"L'umanità è imbarcata su una nave; ai passeggeri non manca nulla; ma c'è un cadavere nella stiva", ha scritto Ibsen, riassumendo mirabilmente il senso dei suoi drammi. E quella che egli descrive con questa immagine è la situazione moderna: il "cadavere nella stiva" è la dignità di cui l'uomo moderno riesce solo a fatica a ricordarsi. Di questa dignità, gli eroi e le eroine di Ibsen non riescono a riscattare qualcosa altro che pagandola con la vita.»

 

Nicola Chiaromonte, 1969

 

 

14. «Quando muore il piccolo Eyolf, cioè quando muore in noi un'epoca che ci fu cara, abbiamo anche noi la tentazione di concludere il nostro esilio sulla montagna (vedi il poema Sulle cime e tanti altri testi analoghi). Ma, laggiù nella valle, fra le cose che più ci riportano la memoria della sofferenza, ci sono migliaia di piccoli Eyolf che dobbiamo pure aiutare a vivere. Ugualmente Ellida si libera dall'incubo di morte introdotto dallo

Straniero nella misura in cui riconosce il proprio dovere verso gli altri. Sono i due casi in cui più esplicitamente Ibsen passa dalla sfera dell'individuo a quella della società. La semente torna viva soltanto dopo la morte, perché allora fruttifica negli altri. Prendere atto della comunità umana, vedere in essa la possibile vitalità delle nostre età perdute, del nostro piccolo Eyolf, significa legare con la realtà della storia. Avviene un grande esorcismo contro le rivalse del passato: di colpo Ibsen, scrittore inattuale, diventa attuale per eccellenza. Il nostro esilio dalla società, connesso a un idealismo di cui ben conosciamo i risvolti politici, ha fatto rotolare su di noi le pietre della montagna: non fu questa la lezione del nazismo e della lotta che un intero mondo dovette, associandosi, intraprendere contro di esso? Poi un'epoca parve conclusa e ci sentimmo come risuscitati dal regno dei morti: ma, come Rubek e Irene, ci accorgemmo di non aver mai vissuto. Come Solness, avevamo costruito le nostre torri — le chiese di un Dio individuale — ed eravamo caduti. Da quel giorno, nella vecchia fonderia di bottoni, la nostra torpida sensibilità si è venuta trasformando in qualcosa di nuovo: il legame, ormai irreparabile, con la società ci ha riconciliati con la storia: abbiamo cercato di essere gli operai delle diverse ore per ridurre il peccato del tempo vissuto, il lungo esilio dell'uomo. Nessun attardato romanticismo, nessun nuovo illuminismo, ci può distogliere da un lavoro iniziato nella contraddizione e nel dolore.»

 

Ruggero Jacobbi, 1972

 

 

15. «Alla fine di quel secolo XIX, che non fu stupido ma tragico, il piccolo Ibsen, agitatore taciturno, ateo religioso, antiaccademico e dottore honoris causa, rivoluzionario avido di onorificenze cavalleresche, è uno dei testimoni giganti della sua contraddittoria e universale tragedia. Poeta in redingote, volle riportare il dramma, in abiti borghesi, alle sue origini sacerdotali, e lo introdusse nel tempio di Brand: ma il tempio era vuoto, e al Vangelo di Cristo giudice era stato sostituito un giudice senza Cristo. Ché il cadavere nella stiva è non solo nell'animo dei filistei messi alla gogna dal poeta; è anche, e soprattutto, nello spirito dei ribelli che egli ha glorificato. È il peso morto d'un'altra tradizione inflessibile, nutrita, più che di calore evangelico, della terribilità dell'Antico Testamento. L'aria chiusa in cui le sue creature soffocano sembra avere impalpabilmente diffuso come un tanfo, lieve, esotico e solenne, sull'opera sua. Nella quale tutto è congegnato, predisposto, sospeso e fatto precipitare al momento giusto, con un'arte la cui impeccabile bravura può diventare esasperante. Alle volte, quella di Ibsen, pare la tecnica di Scribe e di Sardou portata alla cima della perfezione e messa al servizio di un'idea con, al posto dei soliti fantocci, uomini e donne d'un'evidenza nettissima, ognuno fissato, nel suo carattere e nel suo tic, per l'eternità; ma il congegno si sente. Di qui, nella nostra sbalordita ammirazione, il perpetuo residuo d'un'indefinibile scontentezza. Di qui l'assurdo per cui, nell'immensa famiglia ibseniana, la nostra creatura prediletta è forse la meno ibseniana fra tutte e cioè, almeno nei tre primi atti, il suo Peer Gynt. Fra tutti gli eroi dell'imperativo categorico, finisce che il più sopportabile, e diciamo pure, senza falsi pudori, il più fulgido, è un avventuriero, fanfarone e imbroglione.

E a Nora e a Hedda e a Rebecca e a Ellida, e a tutte le eroine dell'autonomia della volontà, ci sorprendiamo a rivolgere in segreto la domanda di Peer Gynt alla respinta Ingrid: "Porti un libro di preghiere avvolto in un fazzoletto? Hai una treccia d'oro giù per le spalle? Cammini con gli occhi bassi sulla sottana, attaccata al grembiule di tua madre? [...] Hai lo sguardo timido? Puoi dir di no quando ti supplico? [...] No? E allora a che vale tutto il resto?". È così che Peer Gynt pensa alla dolce Solveig; non ribelle, non volitiva, non valchiria; dimidium animae eius; dolce donna che lo seguirà, rassegnata sposa che lo attenderà.»

 

Silvio D'Amico, 1974

 

 

16. «Repubblicano, socialdemocratico, anarchico individualista, liberale, conservatore, radicale, aristocratico, estremista di sinistra: in fatto di politica, per i suoi contemporanei Ibsen fu tutto questo. Con la colorazione, ovviamente, che tali "etichette" potevano avere in un paese scandinavo nel secolo scorso. Come si spiega questa poliedricità in un uomo che non poteva certo venire accusato d'essere un voltagabbana? Forse, con la risposta che indirettamente diede lui stesso, quando era già sessantenne: "Una delle cose che più mi hanno fatto soffrire nel legame letterario con la mia patria è il sapere che, per molti anni, fin da quando apparve La lega dei giovani, sono stato sempre rivendicato come appartenente all'uno o all'altro partito politico. Io, che nella mia vita non ho mai avuto a che fare con la politica, ma soltanto con questioni sociali!".

Con la politica, invece, aveva sempre avuto a che fare, anche se un po' a suo modo. Già nell'ambiente conservatore di Grimstad, il ventenne Ibsen manifestava — come testimonia il suo amico Christopher Due — posizioni alquanto radicali, soprattutto in campo morale e religioso (concepiva un Dio non personalizzato, d'influenza volterriana) che a poco a poco lo isolarono dalla piccola società locale.