Quelle sere,

nulla, o diceva: “Dormi, ch'hai la voce

debole; è meglio ora per te tacere,

  dormire; fatti il segno della croce”.

 

III

  Io pensava: - Ma dunque ella non crede

più, tanto? Che sarà della sua vita,

un vilucchio avvoltato alla sua fede? -

  E pensando, alla mente illanguidita

io richiamava le devozioni

già dette con le mie tra le sue dita.

  E ricordai che tra quei fiochi suoni

che a un Angiolo bisbiglia che li porti

su, c'era il Requiem; c'era anche: Vi doni

  nostro Signore eterna pace, o morti!

 

IV

  Morti che amate, morti che piangete,

morti che udivo camminar pian piano

nella mia, nella sua stanza a parete:

  che sempre in dubbio d'aspettare in vano

sempre aspettate con pupille fisse,

come il mendico, tesa ch'ha la mano,

  quelle preghiere; oh! sì, Maria le disse,

quelle preghiere, ma da sé, ma ebbre

di pianto, ma di là... che non sentisse

  suo fratello, che aveva alta la febbre...

 

 

50. Un ricordo

               

  Andavano e tornavano le rondini,

intorno alle grondaie della Torre,

ai rondinotti nuovi. Era d'agosto.

Avanti la rimessa era già pronto

il calessino. La cavalla storna

calava giù, seccata dalle mosche,

l'un dopo l'altro tutti quattro i tonfi

dell'unghie su le selci della corte.

Era un dolce mattino, era un bel giorno:

di San Lorenzo. Il babbo disse: “Io vo”.

  E in un gruppo tubarono le tortori.

Esse là nella paglia erano in cova.

Tra quel hu hu, mia madre disse: “Torna

prestino”. “Sai che volerò!” “Non correr

tanto: la tua stornella è appena doma”.

“Eh! mi vuol bene!” “Addio”. “Addio”. “Vai solo?

non prendi Jên?” “Aspetto quel signore

da Roma...” “E` vero. Ti verremo incontro

a San Mauro. Io sarò sotto la Croce.

Tu ci vedrai passando”. “Io vi vedrò”.

  E Margherita, la sorella grande,

di sedici anni, disse adagio: “Babbo...”

“Che hai?” “Ho, che leggemmo nel giornale

che c'è gente che uccide per le strade...”

Chinò mio padre tentennando il capo

con un sorriso verso lei. Mia madre

la guardò coi suoi cari occhi di mamma,

come dicendo: A cosa puoi pensare!

E le rondini andavano e tornavano,

ai nidi, piene di felicità.

  Mio padre palpeggiò la sua cavalla

che l'ammusò con cenno familiare.

Riguardò le tirelle e il sottopancia,

e raccolte le briglie, calmo e grave,

si volse ancora a dire: “Addio!” Mia madre

s'appressò con le due bimbe per mano:

la più piccina a lui toccò la mazza.

Egli teneva il piede sul montante.

E in un gruppo le tortori tubarono,

e si sentì: “Papà! Papà! Papà!”

  E un poco presa egli sentì, ma poco

poco, la canna come in un vignuolo,

come v'avesse cominciato il nodo

un vilucchino od una passiflora.

Sì: era presa in una mano molle,

manina ancora nuova, così nuova

che tutto ancora non chiudeva a modo.

Era la bimba che vi avea ravvolte,

come poteva, le sue dita rosa,

e che gemeva: “No! no! no! no! no!”

  Mio padre prese la sua bimba in collo,

col suo gran pianto ch'era di già roco;

e la baciò, la ribaciò negli occhi

zuppi di già per non so che martoro.

“Non vuoi che vada?” “No!” “Perché non vuoi?”

“No! no!” “Ti porto tante belle cose!”

“No! no!” La pose in terra: essa di nuovo

stese alla canna le sue dita rosa,

gli mise l'altro braccio ad un ginocchio:

“No! no! papà! no! no! papà! no! no!”

  Non s'udì che quel pianto e quei singulti

nel tranquillo mattino tutto luce.

Più non raspava i ciottoli con l'unghia

la cavalla, e volgea la testa smunta

alla bimba. E le tortori, hu, hu!

Povera bimba! non avea compiuti

due anni, e ancor dormiva nella culla.

Sapea di latte il suo gran pianto lungo:

assomigliava ad un vagir notturno.

Mio padre disse: “Non partirò più”.

  Jên, a un suo cenno, menò fuor del muro

la cavalla, aspettando ad un altro uscio.

Lontanò essa con un ringhio acuto.

E mio padre baciò la creatura,

e le disse: “Non vado: entro; mi muto,

e sto con te. Perché tu sia sicura,

prendi la canna”. Rabbrividì tutta

essa, come un uccello quando arruffa

le piume; le spianò; poi con le due

braccia abbracciò la canna di bambù.

  Ed aspettò. Aspetta ancora. Il babbo

non tornò più. Non si rivide a casa.

Lo portarono a sera in camposanto,

lo stesero in un tavolo di marmo,

dissero, oh! sì! dissero ch'era sano,

e che avrebbe vissuto anche molti anni.

Ma uno squarcio aveva egli nel capo,

ma piena del suo sangue era una mano.

Maria! Maria! quel pegno di tuo padre,

ciò che di lui rimase, ove sarà?

  Sorella, a volte penso che tu l'abbia,

che tu lo tenga ancora fra le braccia.

Così mi pare a volte, che ti guardo

e tu non vedi, ché tu stai pregando.

Tieni le braccia in croce, un poco lasse;

e tieni ancora gli occhi fissi in alto.

Stai come quando ti lasciò tuo padre;

sicura, come allora. Ma una lagrima

ancora scorre a te, di quelle, e il labbro

balbetta ancora, sì: “Papà! Papà!”

 

 

51. Il nido di “farlotti”

 

  Tra gli autunnali giorni ricorre

al mio pensiero sempre quel giorno,

che dal palazzo, dalla gran Torre,

facemmo un tanto mesto ritorno:

  ritorno tanto mesto, sebbene

fosse alla bianca nostra casina

che aveva ai piedi tante verbene

e su pei muri tanta cedrina;

  dov'era, dietro siepi riquadre

di biancospino, dietro un cancello

verde, ciò ch'era della mia madre,

nostro, ma poco; poco, ma bello.

  Io non credeva, fuori che in sogno,

fossero altrove gigli e giaggioli,

e il dolce odore del catalogno

e gli agri pomi de' lazzeruoli:

  e ch'altro al mondo fosse che il troppo,

dopo le canne fitte dell'orto

e la mimosa, ch'è morta, e il pioppo,

ch'è morto, e l'alto cedro, ch'è morto.

  Oh! sì, com'era mesto il ritorno,

e sì, la sera com'era mesta,

ben ch'in San Mauro fosse, quel giorno,

un'argentina romba di festa!

  Ma morto il babbo da più d'un mese,

non c'era posto per i suoi nati

più, nella Torre, sì che al paese

ritornavamo come scacciati.

  Noi s'era in otto, nove con essa,

nella carrozza, piccoli, stretti

a lei che stava bianca e dimessa

tra lo scoppiare dei mortaretti;

  che si vedeva pallida e magra

tra il rintoccare delle campane.

Noi si tornava per una sagra

senza più padre senza più pane.

  E disse un uomo; disse: e l'udiva

ella e ne pianse le lunghe notti

e ne fu trista fin che fu viva,

un anno: “Un nido, ve', di farlotti!”

  Verlette, quando v'odo cantare,

nunzie che il caldo viene e la state,

nelle mattine tacite e chiare,

nelle opaline lunghe serate;

  Oh! - dico - il nido fatto tra i rovi.

il vostro nido messo tra il rusco,

oh! che il villano non ve lo trovi,

il molle nido pieno di musco!

  che rozzo è fuori, radiche e stecchi,

ma dentro è tutto lana e lichene,

dove d'un solo tratto sei becchi

s'aprono a un solo grillo che viene!

  viene nel becco vostro, che intanto

state sur una vetta vicine

spiando il cibo raro e col canto

cullando il nido ch'è tra le spine!

  Oh! voi non, mentre gettate il grido

che salva gli altri, predi l'astore;

né il bruco e il grillo manchi nel nido,

né il calduccino di sotto il cuore!

  E quando viene Santa Maria

che rende all'uomo l'arma sua lunga,

oh! la covata vostra già sia

buona a volare; ch'e' non vi giunga!

  Siano volastri per mezzo agosto,

né con la mano l'uomo li pigli

dopo un voletto, poco discosto

dal nido... come, madre, i tuoi figli!

  E come, o madre, quella parola

ti si confisse tanto nel petto,

che assomigliava la famigliuola

tua nuda a quella d'un uccelletto?

  O madre! o madre! non era vero?

non eran ali dunque le tue?

non anche prese te lo sparviero

lasciando il nido senza voi due?

  prima con otto bocche, poi sette,

sei, cinque... aperte sempre al tuo volo,

aperte invano... sì, di verlette:

nido fra i duri triboli solo.

  Tra quei che il falco non ghermì poi,

o l'uomo vile, madre mia santa,

tra quei farlotti piccoli tuoi,

uno non vola dunque? non canta?

  non era vero vero? le prime

arie non canta, semplici e tristi?

non vola, in alto, poi dalle cime

scende là dove tu gli sparisti?

 

 

52. Il sogno della vergine

 

I

  La vergine dorme. Ma lenta

la fiamma del puro alabastro

le immemori palpebre tenta;

  bussa alla chiusa anima. Il lume

vacilla nell'ombra, come astro

di vita tra un velo di brume.

  Echeggia nell'anima, invasa

dal sonno, quel battere, e pare

destare la tacita casa.

  La casa si desta: un sorriso

s'accende, si muove ed appare

via via qua e là per il viso...

  La vergine sogna: ed un rivo

di sangue stupisce le intatte

sue vene, d'un sangue più vivo,

più tiepido: come di latte...

 

II

  Stupisce le placide vene

quel flutto soave e straniero,

quel rivolo, labile, lene,

  d'ignota sorgente, che sembra

che inondi di blando mistero

le pie sigillate sue membra.

  Le gracili membra non sanno

lo schianto, non sanno l'amplesso:

nel cuore, sì, forse un affanno

  c'è, l'ombra di un palpito, l'orma

d'un grido: il respiro sommesso

d'un vago ricordo che dorma;

  che dorma nel cuore ed esali

nel cuore il suo sonno romito.

La vergine sogna: ecco un alito

piccolo, accanto... un vagito...

 

III

  Un figlio! che posa nel letto

suo vergine! e cerca assetato

le fonti del vergine petto!

  O figlio d'un intimo riso

dell'anima! o fiore non nato

da seme, e sbocciato improvviso!

  Tu fiore non retto da stelo,

tu luce non nata da fuoco,

tu simile a stella del cielo;

  dal cielo dell'anima, ov'ora

sbocciasti improvviso, tra poco

tu dileguerai nell'aurora.

  In tanto tu vivi per una

breve ora; in un'anima, in tanto,

di vergine; in quella tua cuna

tu piangi il tuo tacito pianto.

 

IV

  Si dondola dondola dondola

senza rumore la cuna

nel mezzo al silenzio profondo;

  così, come tacito al vento,

nel tacito lume di luna,

si dondola un cirro d'argento.

  Oh! dormi col tremolìo muto

dell'esile cuna che avesti!

non piangerlo tutto, il minuto

  che avesti, dell'esile vita!

nel cuore di mamma non resti

quell'eco di pianto, infinita!

  Sorridile, guardala; appressati

a mamma, ch'ormai non ha più,

per vivere un poco ancor essa,

che il poco di fiato ch'hai tu!

 

V

  Il lume inquieto ora salta

guizzando, ora crepita e scende:

s'è spento. Quiete più alta.

  Nell'ombra già rara, già scialba

traverso le immobili tende

si sfuma la nebbia dell'alba.

  Il fiore improvviso, non sorto

da seme, non retto da stelo...

svanito! Non nato, non morto:

  svanito nell'alito chiaro

dell'alba! svanito dal cielo

notturno del sogno! - Cantarono

  i galli, rabbrividì l'aria,

s'empì di scalpicci la via;

da lungi squillò solitaria

la voce dell'Avemaria.

 

 

53. Il mendico

 

I

  Soletto su l'orlo di un lago

che al rosso tramonto riluce,

v'è un uomo col refe e con l'ago

                che cuce

                tra l'erica bassa.

  E cuce; e nel cielo turchino

già ridono l'aspre civette,

e il lago sul capo suo chino

                riflette

                qualche ala che passa.

  E cuce; e i suoi cenci nell'acqua,

trapunta di tacite bolle,

si specchiano, e l'ombra li sciacqua

                con murmure molle.

 

II

  Ma in tanto che, ombrato da un velo,

nell'acqua il lavoro suo fiotta,

tra l'urto dei cirri del cielo

                s'è rotta

                la tenue gugliata.

  Egli alza la testa.