Mademoiselle Bouchard era alta e fresca, col più bel faccino roseo del mondo. Monsignore de Quélen sorrise e disse: Ma come, mia cara bambina! un giorno di vacanza?! Tre giorni, se vi fa piacere. Vi accordo tre giorni. Aveva parlato l'arcivescovo, la priora non poteva farci nulla. Scandalo per il convento ma gioia per il pensionato. Si immagini l'effetto.
Eppure quel burbero chiostro non era a tal punto murato che la vita delle passioni del mondo, che il dramma, perfino il romanzo non potessero in certo qual modo penetrarvi. Per provarvelo ci limiteremo a constatare e a raccontare qui in breve un fatto reale e provato, che, peraltro, non ha nessun rapporto e non è affatto legato alla storia che stiamo raccontando. Menzioniamo questo fatto per completare nello spirito del lettore la fisionomia del convento.
Nel convento c'era in quel periodo una persona misteriosa trattata con ogni rispetto, che era una monaca: la chiamavano madame Albertine. Di lei non si sapeva nulla se non che era pazza e che nel mondo veniva data per morta. Si diceva che sotto quella faccenda ci fossero delle ripartizioni di beni necessarie per un grande matrimonio.
Questa donna, di appena trent'anni, bruna, abbastanza bella, aveva grandi occhi neri dallo sguardo vuoto. Ci vedeva? C'era di che dubitarne. Più che camminare scivolava; non parlava mai; non si era neanche sicuri che respirasse. Aveva le narici strette e livide come se avesse esalato l'ultimo respiro. Toccarle la mano era come toccare la neve. Aveva una strana grazia spettrale. Dove entrava lei, faceva freddo. Un giorno, una suora, vedendola passare, disse a un'altra: «Tutti la credono morta». «Forse lo è», rispose l'altra.
Su madame Albertine si raccontavano mille storie. Ella costituiva l'eterna curiosità delle collegiali. Nella cappella c'era una tribuna chiamata occhio di bue. Da questa tribuna infatti, con un'unica apertura a occhio di bue, madame Albertine assisteva alle funzioni. Ci stava di solito da sola, perché dalla tribuna, situata al primo piano, era possibile vedere il predicatore o l'officiante, cosa proibita alle monache. Un giorno sul pulpito c'era un giovane prete d'alto lignaggio, duca di Rohan, pari di Francia, ufficiale dei moschettieri rossi nel 1815 quand'era principe di Léon, morto dopo il 1830 cardinale e arcivescovo di Besançon. Era la prima volta che monsignor de Rohan predicava al convento del Petit-Picpus. Madame Albertine di solito assisteva alle funzioni in perfetta calma e nella più assoluta immobilità. Ma quel giorno, appena scorto monsignor de Rohan, si drizzò per metà e disse ad alta voce nel silenzio della cappella: «Toh! Auguste!». Tutta la comunità allibita girò la testa, il predicatore alzò gli occhi, ma madame Albertine era ripiombata nella sua immobilità. Un soffio del mondo esterno, un barlume di vita, era passato per un istante su quel personaggio spento e gelido, poi tutto era svanito e la pazza era ridiventata cadavere.
Ma quelle due parole fecero chiacchierare, per quanto era possibile parlare, tutto il convento. Quante cose c'erano in quel toh! Auguste! quante rivelazioni! Perché monsignor de Rohan si chiamava davvero Auguste. Ed era evidente che madame Albertine veniva dal gran mondo perché conosceva monsignor de Rohan, e lei stessa doveva essere collocata molto in alto se parlava di un gran signore con tanta familiarità, che aveva un qualche rapporto con lui, forse di parentela, certo una parentela molto stretta perché conosceva anche il suo nome di battesimo.
Due severissime duchesse, le signore de Choiseul e de Sérent, venivano spesso in visita al convento dove potevano entrare in virtù del privilegio magnates mulieres e facevano paura a tutto l'educandato.
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