La signora Ramsay avrebbe voluto che il marito non  scegliesse proprio quel momento per interrompere. Perché non era andato come aveva detto a vedere i ragazzi che  giocavano a cricket? Ma lui non parlò; guardò; annuì; approvò; e proseguì. Vedendo davanti a sé quella siepe che  aveva tante e tante volte sottolineato una pausa, espresso una conclusione, vedendo la moglie e il figlio, vedendo le anfore con i rossi gerani rampicanti che avevano spesso ornato processi mentali, e portavano, scritti tra le foglie, quasi fossero pezzi di carta sui quali si annota qualcosa  nella fretta di leggere... vedendo tutto questo scivolò serenamente nelle riflessioni suggerite da un articolo del  «Times» sul numero di americani che visitano ogni anno la casa di Shakespeare. Se Shakespeare non fosse mai esistito, si chiedeva, il mondo sarebbe molto diverso da quello che era oggi? Il progresso della civiltà dipende dai grandi uomini? Il destino dell’uomo comune è migliore ora di quello che era ai tempi dei Faraoni? D’altro canto, si chiedeva, il destino dell’uomo comune è il criterio sulla cui base misurare il grado di civiltà? Forse no. Forse il maggior benessere richiede l’esistenza di una classe di schiavi. Il fattorino dell’ascensore in metropolitana è una necessità eterna. Il pensiero gliene riusciva sgradito. Scosse il capo. Per evitarlo, avrebbe trovato il modo di ridimensionare il predominio delle arti. Avrebbe sostenuto che il mondo esiste per l’uomo comune; che le arti sono soltanto un ornamento posto sulla superfìcie della vita umana; non la esprimono. Né Shakespeare è necessario alla vita umana.  Non sapendo bene perché volesse deprezzare Shakespeare e andare alla riscossa dell’uomo che sta perennemente alla porta dell’ascensore, colse seccamente una foglia dalla siepe. Tutto quello sarebbe poi stato necessario cucinarlo chiaramente per i ragazzi a Cardiff il mese prossimo; là, sulla sua veranda, stava soltanto procurandosi del cibo e facendo un picnic (gettò via la foglia che aveva colto tanto stizzosamente) come un uomo che si sporge dal cavallo per prendere un mazzo di rose, o si riempie le tasche di noci mentre si muove a suo agio nei viali e nei prati di una campagna che conosce fin dall’infanzia. Tutto era familiare; quella svolta, quella staccionata, quella scorciatoia tra i campi. Trascorreva ore intere così, di sera, con la pipa, pensando su e giù e dentro e fuori i vecchi viali familiari e i parchi, tutti segnati qua dalla storia di una battaglia, là dalla vita di uno statista, da poesie e aneddoti, e personaggi, un filosofo, un soldato; tutto molto vivace e nitido; ma infine il viale, il prato, il parco, l’albero di noci e la siepe fiorita lo conducevano a quella svolta più lontana della strada dove smontava sempre, legava il cavallo a un albero e continuava a piedi.