Il suo filo

s'è rotto; e si sente dai tufi,

dall'inaccessibile asilo

                dei gufi,

                la morte che fiata.

  E piccolo il sole che muore,

gli appare traverso la cruna

dell'ago. Egli dice nel cuore:

                - Ti lodo, Fortuna!

               

III

  Nel mondo a te piacque gettare

tuo figlio, terribile e gaia,

siccome al fanciullo, nel mare,

                la ghiaia

                che sbalzi su l'onde.

  Ma tutto m'hai dato a ch'io viva:

la mano, che regge la croce,

il piede, che mai non arriva,

                la voce,

                cui niuno risponde.

  M'hai dato la dolce speranza

che arretra se il cuore si avvia,

l'immemore cuore che avanza

                su nave che scìa.

               

IV

  Ho errato seguendo le foglie

che il vento sospinge per gioco,

sostando non più che alle soglie,

                per poco,

                tra l'ira dei cani.

  Ho errato nel mondo sì bello,

seguìto da un cupo latrato,

tendendo all'oblìo del fratello

                mutato

                le simili mani.

  Son giunto: alla tomba; che trova

contigua la querula cuna,

com'onda, ad ogni attimo nuova,

                ritrova la duna.

 

V

  Se a me non fu dato vederti

mai, ora non, avida ancora,

tentando le palpebre inerti,

                lavora

                la cieca pupilla.

  Se non mi porgesti né un sorso

di dolce, le fauci inquiete

non m'arde con vano rimorso

                la sete

                dell'ultima stilla.

  Non vidi che nero, non bebbi

che fiele; ma ingrato non sono:

ti lodo per ciò che non ebbi;

                che non abbandono.

 

VI

  Non ebbi il superbo banchetto

tra quelli che aspettano al canto

le miche: e né letto né tetto,

                tra tanto

                di popolo nudo.

  Non verso nell'ultimo istante

la lagrima vile a versarsi:

la prima! la sola! E le tante

                ch'io sparsi,

                con gli occhi le chiudo.

  Io nudo, bussando alle porte,

ti dico, nell'ora che imbruna:

Di dolce sol ebbi la morte;

                ma tutto è quest'una!

 

VII

  Io t'amo pel freddo e lo stento,

l'insonnia, il digiuno, l'affanno,

cui devo che senza sgomento,

                che fanno

                ch'esperto io rimuoia.

  Io t'amo perch'ora meschino

non chiedo, felice non rendo;

ma stanco del lungo cammino

                discendo

                senz'onta di gioia;

  discendo laggiù tra le grame

mie genti, nel mondo che tace,

tra gli umili morti di fame

che dormono in pace. -

 

VIII

  Su l'orlo d'un lago nei monti,

fra stridulo ansare di grilli,

sul lago in cui, luna che monti,

                scintilli,

                c'è un nero, c'è un mucchio

  di squallidi cenci e di membra,

c'è un uomo con gli occhi rivolti

nel lago, e che attonito sembra

                che ascolti

                l'eterno risucchio:

  e simile a sogno di nulla,

nell'acqua c'è l'ombra sua bruna,

che appena si dondola e culla

nel lume di luna.

 

 

54. Ov'è?

 

  C'è uno di nuovo stamane

su nella casa solitaria.

Dall'uscio leva il muso il cane,

ne odora la vocina in aria.

Eppure fu notte serena!

né l'uscio sui gangheri appena

                ciulì...

               

  Non l'hanno (che dicono?) preso

in una ceppa di castagno!

Stanotte si sarebbe inteso

nel gran silenzio quel suo lagno.

Invece nei prati tranquilli

non c'era che il canto dei grilli:

                tri... tri...

  Non l'hanno comprato alla fiera,

non l'hanno avuto dal convento.

Stanotte per le vie non c'era

che qualche scalpiccìo del vento;

e intorno alle tacite case

poi sola la voce rimase

                del chiù.

  Le case eran tacite, chiare

le vie; dormiva il cane all'uscio.

In casa egli dovette entrare,

come il pulcino nel suo guscio!

Cadevano stelle celesti,

brillando... Oh! dal cielo cadesti

                pur tu!

  Dal cielo! Dal cielo! che piove

la guazza su le dure zolle.

Tu sei caduto, e non sai dove,

e giri l'occhio tutto molle.

Non fu la caduta di nulla!

Ma c'era una morbida culla

                per te!

  Oh! il mondo in cui oggi ti trovi,

del tuo cielo non t'è più caro!

fai tante rughe! e sempre muovi

la bocca, che ci senti amaro!

Oh! il cielo! il tuo cielo! e ne chiedi

col fievole grido a chi vedi:

                ov'è? ov'è?

  Ne chiedi ai ragazzi, col giorno

venuti sopra il piè leggieri,

e alle rondini che intorno

passano come lampi neri.

Né più, tra il bisbiglio e il sussurro,

capisci il tuo cielo d'azzurro

                dov'è!

  Zitti!... ora non chiede più nulla:

dov'è, sua madre gliel'ha detto.

A lei lo porser dalla culla;

la mamma se l'è messo al petto.

Oh! ecco il suo cielo infinito!

e più non si sente il vagito:

                ov'è? ov'è?

 

 

55. La servetta di monte

 

  Sono usciti tutti. La serva

è in cucina, sola e selvaggia.

In un canto siede ed osserva

tanti rami appesi alla staggia.

Fa un giro con gli occhi, e bel bello

ritorna a guardarsi il pannello.

  Non c'è nulla ch'essa conosca.

Tutto pende tacito e tetro.

E non ode che qualche mosca

che d'un tratto ronza ad un vetro;

non ode che il croccolìo roco

che rende la pentola al fuoco.

  Il musino aguzzo del topo

è apparito ad uno spiraglio.

E` sparito, per venir dopo:

fa già l'acqua qualche sonaglio...

Lontano lontano lontano

si sente sonare un campano.

  E` un muletto per il sentiero,

che s'arrampica su su su;

che tra i faggi piccolo e nero

si vede e non si vede più.

Ma il suo campanaccio si sente

sonare continuamente.

  E` forse anco un'ora di giorno.

C'è nell'aria un fiocco di luna.

Come è dolce questo ritorno

nella sera che non imbruna!

per una di queste serate!

tra tanto odorino d'estate!

  La ragazza guarda, e non sente

più il campano che a quando a quando.

Glielo vela forse il torrente

che a' suoi piedi cade scrosciando;

se forse non glielo nasconde

la brezza che scuote le fronde;

  od il canto dell'usignolo

che, tacendo passero e cincia,

solo solo con l'assiuolo

la sua lunga veglia comincia,

ch'ha fine su l'alba, alla squilla,

nel cielo, della tottavilla.

 

 

56. Addio!

 

Dunque, rondini rondini, addio!

 

Dunque andate, dunque ci lasciate

per paesi tanto a noi lontani.

E` finita qui la rossa estate.

Appassisce l'orto: i miei gerani

più non hanno che i becchi di gru.

 

Dunque, rondini rondini, addio!

 

Il rosaio qui non fa più rose.

Lungo il Nilo voi le rivedrete.

Volerete sopra le mimose

della Khala, dentro le ulivete

del solingo Achilleo di Corfù.

 

Oh! se, rondini rondini, anch'io...

 

Voi cantate forse morti eroi,

su quest'albe, dalle vostre altane,

quando ascolto voi parlar tra voi

nella vostra lingua di gitane,

una lingua che più non si sa.

 

Oh! se, rondini rondini, anch'io...

 

O son forse gli ultimi consigli

ai piccini per il lungo volo.

Rampicati stanno al muro i figli

che al lor nido con un grido solo

si rivolgono a dire: Si va?

 

Dunque, rondini rondini, addio!

 

Non saranno quelle che le case

han murato questo marzo scorso,

che a rifarne forse le cimase

strisceranno sopra il Rio dell'Orso,

che rugliava, e non mormora più.

 

Dunque, rondini rondini, addio!

 

Ma saranno pur gli stessi voli;

ma saranno pur gli stessi gridi;

quella gioia, per gli stessi soli;

quell'amore, negli stessi nidi;

risarà tutto quello che fu.

 

Oh! se, rondini rondini, anch'io...

 

io li avessi quattro rondinotti

dentro questo nido mio di sassi!

ch'io vegliassi nelle dolci notti,

che in un mesto giorno abbandonassi

alla libera serenità!

 

Oh! se, rondini rondini, anch'io...

 

rivolando su le vite loro,

ritrovando l'alba del mio giorno,

rimurassi sempre il mio lavoro,

ricantassi sempre il mio ritorno,

mio ritorno dal mondo di là!

 

 

57. Il ritratto

 

I

  Nel collegio d'Urbino il mio fratello

faceva in grande un piccolo ritratto.

Quando il già fatto a noi parea pur bello,

sotto la gomma il bello era già sfatto.

  Tornavamo scontenti alla finestra

per guardare, intrecciati alla ringhiera,

se una carrozza per la via maestra

montava nella pace della sera.

  Era pace nei cuori. Era l'esame

passato alfine con le sue lunghe ore:

tranquillo alfine da più dì lo sciame

ronzava nella nuova arnia maggiore.

  Più grande all'improvviso ogni fanciullo

si ritrovava dopo tante acquate;

il boccio apriva i petali in un frullo

meravigliando che già fosse estate;

  e che fosse già colto, anzi, il ciliegio,

ma che di rosa si tingesse il melo;

che fosse tanto verde oltre il collegio,

ch'oltre la scuola fosse tanto cielo.

  Si ronzava: non altro. Fra due scuole

già chiuse, una di fronte, una alle spalle,

nel mezzo c'era l'aria, c'era il sole,

odor di timo e voli di farfalle.

  Ma nell'ore, più brevi ma più lente,

di studio, tra due libri, ch'uno troppo

sapeva e l'altro non sapea più niente,

stanchi del nostro insolito galoppo,

  con tra le mani che sentian di lauro

e di busso, le guancie ancor di fiamma,

noi pensavamo al nostro bel San Mauro,

al babbo atteso d'ora in ora, a mamma...

  Se il babbo, a casa, col più grande ch'era

già di liceo, portava anche noi tre!...

Era quello, lo studio: una preghiera,

prima che al babbo, o Dio presente, a te!

 

II

  Il più grande, un fanciullo esile e bianco,

nostro babbo d'Urbino, al suo ritratto

calmo attendeva; ed ogni tanto al fianco

gli era un di noi che gli chiedeva: E` fatto?

  Quasi... Ma il babbo arriva questa sera.

ed il ritratto non sarà finito!

Tornavamo a intrecciarci alla ringhiera,

a riguardare, ad appuntare il dito,

  a dire, Vedi? a dire, Viene! O belle

serate, fin che il cielo era celeste,

e le vie bianche, e non ardean le stelle

sopra il nero di monti e di foreste!

  Ma crescendo il silenzio, come triste

sonava la campana della cena;

mentre stelle lassù, viste e non viste,

cadevan per l'oscurità serena!

  Oh! non veniva, non veniva ancora!

Il ritratto, sì, forse era venuto.

Anche due segni, l'opera d'un'ora,

di due: sarebbe vivo, benché muto.

  Sì: finito in alcune ore, domani!

e sì: domani, ci sarebbe anch'esso!

Lo spiegherebbe tra le sue due mani,

sorriderebbe tacito a sé stesso;

  e quindi al figlio, al caro primo, al vanto

di casa, al fiore che già dava il frutto:

e poi, con gli occhi molli un po' di pianto;

anche ai minori - Eh! sapevate tutto? ! -

  troverebbe una lode anche per loro...

Domani, dunque, all'ora del tramonto.

Il fanciullo, il domani, era al lavoro;

verso sera il lavoro era già pronto.

  Mancava un nulla. Noi fissi alla via,

a una carrozza che montava su...

Oh! gittò un grido, spinse tutto via,

e tutto in pianto non lavorò più!

 

III

  Era il dieci d'agosto. Era su l'ora

dello scurire. L'ora del ritorno.

Non attese al ritratto egli d'allora

più. Mai più, da quell'ora e da quel giorno.

  Quella sera restammo alla finestra,

ancora, ancora. Ma pareva in vano.

Sì: era, il babbo, in una via maestra:

sì, ma come, ma quanto era lontano!

  Oltre monti, oltre fiumi, oltre pianure,

oltre città. Veniva da Cesena.

Di buon trotto. Non anco erano oscure

le strade. Solo. L'anima, serena.

  Oltre fiumi, città, monti, da un monte,

il caro figlio lo guardava in viso:

ne sfiorava la bianca larga fronte,

sorrideva al suo placido sorriso.

  Oh! mio fratello, che fu mai? La bianca

fronte d'un tratto si macchiò di stille

rosse, la testa in un attimo stanca

per sempre, si piegò, con le pupille

  ferme in eterno... O tu che sei congiunto

a lui, ch'oltre lo spazio, oltre la vita,

vedevi allora, oh! non egli in quel punto

si sentì su la fronte le tue dita?

  La tua carezza non gli fu conforto

tra il sudor freddo e il rompere del sangue?

Non gli fu meglio, o mio fratello morto,

non veder là un doppio teschio esangue

  dietro la siepe, e due vili ombre nere

fuggir nell'ombra; ma veder te, noi?

miseri, sì, per sempre, ma vedere

nella via sola quattro figli suoi?

  Nella via sola, dopo il soprassalto

di pianto, tutti quattro, orfani già,

guardammo ancora. E poi guardammo in alto

cader le stelle nell'oscurità.

 

 

58. La cavalla storna

               

  Nella Torre il silenzio era già alto.

Sussurravano i pioppi del Rio Salto.

  I cavalli normanni alle lor poste

frangean la biada con rumor di croste.

  Là in fondo la cavalla era, selvaggia,

nata tra i pini su la salsa spiaggia;

  che nelle froge avea del mar gli spruzzi

ancora, e gli urli negli orecchi aguzzi.

  Con su la greppia un gomito, da essa

era mia madre; e le dicea sommessa:

  “O cavallina, cavallina storna,

che portavi colui che non ritorna;

  tu capivi il suo cenno ed il suo detto!

Egli ha lasciato un figlio giovinetto;

  il primo d'otto tra miei figli e figlie;

e la sua mano non toccò mai briglie.

  Tu che ti senti ai fianchi l'uragano,

tu dài retta alla sua piccola mano.

  Tu ch'hai nel cuore la marina brulla,

tu dài retta alla sua voce fanciulla”.

  La cavalla volgea la scarna testa

verso mia madre, che dicea più mesta:

  “O cavallina, cavallina storna,

che portavi colui che non ritorna;

  lo so, lo so, che tu l'amavi forte!

Con lui c'eri tu sola e la sua morte.

  O nata in selve tra l'ondate e il vento,

tu tenesti nel cuore il tuo spavento;

  sentendo lasso nella bocca il morso,

nel cuor veloce tu premesti il corso:

  adagio seguitasti la tua via,

perché facesse in pace l'agonia...”

  La scarna lunga testa era daccanto

al dolce viso di mia madre in pianto.

  “O cavallina, cavallina storna,

che portavi colui che non ritorna;

  oh! due parole egli dové pur dire!

E tu capisci, ma non sai ridire.

  Tu con le briglie sciolte tra le zampe,

con dentro gli occhi il fuoco delle vampe,

  con negli orecchi l'eco degli scoppi,

seguitasti la via tra gli alti pioppi:

  lo riportavi tra il morir del sole,

perché udissimo noi le sue parole”.

  Stava attenta la lunga testa fiera.

Mia madre l'abbracciò su la criniera

  “O cavallina, cavallina storna,

portavi a casa sua chi non ritorna!

  a me, chi non ritornerà più mai!

Tu fosti buona... Ma parlar non sai!

  Tu non sai, poverina; altri non osa.

Oh! ma tu devi dirmi una una cosa!

  Tu l'hai veduto l'uomo che l'uccise:

esso t'è qui nelle pupille fise.

  Chi fu? Chi è? Ti voglio dire un nome.

E tu fa cenno. Dio t'insegni, come”.

  Ora, i cavalli non frangean la biada:

dormian sognando il bianco della strada.

  La paglia non battean con l'unghie vuote:

dormian sognando il rullo delle ruote.

  Mia madre alzò nel gran silenzio un dito:

disse un nome... Sonò alto un nitrito.

 

 

59. In ritardo

               

  E l'acqua cade su la morta estate,

e l'acqua scroscia su le morte foglie;

e tutto è chiuso, e intorno le ventate

gettano l'acqua alle inverdite soglie;

  e intorno i tuoni brontolano in aria;

se non qualcuno che rotola giù.

  Apersi un poco la finestra: udii

rugliare in piena due torrenti e un fiume;

  e mi parve d'udir due scoppiettìi

e di vedere un nereggiar di piume.

  O rondinella spersa e solitaria,

per questo tempo come sei qui tu?

  Oh! non è questo un temporale estivo

col giorno buio e con la rosea sera,

sera che par la sera dell'arrivo,

tenera e fresca come a primavera,

  quando, trovati i vecchi nidi al tetto,

li salutava allegra la tribù.

  Se n'è partita la tribù, da tanto!

tanto, che forse pensano al ritorno,

tanto, che forse già provano il canto

che canteranno all'alba di quel giorno:

  sognano l'alba di San Benedetto

nel lontano Baghirmi e nel Bornù.

  E chiudo i vetri.