Ma bisogna andare al di là delle apparenze e allora ci si accorge che «"la donna del mare" naufraga in terraferma, ammansita dalla comprensione di Wangel, cede all'inerzia del tempo irreversibile»21. Insomma, il preteso «lieto fine» è il frutto di una lacerazione profonda.
Hedda Gabler segna un approfondimento in questa direzione e un risultato fra i più alti della drammaturgia di Ibsen. Piero Gobetti, il critico militante che insieme a Nicola Chiaromonte ci ha lasciato le più lucide analisi dei drammi ibseniani, sottolineando22 la purezza e l'essenzialità da teatro greco di questo dramma, ha notato che «tutto ciò che v'era di patologico e di eccezionale in Ibsen qui è diventato poesia. Il poeta rinuncia a tutti i fatti personali, evita rigorosamente le confessioni. E infatti nella realizzazione fantastica si sentono i limiti di questo disperato studio oggettivo che talvolta è persino crudo. In compenso l'artista rivela la sua più acuta ironia, nel dialogo tagliente, analitico, inesorabile che dà un rilievo a tutte le sottigliezze e tutte le interruzioni». D'altra parte, Hedda si impone come uno dei personaggi più enigmatici dell'intero teatro ibseniano, un personaggio nel quale è difficile identificarsi ma che, alla fine, ci lascia un senso di disagio e di inquietudine che sono propri della vita con i suoi misteri irrisolti e le sue contraddizioni inesorabili.
L'ultimo Ibsen, l'autore di II costruttore Solness, Il piccolo Eyolf, John Gabriel Borkman e di Quando noi morti ci destiamo, è ancora oggi non solo il meno rappresentato, esclusi s'intende i drammi dell'apprendistato drammaturgico, ma anche quello che continua a suscitare perplessità e riserve sia sotto l'aspetto formale che sotto quello dei significati, che appaiono sfuggenti e contraddittori a molti. È certamente un Ibsen diverso, più complesso e più difficile da decifrare, quasi sperimentale nella scrittura drammaturgica, ma comunque vitalissimo e per nulla affetto dalla «sclerotica stanchezza»23 di cui ha parlato Thomas Mann. Né tanto meno si possono definire24 i suoi ultimi quattro drammi «semplici variazioni o ripetizioni di motivi precedenti». Errori di prospettiva di questo genere, comuni anche alla critica più recente, nascono dal fatto che, da II costruttore Solness a Quando noi morti ci destiamo, Ibsen appare lacerato fra la rinunzia e il desiderio di «rendere conto a se stesso della sua vita»25. D'altra parte, i suoi drammi, apparentemente realistici, diventano sempre più trasparenti, se non rarefatti, fino a tingersi di elementi autobiografici e simbolici che inevitabilmente producono perplessità o sconcerto in chi conserva un'immagine ben definita dell'Ibsen precedente. Un altro elemento nuovo, che si fa strada nel suo pessimismo con una forza sorprendente, è una religiosità tanto più profonda quanto più sottile e interiore. Una religiosità che è stata riconosciuta sia da un critico cattolico come Apollonio che da un laico come Jacobbi: una religiosità che consiste nell'affermazione «che c'è una via di uscita, anche se porta in cima ai ghiacciai. È una via che per Agamennone o Amleto o Fedra non si apre. Nelle tenebre dell'ultimo Ibsen il nucleo della speranza è rimasto intatto»26. Il cristianesimo di Ibsen è quello di chi ormai guarda la sua vita e quella dei suoi personaggi — come l'Allmers de II piccolo Eyolf — con l'occhio rivolto «verso le cime, verso le stelle... verso il grande silenzio».
GIOVANNI ANTONUCCI
1Cfr. S. D'Amico, Storia del teatro drammatico, V ed. riv. e ampl., III, Milano, Garzanti, 1968, p. 237.
2Cfr. A. Savinio, Vita di Enrico Ibsen, Milano, Adelphi, 1979, pp. 19-20.
3Cfr. R. Alonge, Epopea borghese nel teatro di Ibsen, Napoli, Guida, 1983. I danni prodotti da questo saggio, che è un miscuglio di marxismo e di freudismo stantii, sono stati gravissimi non solo su registi come Massimo Castri, ma anche sui lettori, perché le stesse infelici tesi sono state proposte nelle introduzioni ad alcuni capolavori di Ibsen editi in una collana divulgativa.
4Cfr. P. Johnson, Gli intellettuali, Milano, Tea, 1993, pp.
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