Si sarebbe detto, da una sorta di serpente che si dipanava sul pavimento, che quella forma sinistra avesse la corda al collo.

            Tutta la sala era immersa in quella foschia dei luoghi appena illuminati che aggiunge orrore a orrore.

            Jean Valjean ha spesso detto poi che, benché molti spettacoli funebri avessero attraversato la sua vita, non aveva mai visto nulla di più agghiacciante e di più terribile di quella figura enigmatica che compiva non si sa qual mistero ignoto in quel luogo tetro e così intravista nella notte. Era spaventoso supporre che forse era morta, e più spaventoso ancora pensare che forse era viva.

            Ebbe il coraggio di incollare la fronte al vetro e di spiare se quella cosa si muovesse. Ebbe un bel restare così per un lasso di tempo che gli parve assai lungo, la forma distesa non faceva alcun movimento. D'un tratto si sentì cogliere da uno spavento inesprimibile, e fuggì. Si mise a correre verso il deposito senza osare guardarsi alle spalle. Gli pareva che se avesse voltato la testa avrebbe visto la figura marciare dietro di lui a grandi passi agitando le braccia.

            Arrivò alla rovina ansante. Le ginocchia gli si piegavano; il sudore gli scorreva sulla schiena.

            Dov'era? Chi avrebbe mai potuto immaginarsi qualcosa di simile a quella specie di sepolcro nel bel mezzo di Parigi? Cos'era quella strana casa? Edificio pieno di mistero notturno, che chiamava le anime nell'ombra con la voce degli angeli, e quando venivano offriva loro bruscamente quella visione spaventevole, che prometteva di aprire la porta radiosa del cielo e apriva la porta orrenda della tomba! Eppure quello era ben un edificio, una casa che aveva il suo numero in una via! Non era un sogno! Aveva bisogno di toccarne le pietre per crederci.

            Il freddo, l'ansia, l'inquietudine, le emozioni della serata gli davano la febbre, e tutte quelle idee si scontravano nel suo cervello.

            Si avvicinò a Cosette. Dormiva.

 

VIII • L'ENIGMA RADDOPPIA    (torna all'indice)

 

            La bambina aveva posato la testa su una pietra e si era addormentata.

            Egli si sedette accanto e si mise a contemplarla. A poco a poco, man mano che la guardava, si calmava, e riprendeva possesso della sua mente.

            Percepiva chiaramente questa verità, la sostanza della sua vita ormai, che finché lei fosse stata lì, finché l'avesse avuta accanto, egli non avrebbe avuto bisogno di nulla se non per lei, non avrebbe avuto paura di nulla se non a causa di lei. Non sentiva neppure di aver freddo, essendosi tolta la finanziera per coprirla.

            Tuttavia, attraverso la fantasticheria in cui era caduto, sentiva da qualche tempo un rumore singolare. Era come se qualcuno agitasse un sonaglio. Quel suono era nel giardino. Lo si sentiva distintamente, benché debolmente. Somigliava alla piccola musica vaga che fanno i campanacci del bestiame la notte nei pascoli.

            Quel suono fece voltare Jean Valjean.

            Guardò, e vide che c'era qualcuno nel giardino.

            Un essere che somigliava a un uomo camminava tra le campane della poponaia, alzandosi, abbassandosi, fermandosi, con movimenti regolari, come se trascinasse o stendesse qualcosa a terra. Quell'individuo sembrava zoppicare.

            Jean Valjean trasalì con quel tremore continuo degli infelici. Tutto è loro ostile e sospetto. Diffidano del giorno perché contribuisce a mostrarli, e della notte perché contribuisce a sorprenderli. Un attimo prima rabbrividiva perché il giardino era deserto, ora rabbrividiva perché c'era qualcuno.

            Ricadde dai terrori chimerici ai terrori reali. Si disse che Javert e i poliziotti forse non se n'erano andati, che senza dubbio avevano lasciato in strada qualcuno in osservazione, che se quell'uomo lo scopriva in quel giardino avrebbe gridato al ladro e l'avrebbe consegnato. Prese delicatamente tra le braccia Cosette addormentata e la portò dietro una catasta di vecchi mobili fuori uso, nell'angolo più nascosto del deposito. Cosette non si mosse.

            Da lì osservò tutti gli andirivieni dell'individuo che si trovava nella poponaia. La cosa bizzarra era che il suono del sonaglio seguiva tutti i movimenti di quell'uomo. Quando l'uomo si avvicinava, il rumore si avvicinava; quando si allontanava, il rumore si allontanava; se faceva qualche gesto precipitoso, un tremolo accompagnava quel gesto; quando si fermava, il rumore cessava. Sembrava evidente che il sonaglio era attaccato a quell'uomo; ma allora cosa poteva significare? Che cos'era quell'uomo con una campanella appesa come un montone o un bue?

            Ponendosi queste domande, toccò le mani di Cosette. Erano di ghiaccio.

            «Ah, buon Dio!», disse.

            La chiamò a bassa voce:

            «Cosette!».

            Ella non aprì gli occhi.

            La scosse vivamente.

            Ella non si svegliò.

            «Non sarà morta!», disse, e si rizzò, fremendo dalla testa ai piedi.

            Le idee più spaventose gli balenarono in mente alla rinfusa. Vi sono momenti in cui le supposizioni orrende ci assediano come una torma di furie e forzano con violenza le difese del nostro cervello. Quando si tratta di coloro che amiamo, la nostra prudenza inventa tutte le follie. Si ricordò che il sonno può essere mortale, all'aperto, in una notte fredda.

            Cosette, pallida, era ricaduta, stesa a terra ai suoi piedi senza fare un movimento.

            Ascoltò il suo respiro; respirava; ma d'una respirazione che gli parve debole e vicina a spegnersi.

            Come riscaldarla? Come risvegliarla? Tutto il resto disparve dai suoi pensieri. Si lanciò perdutamente fuori della rovina.

            Bisognava assolutamente che entro un quarto d'ora Cosette fosse davanti a un fuoco e in un letto.

 

IX • L'UOMO DAL SONAGLIO    (torna all'indice)

 

            Si diresse senza indugio verso l'uomo che vedeva nel giardino. Aveva preso in mano il rotolo di monete che stava nella tasca del suo panciotto.

            Quell'uomo teneva la testa bassa e non lo vedeva avvicinarsi.