Jean Valjean non respirava.
Aveva posato delicatamente la mano sulla bocca di Cosette.
Del resto la solitudine in cui si trovava era così stranamente calma che quello spaventoso strepito, tanto furioso e tanto vicino, non vi proiettava neppure l'ombra di un turbamento. Sembrava che quei muri fossero stati costruiti con le pietre sorde di cui parla la Bibbia.
D'un tratto, nel bel mezzo di quella calma profonda, un nuovo rumore s'innalzò; un rumore celeste, divino, ineffabile, incantevole quanto l'altro era stato orribile. Era un inno che usciva dalle tenebre, uno sgorgare di preghiere e d'armonia nel buio e terribile silenzio della notte; voci di donna, ma voci composte insieme dall'accento puro delle vergini e dall'accento schietto delle bambine, voci che non sono della terra e che somigliano a quelle che i neonati sentono ancora e che i moribondi sentono già. Quel canto veniva dal tetro edificio che dominava il giardino. Nel momento in cui il fracasso dei dèmoni s'allontanava, si sarebbe detto che un coro d'angeli si avvicinasse nell'ombra.
Cosette e Jean Valjean caddero in ginocchio.
Non sapevano cosa fosse, non sapevano dove si trovavano, ma sentivano entrambi, l'uomo e la bambina, il penitente e l'innocente, che dovevano mettersi in ginocchio.
Quelle voci avevano questo di strano: non impedivano che il casamento sembrasse deserto. Era come un canto sovrannaturale in una dimora disabitata.
Mentre quelle voci cantavano, Jean Valjean non pensava più a nulla. Non vedeva più la notte, vedeva un cielo blu. Gli sembrava di sentire aprirsi quelle ali che tutti abbiamo dentro di noi.
Il canto si spense. Era forse durato a lungo. Jean Valjean non avrebbe potuto dirlo. Le ore dell'estasi non sono mai che un minuto. Tutto era ripiombato nel silenzio. Più nulla nella strada, più nulla nel giardino. Ciò che minacciava, ciò che rassicurava, tutto era svanito. Il vento schiacciava sulla cresta del muro le erbe secche che facevano un rumore leggero e lugubre.
VII • SÉGUITO DELL'ENIGMA (torna all'indice)
La brezza notturna s'era levata, il che indicava che dovevano essere tra l'una e le due del mattino. La povera Cosette non diceva nulla. Poiché si era seduta accanto a lui e gli aveva messo la testa in grembo, Jean Valjean pensò che si fosse addormentata. Si chinò a guardarla. Cosette aveva gli occhi spalancati e un'aria pensosa che fece male a Jean Valjean.
Tremava sempre.
«Vuoi dormire?», disse Jean Valjean.
«Ho tanto freddo», rispose lei.
Un istante dopo riprese:
«È ancora lì?».
«Chi?», disse Jean Valjean.
«La signora Thénardier».
Jean Valjean aveva già dimenticato il mezzo di cui si era servito per far mantenere il silenzio a Cosette.
«Ah!», disse, «se n'è andata. Non aver più paura».
La bambina sospirò come se si fosse tolta un peso dal petto.
Il terreno era umido, il deposito aperto da ogni lato, la brezza più fredda ad ogni istante. Il vecchio si tolse la finanziera e vi avvolse Cosette.
«Hai meno freddo, così?», chiese.
«Oh, sì, papà!».
«Bene, aspetta qui un attimo. Torno subito».
Uscì dalla rovina e si mise a costeggiare il grande edificio, in cerca di un riparo migliore. Trovò delle porte, ma erano chiuse. C'erano sbarre a tutte le finestre del pianterreno.
Superato l'angolo interno dell'edificio, notò delle finestre centinate e vi scorse un chiarore. Si rizzò sulla punta dei piedi e guardò in una di quelle finestre. Davano tutte su una sala piuttosto vasta, pavimentata a lastroni, tagliata da arcate e pilastri, dove non si distingueva che un piccolo lume e grandi ombre. La luce veniva da una bugia accesa in un angolo. Quella sala era deserta e nulla vi si muoveva. Tuttavia, a forza di guardare, credette di vedere a terra, sul pavimento, qualcosa che sembrava coperto da un lenzuolo e che somigliava a una forma umana. Quel qualcosa era steso a terra, prono, il volto contro la pietra, le braccia in croce, nell'immobilità della morte.
1 comment