Non pretendeva neanche di essere un botanico: ignorava i gruppi e la metodologia, non cercava minimamente di decidere tra Tournefort e il metodo naturale; non prendeva partito per gli utricoli contro i cotiledoni, né per Jussieu contro Linneo. Non studiava le piante, amava i fiori. Rispettava molto gli scienziati, rispettava anche di più gli ignoranti, e, senza mai venir meno a questi due rispetti, ogni sera d’estate annaffiava le sue aiole con un annaffiatoio di latta verniciato di verde.
Nella casa non c’era una sola porta che si chiudesse a chiave. La porta della sala da pranzo che, come abbiamo detto, s’apriva direttamente sulla piazza della cattedrale, era un tempo munita di serrature e catenacci come una porta di prigione. Il vescovo aveva fatto togliere tutta quella ferraglia e la porta, di notte come di giorno, era chiusa da un semplice saliscendi. Il primo che passava, a qualsiasi ora, non aveva che spingerla.
Nei primi tempi le due donne erano alquanto disturbate da quella porta sempre aperta, ma il vescovo di D. aveva detto: «Fate mettere i catenacci alle vostre porte, se volete». Entrambe trovarono più comodo condividere la sua fiducia, o almeno fecero come se la condividessero. Soltanto la signora Magloire aveva, di quando in quando, dei timori. Quanto al vescovo si può vedere il suo pensiero spiegato, o almeno indicato, da queste tre righe che aveva scritto in margine a una Bibbia: «Ecco la sfumatura: la porta del medico non deve mai essere chiusa, la porta del prete deve essere sempre aperta».
In
un
altro
libro, intitolato: Filosofia della scienza medica, aveva scritto quest’altra nota: «Forse che non sono un medico come loro? Ho anch’io i miei malati: in primo luogo ho i loro, quelli che loro chiamano malati; poi ho i miei, che chiamo infelici».
Altrove aveva scritto: «Non domandate mai il nome di chi vi chiede ricovero. È specialmente chi ha un nome che l’imbarazza che ha bisogno d’asilo».
Avvenne che un degno curato, non ricordo più se il curato di Couloubroux o di Pompierry, pensò di domandargli un giorno, probabilmente per suggerimento della signora Magloire, se era ben certo di non commettere un’imprudenza lasciando giorno e notte la porta aperta a disposizione di chi volesse entrare, e se non temeva che un giorno o l’altro accadesse qualche disgrazia in una casa tanto incustodita. Il vescovo gli toccò la spalla con benevola serietà, dicendogli: « Nisi dominus custodierit
domum in vanum vigilant qui custodiunt eam». Poi parlò d’altro. Gli piaceva dire: «C’è il coraggio del prete e c’è il coraggio del colonnello dei dragoni. E il nostro», soggiungeva, «deve essere tranquillo».
VII • CRAVATTE
Qui trova la sua giusta collocazione un fatto che non possiamo tralasciare perché è di quelli che meglio lasciano capire che uomo fosse monsignor vescovo di D. Dopo l’annientamento della banda di Gaspard Bès che aveva infestato le gole di Ollioules, un suo luogotenente, certo Cravatte, si rifugiò sulla montagna. Per qualche tempo riparò coi suoi banditi, i superstiti della banda di Gaspard Bès, nella contea di Nizza, poi passò in Piemonte e, improvvisamente, riapparve in Francia, dalle parti di Barcellonette. Fu visto prima a Jauziers, poi a Tuiles. Si nascose nelle caverne del Joug de l’Aigle, poi di là scese verso i casolari e i villaggi passando per le gole dell’Ubaye e dell’Ubayette.
Si spinse fino a Embrun dove una notte entrò nella cattedrale e svaligiò la sacrestia. Le sue malefatte desolavano il paese. Gli misero la gendarmeria alle calcagna, ma invano. Riusciva sempre a farla franca e a volte resisteva con la forza; aveva del coraggio quel miserabile. In mezzo a tutto quel terrore capitò il vescovo.
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