I Miserabili

I MISERABILI

Victor Hugo

PARTE PRIMA • FANTINE

Fino a quando esisterà, a causa delle leggi e dei costumi, una dannazione sociale che crea artificialmente, in piena civiltà, inferni, e che complica con una fatalità umana il destino, che è divino; fino a quando i tre problemi del secolo, la degradazione dell’uomo a causa del proletariato, l’abbrutimento della donna a causa della fame e l’atrofia del fanciullo a causa delle tenebre che l’avvolgono, non saranno risolti; fino a quando, in certe regioni, sarà possibile l’asfissia sociale; in altre parole, e sotto un punto di vista ancor più esteso, fino a quando ci saranno sulla terra ignoranza e miseria, libri come questo potranno non essere inutili.

Hauteville House, 1 gennaio 1862

LIBRO PRIMO • UN GIUSTO

I • MONSIGNOR MYRIEL

Nel 1815 monsignor Charles François Bienvenu Myriel era vescovo di D. Aveva settantacinque anni, più o meno; reggeva la diocesi dal 1806.

Anche se questo particolare non riguarda affatto la storia che stiamo per raccontare, non è inutile, non fosse che per essere precisi, riferire le chiacchiere e i giudizi che, quando vi era arrivato, correvano nella diocesi.

Vero o falso che sia, quello che si dice degli uomini occupa spesso nella loro vita, e soprattutto nel loro destino, lo stesso posto di ciò che fanno.

Myriel era figlio di un consigliere del Parlamento di Aix: nobiltà di toga.

Si diceva che il padre, considerandolo erede del suo ufficio e seguendo la tradizione dei membri del Parlamento, lo avesse ammogliato prestissimo: a diciotto, vent’anni. Ma Charles Myriel, si diceva, nonostante il matrimonio, aveva continuato a far parlare di sé. Ben fatto nella persona anche se di statura piuttosto bassa, elegante, gentile, spiritoso, aveva speso la prima parte della gioventù nei piaceri e nelle galanterie. Scoppiò la Rivoluzione, gli avvenimenti precipitarono; le famiglie dei membri del Parlamento, decimate, esiliate, perseguitate, si dispersero. Charles Myriel emigrò in Italia fin dai primi giorni della Rivoluzione. Sua moglie vi morì di una malattia di petto di cui soffriva da tempo. Non avevano figli. Cosa avvenne allora nella vita di Myriel? Il crollo dell’antica società francese, la fine della sua famiglia, i tragici spettacoli del ‘93, più orribili per gli emigrati che li vedevano di lontano, ingranditi dallo spavento, fecero germogliare in lui idee di rinuncia, di solitudine? Oppure nel bel mezzo di quei divertimenti e di quelle passioni che occupavano la sua vita fu improvvisamente percosso da uno di quei colpi terribili e misteriosi che a volte feriscono il cuore e atterrano un uomo che le pubbliche calamità non smuoverebbero, colpendolo nell’esistenza e nella fortuna? Nessuno avrebbe potuto dirlo: si sapeva soltanto che dall’Italia era ritornato prete.

Nel 1804 Myriel era curato di B. Era già vecchio e viveva in una profonda solitudine.

All’epoca dell’incoronazione, una faccenduola della sua curia, non si sa bene quale, lo condusse a Parigi. Tra le tante persone influenti, andò a sollecitare, per i suoi parrocchiani, il cardinale Fesch. Un giorno in cui l’imperatore si era recato a visitare lo zio, il buon curato, che faceva anticamera, si trovò davanti Sua Maestà. Napoleone, accortosi della curiosità con la quale il vecchio lo osservava, si voltò e chiese bruscamente:

«Chi è quel buonuomo che mi guarda?».

«Sire», rispose Myriel, «voi guardate un buonuomo e io guardo un grand’uomo. Ciascuno di noi può trarne profitto».

Quella sera stessa l’imperatore chiese al cardinale il nome del curato e, qualche tempo dopo, Myriel fu sorpreso di apprendere che era stato nominato vescovo di D.

Che c’era di vero, dopotutto, in quello che si raccontava sulla prima parte della vita di Myriel? Nessuno lo sapeva. Poche famiglie avevano conosciuto la sua, prima della Rivoluzione. Myriel doveva subire la sorte comune a tutti coloro i quali giungono nuovi in una piccola città, dove molte bocche parlano e poche teste pensano. Dovette subirla pur essendo vescovo e perché era vescovo. I pettegolezzi ai quali si mescolava il suo nome non erano, in fondo, che pettegolezzi, appunto, mormorii, parole, meno ancora che parole, palabras, come dicono nella forte lingua del mezzogiorno.

Basti dire che, dopo nove anni di episcopato e di residenza a D., tutte quelle ciarle, argomento di conversazione nei primi tempi nella piccola città e tra la gente piccola, erano cadute nel più profondo oblio. Nessuno avrebbe osato parlarne, nessuno avrebbe osato ricordarsene.