Certo poiché noi siamo fatti in modo che paragoniamo tutti a noi stessi, e noi stessi a tutti, la felicità o il dolore dipendono da coloro con i quali stiamo a contatto, e nulla è più pericoloso della solitudine. La nostra immaginazione, che è naturalmente portata ad elevarsi, ali-mentata dalle fantastiche immagini della poesia, si crea una schiera di esseri fra i quali noi occupiamo l'ultimo posto; e all'infuori di noi tutto ci sembra splendido e ogni persona perfetta. E questo è naturalissimo.
Spesso sentiamo che ci manca qualche cosa, e proprio quel che ci manca ci sembra di trovarlo in un'altra persona alla quale attribuiamo tutto ciò che noi pure abbiamo, e inoltre una grazia ideale. Così immaginiamo
l'uomo felice. Ed esso è una creatura della nostra fantasia.
Quando invece nonostante tutto la nostra debolezza e lo sforzo che
dobbiamo compiere, proseguiamo la nostra opera, spesso osserviamo
che pur andando lentamente e perdendo tempo avanziamo più di altri
che vanno a forza di vele e di remi… ed è allora che si è veramente con-sci di se stessi; quando si va alla pari con gli altri, ed anzi si sorpassano.
26 novembre.
Tutto sommato comincio a trovarmi discretamente qui. Per fortuna c'è molto da fare; inoltre gli uomini di ogni specie, e le nuove, varie figure che mi sfilano dinanzi formano uno spettacolo svariato. Ho conosciuto il 45
conte C., un uomo che ogni giorno imparo a rispettare di più: ha una mente larga, e non è freddo perché sa vedere le cose fino in fondo; la sua conversazione rivela molta sensibilità all'amicizia e all'affetto. Egli ha preso interesse a me da quando ho trattato un affare con lui, e fin dalle prime parole ho osservato che c'intendevamo e che egli poteva parlare con me come con nessun altro. E io non posso lodare abbastanza la sua lealtà verso di me. Non vi è al mondo gioia pura e calda come quella di vedere una grande anima che si apre a noi.
24 dicembre.
L'ambasciatore mi dà molte noie, e io l'avevo previsto. È il pazzo più puntuale che esista, è esatto e minuzioso come una vecchia zitella; un uo-mo che non è mai contento di sé e dinanzi al quale, per conseguenza, nessuno può trovare grazia. A me piace lavorare correntemente, e quello che è scritto è scritto; egli è capace di rendermi una memoria e dire: "Va bene, ma riguardatela ancora; si trova sempre una parola più propria, una particella più giusta".
Avrei voglia, allora, di sbattere la testa nel muro. Non deve mancare un E, né una congiunzione, ed egli è nemico mortale di tutte le inversioni che talvolta mi sfuggono; quando il pericolo non è modulato sopra un ritmo tradizionale, egli non capisce niente: è una sofferenza avere a che fare con simili uomini.
La fiducia del conte C. è la sola cosa che mi ricompensi. Ultimamente egli mi diceva, con tutta franchezza, com'è scontento della lentezza e della minuziosità del mio ambasciatore. Queste persone rendono tutto più difficile per loro stessi e per gli altri: bisogna rassegnarvisi come un viag-giatore che deve valicare una montagna: se il monte non ci fosse, la via sarebbe più corta e più comoda; ma poiché c'è, bisogna oltrepassarlo!
Il mio vecchio si accorge della preferenza che il Conte ha per me; questo gli dispiace e cerca tutte le occasioni per dir male del conte in mia presenza; naturalmente io ribatto, e la discussione si fa aspra. Ieri egli mi mise fuori dai gangheri dicendo: "Il Conte s'intende benissimo degli affari di questo mondo; lavora con facilità e scrive bene, ma manca di conoscenze solide come tutti i begli spiriti".
E a questo punto egli fece un gesto come per dire: senti la stoccata? Ma non produsse su di me alcun effetto; solo disprezzai l'uomo che poteva pensare e agire così. Resistetti e lottai abbastanza vivacemente. Dissi che il Conte era un uomo degno di stima per il suo carattere e per la sua cul-tura. Non ho mai visto nessuno, dissi, che sia riuscito a svolgere il suo 46
spirito, a estenderlo su innumerevoli argomenti, e a conservare nello stesso tempo una tale attività per la vita pratica. Ma per il suo cervello questo era arabo, e io mi allontanai per non prendere una bile sentendolo sragionare ancor di più. Di tutto questo è vostra la colpa, di voi tutti che mi avete messo sotto il giogo e mi avete decantato l'attività. Attività! Se non fa più di me colui che pianta patate e che va a vendere grano in città, voglio ancora lavorare dieci anni sulla galera dove sono ora incatenato. E
quale miseria dissimulata, quale noia regna fra il popolo sciocco che si vede qui accalcato! Quale mania di primeggiare per cui osservano, spia-no il modo di guadagnare un passo gli uni sugli altri! frivole, miserabili passioni che si mostrano a nudo. C'è una donna, per esempio, che parla a tutti della sua nobiltà e delle sue terre, in modo che ogni forestiero penserà: è una pazza a cui un po' di nobiltà e la fama delle sue terre hanno fatto girare la testa! Ma c'è di peggio: questa donna è la figlia di uno scrit-turale del vicinato! Io non posso concepire come l'umanità abbia tanto poco senno da prostituirsi in questo modo!
Invece io osservo ogni giorno che si ha torto di giudicare gli altri da se stessi. E poiché ho tanto da fare nel pensare a me stesso e questo mio cuore è così turbinoso, lascio volentieri che gli altri seguano la loro strada purché mi lascino seguire la mia.
Quello che più mi importuna sono le ineluttabili distinzioni sociali. So benissimo quanto è necessaria la differenza di classe, e quanti vantaggi ne ritraggo io stesso: ma vorrei che non venisse a sbarrarmi la strada proprio quando potrei godere quaggiù un po' di gioia, un'illusione di felicità. Ho conosciuto recentemente, alla passeggiata, la signorina B., una graziosa creatura che, in questo mondo artefatto, conserva molta natura-lezza. Conversammo con gran piacere reciproco, e quando ci lasciammo le domandai il permesso di recarmi a farle visita. Me lo concesse con tanta gentilezza che a stento potei aspettare il momento conveniente per andare da lei.
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