«Alla corte d’assise».
E poi: «Dove si processerà quel procuratore del Re?».
Accadde a D. un fatto tragico.
Un uomo fu condannato a morte per omicidio. Era un disgraziato non molto istruito, ma neanche ignorante, che aveva fatto il giocoliere nelle fiere e lo scrivano pubblico. Il processo impressionò molto la città. Alla vigilia del giorno fissato per l’esecuzione del condannato, il cappellano della prigione s’ammalò. Ci voleva un prete per confortare gli ultimi momenti del condannato. S’andò a cercare il parroco. Sembra che questi rifiutasse dicendo: «Non è cosa che mi riguardi. Non ho niente a che vedere con questa grana e con quel giocoliere; anch’io sono ammalato.
Non è comunque quello il mio posto».
Questa risposta fu riferita al vescovo il quale disse:
« Il signor curato ha ragione. Quello non è il suo posto, è il mio».
E si recò subito alla prigione, discese nella segreta del
«saltimbanco», lo chiamò per nome, lo prese per mano; gli parlò. Passò tutta la giornata con lui dimenticando il pranzo, il letto, pregando Dio per l’anima del condannato e il condannato per la propria. Gli disse le più grandi verità, che sono le più semplici. Gli fu padre, fratello, amico: vescovo soltanto per benedirlo. Gli insegnò tutto rassicurandolo e consolandolo. Quell’uomo sarebbe morto disperato. La morte era per lui un abisso. Ritto, fremente su quella soglia lugubre, indietreggiava con orrore.
Non era abbastanza ignorante per essere assolutamente indifferente. La sua condanna, una scossa profonda per lui, aveva rotto qua e là quel diaframma che ci separa dal mistero delle cose che chiamiamo vita. Da quelle brecce fatali egli continuava a guardar fuori da questo mondo e non vedeva che tenebre. Il vescovo gli mostrò una luce.
Il giorno dopo, quando andarono a prendere quell’infelice, il vescovo era là. Lo seguì, mostrandosi agli occhi della folla con la mantellina viola, la croce episcopale al collo, fianco a fianco con quel poveretto legato con le corde. Salì con lui sulla carretta, con lui salì al patibolo.
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