Il povero prete è andato tra i montanari con le mani vuote e ritorna con le mani piene. Quando sono partito portavo con me la fiducia in Dio, ritorno con il tesoro d'una cattedrale».
Quella sera, prima di coricarsi, disse ancora:
«Non dobbiamo mai temere i ladri e gli assassini. Quelli sono solo pericoli esterni, pericoli da nulla. Dobbiamo temere, invece, noi stessi. I pregiudizi, ecco i veri ladri; i vizi, ecco i veri assassini. I grandi pericoli sono dentro di noi. Che importano le minacce alla nostra vita o alla nostra borsa? Pensiamo solo a ciò che minaccia la nostra anima».
Poi, volgendosi alla sorella: «Sorella mia, il prete non deve mai prendere alcuna precauzione contro il prossimo. Ciò che fa il prossimo, Dio lo permette. Basta che noi preghiamo Dio quando temiamo che un pericolo ci sovrasti. Preghiamolo non per noi, ma per il fratello nostro, che non sia colpevole per cagion nostra».
Ci limitiamo a raccontare ciò che conosciamo: d'altronde è raro che nella sua vita accadesse qualcosa. Le cose che faceva erano sempre le stesse, nelle medesime occasioni. Un mese del suo anno era simile a un'ora della sua giornata.
Circa la sorte del «tesoro» della cattedrale di Embrun saremmo imbarazzati a rispondere se ci interrogassero in proposito. Certo erano delle cose bellissime che si prestavano a essere rubate a beneficio dei poveri. Rubate, poi, lo erano state già. Metà dell'avventura si era già compiuta; non rimaneva che mutare lo scopo del furto, e fargli fare una piccola deviazione in direzione dei poveri. A questo proposito, del resto, noi non affermiamo nulla. Diciamo solo che, tra le carte del vescovo, fu ritrovata una nota poco chiara che forse potrebbe aver relazione con questo affare e che è così concepita: il problema è sapere se tutto ciò debba far ritorno alla cattedrale oppure all'ospedale.
VIII • FILOSOFIA DOPO UN BICCHIERE (torna all'indice)
Il senatore del quale abbiamo parlato nelle pagine precedenti era un uomo accorto che aveva fatto carriera con una rettitudine incurante di tutti quegli ostacoli che chiamiamo coscienza, parola data, giustizia, dovere; era andato avanti dritto al suo scopo senza inciampare una sola volta sulla linea del suo interesse e della sua ascesa. Era stato un procuratore, innamorato del successo, niente affatto cattivo, attento a procacciare ogni possibile vantaggio ai propri figli, ai propri generi, ai parenti, anche agli amici; della vita aveva con saggezza saputo cogliere i lati buoni, le buone occasioni, la buona fortuna. Tutto il resto non gli sembrava avesse importanza. Era pieno di spirito, abbastanza istruito per credersi un discepolo di Epicuro, non essendo, forse, che un seguace di Pigault-Lebrun. Rideva volentieri e di gusto delle cose infinite ed eterne, delle «frottole di quel brav'uomo del vescovo». E rideva, a volte con cortese autorità, davanti a Myriel stesso, che l'ascoltava.
In non so più quale cerimonia semi-ufficiale, il conte *** (quel senatore) e monsignor Myriel furono costretti a pranzare in casa del prefetto. Al dessert, il senatore, un po' allegro anche se sempre dignitoso, esclamò:
«Per Bacco, signor vescovo, parliamo. È raro che un senatore e un vescovo si guardino senza strizzar l'occhio. Siamo due àuguri. Voglio farvi una confessione. Ho una mia filosofia».
«E avete ragione», rispose il vescovo. «Quando uno si fa una filosofia ci si può sdraiare. E voi siete su un letto di porpora, signor senatore».
Il senatore, incoraggiato, riprese:
«Facciamo i bravi ragazzi».
«Anzi i bravi diavoli», disse il vescovo.
«Vi dichiaro», continuò il senatore, «che il marchese d'Argens, Pirrone, Hobbes e il signor Naigeon non sono affatto dei cialtroni. Nella mia biblioteca li ho tutti questi miei filosofi, con il taglio dorato».
«Proprio come voi, signor conte», l'interruppe il vescovo.
Il senatore continuò:
«Diderot lo odio; è un ideologo, un declamatore, un rivoluzionario, in fondo in fondo credette in Dio, e fu più bigotto di Voltaire.
1 comment