Sì, aveva detto Charles Tansley, il mare era piuttosto agitato. « Non è bagnato fino all’osso?» aveva chiesto lei. «Umido, non proprio bagnato» aveva risposto Tansley toccandosi la manica, tastandosi le calze.
Ma non erano queste cose a disturbarli, dicevano i ragazzi. Non era il suo viso; non erano i suoi modi. Era lui —il suo punto di vista. Quando parlavano di un argomento interessante, la gente, la musica, la storia, qualsiasi cosa, o soltanto dicevano che era una bella serata, perché non andare a sedere fuori, quello che li indispettiva in Charles Tansley era che non si sentiva tranquillo fino a quando non aveva esaminato e riesaminato la cosa sotto tutti gli aspetti, affinché quella in certo modo gettasse una luce favorevole su di lui e sfavorevole su di loro, fino a quando non era riuscito a seminare l’ansia tra loro con quel suo acido privare ogni cosa della carne e del sangue. E quando andava a visitare gallerie d’arte, dicevano, ti chiedeva se ti piaceva la sua cravatta. E come era mai possibile che piacesse, diceva Rose.
Svanendo dalla tavola furtivi come spie appena finita la cena, gli otto figli del signore e la signora Ramsay si dirigevano nelle loro camere da letto, la loro fortezza in una casa dove non c’era altro luogo in cui discutere in privato di qualsiasi cosa; della cravatta di Tansley; del voto sulla legge di riforma; degli uccelli marini e delle farfalle; della gente; mentre il sole entrava a fiotti nelle mansarde che soltanto un divisorio di legno separava tra loro così che si poteva sentire con chiarezza ogni passo e il pianto della ragazza svizzera per il padre che stava morendo di cancro in una vallata dei Grigioni, e illuminava mazze, abiti sportivi, cappelli di paglia, calamai, barattoli di pittura, scarabei, e teschi di uccellini, mentre traeva dalle lunghe strisce arricciate di alghe appuntate al muro un odore di sale e di mare, che si sentiva anche negli asciugamani, ruvidi della sabbia dei bagni.
Discordia, divisioni, differenze di opinioni, pregiudizi erano intessuti nella fibra stessa dell’essere, oh quanto deplorava la signora Ramsay che iniziassero così presto.
Erano tanto critici i suoi figli. Dicevano tante sciocchezze. Lasciò la sala da pranzo tenendo per mano James, che non voleva andare con gli altri. Le sembrava così assurdo — inventare nuove differenze, quando le persone erano già sin troppo diverse le une dalle altre. Le differenze reali, pensava, in piedi alla finestra del salotto, sono sufficienti, più che sufficienti. In quel momento pensava ai ricchi e ai poveri, ai potenti e agli umili; i grandi per nascita ottenevano da lei, un po’ di malavoglia, un certo rispetto, poiché non aveva forse nelle vene il sangue di quella casata italiana di grande nobiltà, seppure lievemente mitica, le cui figlie, disseminate nei salotti inglesi nel diciannovesimo secolo, avevano sussurrato in modo così adorabilmente lezioso, avevano conquistato tanto tempestosamente, e lo spirito e l’eleganza e la vivacità del carattere non le venivano forse da loro, e non dai lenti inglesi, o dai freddi scozzesi? tuttavia meditava più intensamente sull’altro problema, dei ricchi e dei poveri, e delle cose che vedeva con i suoi occhi, ogni settimana, ogni giorno, qui o a Londra, quando andava a trovare una vedova o una moglie che lottava per sopravvivere, con una borsa a un braccio e un blocco d’appunti e una matita con cui scriveva in colonne accuratamente tracciate salari e spese, lavoro e disoccupazione, sperando che così non sarebbe stata più una donna la cui carità era in parte un modo di placare la propria indignazione, in parte un sollievo per la propria curiosità, ma quello che la sua mente incolta ammirava profondamente, una studiosa che analizzava la problematica sociale.
Erano problemi insolubili, pensava mentre se ne stava là in piedi, tenendo James per mano. L’aveva seguita in salotto, quel giovane di cui tutti ridevano; era in piedi accanto al tavolo, giocherellando con imbarazzo, sentendosi fuori posto, come lei sapeva bene senza voltarsi. Se ne erano andati tutti — i ragazzi; Minta Doyle e Paul Rayley; Augustus Carmichael; suo marito — se ne erano andati tutti. E lei si volse allora con un sospiro e disse: «La annoierebbe venire con me, Tansley?».
Doveva andare in paese per una noiosa commissione; doveva scrivere una o due lettere; le ci sarebbero voluti forse dieci minuti; andava a mettersi il cappello. E con il cestino e il parasole era di nuovo là dieci minuti dopo, con l’aria di chi era pronto, equipaggiato per una scampagnata che, tuttavia, doveva interrompere un momento, mentre passavano davanti al campo da tennis, per chiedere a Carmichael, che se ne stava al sole con i dorati occhi da gatto socchiusi, così che, proprio come gli occhi di un gatto, sembravano riflettere il muoversi dei rami o il passaggio delle nuvole, senza tuttavia rivelare nulla di intimi pensieri o emozioni, se avesse bisogno di qualcosa.
Poiché erano in cammino per il grande viaggio, disse, ridendo. Andavano in paese. «Francobolli, carta da lettere, tabacco?» suggerì, fermandoglisi accanto. Ma no, non gli serviva nulla. Le mani incrociate sulla cospicua pancia, socchiuse gli occhi, quasi avesse desiderato rispondere cortesemente a quelle blandizie (lei era seducente, ma un po’ inquieta) ma non potesse farlo, sprofondato com’era in una sonnolenza verde-grigia che li avvolgeva tutti, senza alcun bisogno di parole, in una vasta e benevola letargia di buone intenzioni; il mondo intero; tutti quanti lo abitavano, poiché aveva versato nel suo bicchiere a pranzo poche gocce di qualcosa, il che spiegava, pensavano i ragazzi, la vivida sfumatura di giallo canarino nei baffi e nella barba che erano di consueto bianchi come il latte. Non aveva bisogno di nulla, mormorò.
Avrebbe potuto essere un grande filosofo, spiegò la signora Ramsay mentre scendevano la strada verso il villaggio di pescatori, ma aveva fatto un matrimonio sfortunato. Tenendo ben ritto il parasole, e muovendosi con una indescrivibile aria di attesa, quasi dovesse incontrare qualcuno appena girato l’angolo, raccontò la storia; una relazione a Oxford con una ragazza; un matrimonio prematuro; la povertà; la partenza per l’India; qualche traduzione di poesia «molto belle, credo», la disponibilità a insegnare ai ragazzi il persiano e l’indostano, ma a che cosa poteva servire? — e poi rimanersene sdraiato, così come l’avevano visto, sul prato.
Lo lusingava; dopo essere stato trattato con tanta scortese indifferenza, era un balsamo per lui che la signora Ramsay gli dicesse quelle cose. Charles Tansley si sentiva rivivere. Affermando implicitamente, poi, come aveva fatto, la grandezza dell’intelletto dell’uomo, anche nella decadenza, e la subordinazione di tutte le mogli — non che biasimasse la ragazza, e credeva che il matrimonio fosse stato in fondo felice — all’attività del marito, lo faceva sentire più soddisfatto di sé di quanto fosse mai stato, e gli sarebbe piaciuto, se, per esempio, avessero preso un taxi, pagare la tariffa. E quanto alla borsa che lei portava, non poteva prenderla? No, no, rispose, quella la portava sempre lei. E era vero. Sì, Tansley lo sentiva. Sentiva molte cose, qualcosa in particolare che lo eccitava e lo turbava per ragioni che non avrebbe saputo spiegare. Gli sarebbe piaciuto che lei lo vedesse, in toga e tocco, mentre sfilava in corteo.
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