Questa intuizione del maggior critico italiano militante del dopoguerra, Nicola Chiaromonte, è essenziale per cogliere il nocciolo della drammaturgia ibseniana: l'uomo alle prese con il problema della verità: il teatro, quindi, come dibattito «se il problema messo in scena sia un problema reale: un problema nostro, oppure no. È l'attualità della situazione portata sulla scena che conta a teatro, non la verosimiglianza dei casi. Una situazione attuale è una situazione in cui non soltanto i personaggi portano i nostri abiti (questo è secondario), ma una nella quale si tratti di noi, del nostro modo di vivere, della nostra morale, delle regole della nostra condotta, e, infine, della realtà stessa del nostro mondo, ossia delle certezze ultime sulle quali il nostro mondo è basatole siano vere certezze o solo comode illusioni»6.

È difficile, anzi impossibile, fare qualsiasi discorso serio su Ibsen se non si parte da qui, e non è certo un caso che Pirandello lo ritenesse non solo il creatore del teatro moderno, ma il maggiore autore dopo Shakespeare. D'altra parte, come non avvertire l'influenza di Ibsen in quel «vivere senza menzogna» che è stato, in situazioni storiche terribili, l'imperativo categorico di un grande scrittore come Aleksandr Solženicyn? Ibsen, insomma, è stato un artista in grado di essere il maggiore interprete dei drammi individuali e sociali del suo tempo e insieme un profetico anticipatore della condizione esistenziale e del «male di vivere» dell'uomo del Novecento. Per fare qualche esempio, Casa di bambola che apparve a tutto il mondo un dramma «femminista», oggi che la situazione della donna nella famiglia e nella società è mutata ci interessa per ragioni del tutto diverse come la ricerca che fa Nora della propria verità umana e come la stupefacente, modernissima rappresentazione del rapporto di coppia. In quest'ultima prospettiva, Casa di bambola è infinitamente più attuale di Chi ha paura di Virginia Woolf? di Albee e dei tanti testi dei nostri giorni sulle tensioni e sulle inquietudini fra uomo e donna. La «contemporaneità» di Ibsen è, da una parte, nell'attenzione che egli pone all'individuo e non all'astrattezza delle ideologie; dall'altra, è nella libertà e nell'autonomia del discorso drammaturgico che non si cristallizza in nessuna formula, come dovette riconoscere perfino G. Bernard Shaw nel suo La quintessenza delPibsenismo che, invece, era stato scritto proprio per definire Ibsen in chiave «ideologica». A leggerlo oggi, Ibsen ci coinvolge nel profondo, oltre che per la sua grandezza di poeta, per la capacità che hanno le sue opere maggiori di essere in stupefacente sintonia con le domande che noi uomini della fine del Novecento ci facciamo. Domande sulla nostra identità, sul rapporto sempre più complesso e difficile con gli altri, sul rifiuto della morte la quale incombe sempre su di noi anche se ci illudiamo di esorcizzarla non nominandola. E, poi come negare che Ibsen persegue come noi tutti «il sogno di un'esistenza risolta, di un 'armonia fra natura e cultura, di un 'umanità felicemente riconciliata con se stessa»7? Un sogno impossibile, che la realtà di tutti i giorni smentisce, ma che pure tutti perseguiamo tenacemente perché l'uomo ha dentro di sé l'aspirazione alla felicità, alla sintesi fra anima e corpo, fra istinto e ragione, fra realtà e ideale. Il teatro maggiore di Ibsen, ma talvolta anche i suoi testi «minori», ci parlano di tutto questo non solo con rigore e con severità, ma anche con la consapevolezza della fragilità dell'uomo e di quella che lo stesso Ibsen aveva definito8, nella prefazione del 1875 all'edizione definitiva del Catilina, «la contraddizione fra la capacità e le aspirazioni, fra la volontà e la possibilità». In questo senso, come negare, allora, all'artista Ibsen quella pietà per il destino umano che spesso gli è stata contestata? La verità è che in Ibsen oggi non sentiamo tanto un giudice inflessibile delle nostre debolezze e miserie quanto un padre che ci indica la strada migliore, ma che sa perfettamente quanto sia arduo, forse addirittura impossibile, da parte nostra trovarla e percorrerla tutta.

La necessità della drammaturgia ibseniana e la sua stupefacente contemporaneità che la rende così vicina a noi uomini di un secolo dopo e, soprattutto, di una società tanto più libera e più permissiva nei confronti dell'individuo, non devono impedirci di cogliere come Ibsen sia arrivato a questi risultati, partendo da condizioni iniziali assai difficili: condizioni esistenziali (la sua povertà), culturali (l'inesistenza praticamente di un teatro norvegese), linguistiche (il norvegese era considerato più un dialetto che una lingua e comunque era inesistente dal punto di vista letterario rispetto al danese), sociali (la Norvegia era un paese non solo depresso economicamente, ma che dipendeva, anche se con larga autonomia amministrativa, dalla Svezia). Insomma, a differenza del luogo comune che i grandi autori nascono da una civiltà teatrale rigogliosa e fertile, tutto era contro il giovane aspirante drammaturgo, perfino le condizioni minime per esserlo: la presenza di un teatro dove si recitassero testi in lingua norvegese. Non è inutile ricordare, a questo riguardo, che il primo teatro norvegese del paese, il Norske Theater di Bergen, di cui Ibsen dal 1851 sarà nominato direttore artistico e drammaturgo, era stato fondato e costruito solo l'anno prima grazie all'intuizione e al mecenatismo del musicista Ole Bull.

Ibsen deve inventarsi tutto: una lingua, il norvegese, con la quale esprimere il mondo teatrale che gli urge dentro, un repertorio, la sua messinscena, un rapporto con un pubblico che non esisteva. Un compito quasi impossibile e che solo la sua tenacia gli permise di affrontare. L'Ibsen, prima direttore dal 1851 al 1857 del Norske Theater di Bergen e, poi, dallo stesso 1857 al 1864 del Norske Theater di Kristiania, merita di essere rivalutato e comunque conosciuto meglio, non tanto per ragioni «storiche» quanto perché nei suoi primi nove testi, quelli che vanno dal Catilina (1850) a I pretendenti alla corona (1863), sono già in nuce / motivi dell'Ibsen maggiore. Del resto, come ha notato9 Benedetto Croce in un saggio ancora illuminante — fra il primo Ibsen e quello della maturità «c'è divario grande nelle forme e nel valore artistico, ma non diversità sostanziale. Oltre quello artistico, l'Ibsen non ebbe vero e spiccato svolgimento né intellettuale né sentimentale, né profondi cangiamenti e conversioni; e chi si è provato a far la storia dello spirito di lui, è stato costretto a muoversi sempre sullo stesso posto, perché si è ritrovata, giovane, adulta o vecchia, sempre la stessa anima». È un elemento questo che rende importante la conoscenza di una serie di testi che, nel nostro paese, sono conosciuti solo dagli specialisti e che per di più non sono stati quasi mai rappresentati: testi come Catilina, il primo e il più significativo, La tomba del guerriero, La notte di San Giovanni, Donna Inger di Östraat, Festa a Solhaug, Olaf Liljekrans, Guerrieri a Helgeland, La commedia dell'amore, I pretendenti alla corona, artisticamente fragili, talvolta contraddittori, quasi sempre ispirati a modelli drammaturgici preesistenti e non sempre di prima mano, eppure percorsi da un'ansia di verità e dalla volontà di cogliere il dissidio irrimediabile nell'uomo fra l'anelito all'eroismo e la realtà che lo incatena alle sue miserie e alle sue colpe. Sia che Ibsen si ispiri a Shakespeare, a Goethe e a Schiller, sia che prenda a modello il teatro di Scribe e la commedia francese «a tesi», egli resta se stesso, un autore cioè con una concezione della vita e dell'uomo che non ha né sbandamenti né reali evoluzioni. Il discorso cambia radicalmente quando lo si affronta dal punto di vista della drammaturgia e della poesia. Qui, invece, l'evoluzione è stupefacente, se paragoniamo l'Ibsen di Bergen e di Kristiania, a quello del Brand, di Peer Gynt e perfino di un'opera mancata come Cesare e Galileo. Scipio Slataper, in quello che resta ancora oggi il capolavoro10 della critica ibseniana in Italia, ha notato11 che i limiti dei primi testi nascono dalla sua immaturità: «È che il suo sviluppo non procede a sbalzi, e per riconoscere se stesso deve trovare la patria, il suo ambiente storico, e per conoscere la patria deve seguire la patria fantastica del tempo. Non conosco molti esempi di un'originalità cosi fantasticamente conquistata come quella d'Ibsen».

Brand e Peer Gynt, ma non lo smisurato e astratto Cesare e Galileo, sono i due primi esempi di questa originalità tenacemente conquistata. Questi due «poemi drammatici», così diversi apparentemente eppure così uniti l'uno all'altro tanto nella libertà formale che nei contenuti, rivelano un Ibsen finalmente sottratto ai condizionamenti drammaturgici di Bergen e di Kristiania. Già nel Brand, al di là della stessa ambizione di darci la rappresentazione dell'esigenza di assoluto espressa dal protagonista con «o tutto o nulla», si sente un artista finalmente padrone dei suoi mezzi poetici, insofferente delle angustie della scena, libero di abbandonarsi alla potenza michelangiolesca della sua fantasia e di tentare le più stupefacenti variazioni di toni e motivi, in una gamma espressiva che trascorre dal sublime al fantastico, dal tragico al grottesco. È un Ibsen, questo di Brand ma anche quello di Peer Gynt, che ha lasciato alle spalle definitivamente tutte le scorie e le timidezze del passato. L'Italia gli ha rivelato la sua vera natura di poeta e gli ha dato uno slancio e un calore che nessuno avrebbe potuto immaginare nel drammaturgo di Bergen e di Kristiania: «quanta vitalità in quei versi sdegnosi, tempestosi, perfino assordanti con la simmetrica fissità delle loro rime, e in quel polifonico gioco di melodie che riflettono le continue variazioni dell'animo»12. Nella tragedia kirkegaardiana di Brand e nella fantastica féerie nordica di Peer Gynt, Ibsen ha trovato per la prima volta la sua dimensione di poeta e insieme di drammaturgo.

Il terzo momento di Ibsen è quello che segna la sua definitiva affermazione a livello europeo e che lo propone come un autore in grado di incidere profondamente nella società e nel costume del suo tempo.