Monsignor Myriel era giunto a D. con una vecchia zitella, la signorina Baptistine, sua sorella, di dieci anni minore di lui.

Tutta la servitù era costituita da una fantesca, coetanea della signorina Baptistine, chiamata signora Magloire, che, dopo essere stata la serva del signor curato, assumeva il duplice titolo di cameriera della signorina e di governante di monsignore.

La signorina Baptistine era lunga, pallida, magra, dolce: realizzava l’ideale di ciò che esprime la parola «rispettabile», poiché sembra che per essere «venerabile» una donna debba essere madre. Non era mai stata bella; tutta la sua vita, una sequela di opere sante, aveva finito per imprimerle una sorta di candore e di luminosità; e, invecchiando, aveva raggiunto quella che si potrebbe definire la bellezza della bontà. La magrezza della sua gioventù era diventata, nella maturità, trasparenza; cosicché, attraverso quella diafanità, si scorgeva l’angelo. Era un’anima, ancor più che una vergine. Il suo corpo sembrava fatto d’ombra, profilato di quel tanto sufficiente ad attribuirgli un sesso: un po’ di materia che racchiudeva una tenue luce. Grandi occhi sempre tenuti bassi; giusto il pretesto di un’anima per restare sulla terra.

La signora Magloire era una vecchietta bianca, grassa, paffuta, affaccendata, sempre ansante, in primo luogo per la laboriosità, poi per l’asma.

Appena giunto nella nuova sede monsignor Myriel fu accompagnato al palazzo vescovile, con tutti gli onori voluti dai decreti imperiali che ponevano il vescovo, nell’ordine del cerimoniale, subito dopo il maresciallo di campo. Il sindaco e il presidente andarono, primi, a fargli visita, ed egli visitò per primi il generale e il prefetto.

Quando

l’insediamento

ebbe termine, la città aspettò di vedere il suo

vescovo all’opera.

II • MYRIEL DIVENTA MONSIGNOR BIENVENU

Il palazzo vescovile di D. era attiguo all’ospedale. Era un vasto e bell’edificio in pietra, costruito all’inizio del secolo scorso da monsignor Henri Puget, dottore in teologia della facoltà di Parigi, abate di Simore e, nel 1712, vescovo di D. Quel palazzo era una vera e propria dimora principesca. Tutto vi aveva un aspetto maestoso: gli appartamenti del vescovo, i saloni, la corte d’onore, vasta, con porticato secondo l’antica moda fiorentina, i giardini, folti di magnifici alberi. Nella sala da pranzo, una lunga e splendida galleria situata al pianterreno e che si apriva sui giardini, monsignor Henri Puget aveva offerto, il 29 luglio 1714, un pranzo ufficiale ai monsignori Charles Brûlart di Genlis, arcivescovo principe di Embru, Antoine de Mesgrigny, cappuccino, vescovo di Grasse, Philippe de Vendôme, gran priore di Francia, abate di St-Honoré de Lérins, François de Berton de Crillon, vescovo barone di Vence, César de Sabran de Forcalquier, vescovo signore di Glandève e Jean Soanen, prete dell’oratorio; i ritratti di questi sette reverendi personaggi ornavano quella sala, e la data memorabile, 29 luglio 1714, era scolpita a lettere d’oro su una lapide di marmo bianco.

L’ospedale era una casa stretta e bassa, a un sol piano, con un giardinetto.

Tre giorni dopo il suo arrivo il vescovo visitò l’ospedale. Terminata la visita fece dire al direttore di voler essere così gentile da raggiungerlo a casa sua.

«Quanti malati avete ora, signor direttore dell’ospedale?».

«Ventisei,

monsignore».

«Proprio quanti ne avevo contati».

«I letti sono un po’ addossati l’uno all’altro», soggiunse il direttore.

«Proprio

quello

che avevo notato».

«Le corsie non sono che stanze ed è difficile cambiar l’aria».

«Mi

sembrava».

«E poi, quando c’è un raggio di sole, il giardino è troppo angusto per i convalescenti».