Prima della comparsa del teatro ibseniano tanto migliore si stimava il dramma quanto più strana la situazione. Ibsen invece vide che tanto più interessante era il dramma quanto più comune la situazione.
Shakespeare aveva messo sulla scena noi stessi, ma non le nostre situazioni personali. Ibsen riempie il vuoto lasciato dal sommo drammaturgo. Egli sulla scena non ci presenta soltanto noi stessi, ma noi stessi nelle nostre particolari situazioni. I fatti che accadono sulla scena sono cose che accadono a noi. Ne consegue che i suoi drammi sono per noi molto più interessanti di quelli dello Shakespeare. Nel teatro ibseniano non siamo più dei bravi spettatori che uccidono un'ora di ozio con un ameno ed ingegnoso divertimento; ma siamo invece "persone responsabili sedute a teatro".»
Clemente Giannini, 1957
11. «Mi sono messo a rileggere Ibsen, un dramma dopo l'altro, in un tempo abbastanza lontano dalle mie prime letture e, in una parola, dalla mia giovinezza; in un tempo che corrisponde perfettamente, quanto a distanza, a un periodo di oblio del nome e dell'opera di Ibsen (anche se la sua influenza è arrivata in qualche modo fino ai nostri giorni, fino alla Morte di un commesso viaggiatore di Miller). Da anni infatti non mi avviene di imbattermi in una pagina su di lui, salvo un libro di Apollonio, uscito in un anno assai critico della nostra storia, il '44; anche oggi un raro lettore, Alberto Spaini, avverte che Ibsen è «poco più di un nome»; e insomma, credo che, almeno nei limiti dell'Italia, le cose per Ibsen siano ferme al primo dopoguerra, alla breve resurrezione della Duse, al saggio di Croce (rivedo Croce che leggeva a Torino quelle sue pagine, la sala, gli amici, i maestri di allora; ma resti tutto ciò nella cerchia dei miei sentimenti e anche delle mie immaginazioni e memorie giovanili) e a quel che ne scriveva Piero Gobetti nel '25: "per riavvicinarsi ad Ibsen... bisogna avere un'anima eroica", con il logico codicillo "ancora oggi egli parla a pochi; la sua arte è impopolare e si dimentica che fu la prima voce rivoluzionaria del teatro europeo". Ma quell'inattualità di Ibsen era attualità per il giovanissimo critico; le parole che si rileggono - "minoranze audaci", cioè il pubblico mancato, gli eredi assenti di Ibsen, "eroica coerenza del poeta norvegese" - sono espressioni gobettiane per eccellenza, e allora non si può dimenticare la data di quel suo articolo e la lotta che in quegli anni egli conduceva, stratega unico, nel campo politico. Era naturale ch'egli pensasse quel che pensava, che soltanto un'anima eroica potesse avvicinarsi (accostarsi, ma anche farsi vicino, parente, del suo sangue) al poeta dell'inflessibilità morale, al finto arido, al nemico giurato del compromesso, all'amico e sognatore aristocratico di minoranze risolute, progressive, a colui che aveva impostato un poema drammatico sul dilemma "o tutto o niente". Il "ritorno a Ibsen" non era un semplice omaggio alla poesia e una sosta di oblio riconoscente in un mondo riposato e felice.»
Franco Antonicelli, 1959
12. «È il poeta delle gelide trasparenze, in quel ghiaccio si alimenta e scorre una fiamma misteriosa. Gli "interni" di Ibsen affiorano dalla doppia luce, del destino individuale e del paesaggio presentito, imminente, diffuso: realtà e musica, simboli e irto linguaggio familiare. Il grande fiordo di Spettri, la casa mitica dei Rosmer, la piccola città della Donna del mare; nei salotti, nei tinelli, negli angoli bui del peccato e della condanna penetra il bianco respiro dei cieli nordici, una immobile brezza marina. Che Ibsen sia poeta non v'è dubbio; complicato e complesso, e troppo spesso sfuggente sui margini della razionalità e dell'idealismo, ma quale poeta, e come intenso: v'è in lui la fantasia del confessore d'anime (immaginarie anime) e del giudice ultimo; oltre il rigore del moralista v'è in lui l'apparizione delle creature. Meravigliose creature; torbide di oscuri fermenti, distese in sogni lunghi e mortali, violente, fanatiche, assurde, e dentro ci senti la tristezza solenne, irritante delle tragedie incompiute.»
Francesco Bernardelli, 1960
13. «Tutti i drammi di Ibsen possono essere considerati drammi a tesi. La tesi è che la morale convenzionale uccide. Nell'esistenza ignobile perché priva di verità in cui è impaludato, l'uomo moderno ha una sola via di salvezza: la verità a ogni costo. La verità a ogni costo. Ma anche la verità uccide, come mostrano la piccola Hedvig dell'Anitra selvatica, Rosmer, Hedda Gabler, Solness. A questo punto comincia il dramma e la tesi diventa sfondo, ambiente, costume d'epoca, impulso iniziale. Se scopo del dramma fosse dimostrare la tesi, ci sarebbe una soluzione, e il dramma svanirebbe. Siccome poi, nella maggior parte dei casi, fonte principale della menzogna, nei drammi di Ibsen, è il matrimonio borghese, la riforma dell'istituto matrimoniale e la sua sostituzione con un libero legame fra uguali, risolverebbe il problema. Nel qual caso, però, non ci sarebbe mai stato dramma ma tutt'al più commedia, o meglio dimostrazione pedagogica.
Ibsen stesso rifiutava di esser considerato un riformatore. Quali che fossero le sue idee sulla società (ed erano delle più radicali) egli si voleva scrittore di drammi, non di proposte per cambiare il mondo.
Nel dramma, come nella vita, il destino si manifesta col volto degli altri, ed è attraverso gli altri che colpisce, almeno in apparenza. Così, dato che i drammi di Ibsen avvengono nel contesto di una società borghese, nella forma di vicende quotidiane e d'interessi ordinari, è attraverso le azioni di esseri invischiati nella minuzia, nella mediocrità e nelle bassezze giornaliere che il destino colpisce. Ma quel che Ibsen poi mostra è come neppure quando sprofonda nella mediocrità, nella vuotaggine e nella viltà l'uomo può sfuggire al richiamo della dignità propria della sua esistenza, che è d'essere tragica.
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