Il condannato, triste e accasciato il giorno prima, era raggiante. Sentiva la propria anima riconciliata e sperava in Dio. Il vescovo l’abbracciò e nel momento in cui stava per calare la lama gli disse:

«Dio

resuscita

colui

che l’uomo uccide; colui che i suoi fratelli

scacciano ritrova il padre. Pregate, credete, entrate nella vita! Là è il Padre…».

Quando discese dal palco aveva qualcosa nello sguardo che costringeva il popolo a farsi da parte. Non si sapeva se colpisse più il suo pallore o la sua serenità. Rientrando nell’umile sua dimora che chiamava sorridendo il suo palazzo, disse alla sorella:

« Torno dalla cerimonia pontificale».

Siccome le cose sublimi sono anche spesso le meno comprese, vi fu qualcuno in città che, commentando la condotta del vescovo, disse: È

un’affettazione. Ma non fu che una malignità da salotto. Il popolo, che non trova malizia nelle azioni sante, ne fu commosso e l’ammirò.

Quanto al vescovo, l’aver visto la ghigliottina fu un vero colpo e ci volle molto tempo prima che egli si riavesse. Si può considerare con indifferenza la pena di morte, si può non pronunciarsi, dire di sì e di no, finché non si è vista con i propri occhi una ghigliottina; ma quando se ne vede una, la scossa è violenta e bisogna decidersi a prender partito pro o contro. Alcuni ammirano, come il De Maistre, altri esecrano come il Beccaria. La ghigliottina è il concretizzarsi della legge; essa si chiama punizione, non è neutra e non vi permette di rimaner neutrali. Chi la scorge freme del più misterioso dei fremiti. Tutte le questioni sociali drizzano attorno alla mannaia i loro punti interrogativi. Il patibolo non è visione. Il patibolo non è un’impalcatura, non è una macchina, non è un meccanismo inerte fatto di legno, di ferro e di corde. Sembra che sia, in qualche modo, un essere dotato di chissà quali cupe iniziative. Si direbbe che quella impalcatura veda, che quella macchina intenda, che quel meccanismo comprenda, che quel legno, quel ferro, quelle corde vogliano. Nella spaventosa fantasticheria in cui getta l’anima con la sua presenza, il patibolo appare terribile e partecipe di quello che fa. Il patibolo è complice del carnefice: divora, mangia della carne, beve del sangue. Il patibolo è una specie di mostro, fabbricato dal giudice e dal falegname, uno spettro che sembra vivere d’una vita spaventosa, fatta di tutta la morte che ha procurato.

Così l’impressione fu orribile e profonda; il giorno dopo quello dell’esecuzione, e per molti altri ancora, il vescovo parve prostrato. La serenità quasi violenta del momento funebre era scomparsa; il fantasma della giustizia sociale l’ossessionava. Egli, che di solito traeva da tutte le sue azioni una soddisfazione raggiante, sembrava farsene un rimprovero.

Gli accadeva, a volte, di parlare tra sé e sé, mormorando a mezza voce lugubri monologhi. Eccone uno che sua sorella sentì una sera e raccolse:

«Non credevo che fosse una cosa tanto mostruosa. È una colpa astrarsi dalla legge divina, al punto da non accorgersi della legge umana. La morte appartiene solo a Dio.