La mamma aveva detto che ci avrebbe portato a prendere l'ulivo benedetto la domenica delle palme».

            «Sì, della mano!», rispose Gavroche.

            «Mamma», riprese il maggiore, «è una signora che abita con la signorina Miss».

            «... erabile», ripartì Gavroche.

            Intanto si era fermato, e da qualche minuto tastava e frugava tutti i recessi dei suoi cenci.

            Infine alzò il capo con un'espressione che voleva essere semplicemente soddisfatta ma che in realtà era trionfante.

            «Calmiamoci, mocciosi. Ecco di che cenare per tre».

            E tirò fuori un soldo da una delle sue tasche.

            Senza lasciare ai due piccini il tempo di stupirsi, li spinse entrambi davanti a sé nella bottega del panettiere e mise il suo soldo sul banco gridando:

            «Ragazzo! Cinque centesimi di pane».

            Il fornaio, che era il padrone, prese un pane e un coltello.

            «In tre pezzi, ragazzo!», riprese Gavroche e aggiunse con dignità, «siamo in tre».

            E vedendo che il fornaio dopo aver esaminato i tre commensali aveva preso un pane nero, si infilò profondamente un dito nel naso con una aspirazione così imperiosa come se avesse avuto sulla punta del pollice la presa di tabacco del grande Federico e, gettò in pieno viso al fornaio un indignato: «Keksekça?».

            I nostri lettori che fossero tentati di vedere in questa domanda di Gavroche al panettiere una parola russa o polacca, o uno di quei gridi selvaggi che gli Yowais e i Botocudos si lanciano da una sponda all'altra del fiume attraverso quei luoghi deserti, sono preavvisati che si tratta di una parola che dicono tutti i giorni (loro, i nostri lettori) e che sta a al posto di questa frase: «qu'est-ce que c'est que cela?», ma il panettiere capì perfettamente e rispose:

            «Questa poi! È pane, un ottimo pane di seconda qualità».

            «Volete dire panaccio nero», riprese Gavroche calmo e freddamente sprezzante. «Pane bianco, ragazzo! Pane insaponato! Offro io!».

            Il panettiere non poté impedirsi di sorridere e ora tagliando il pane bianco li osservava con aria di compassione che irritò Gavroche.

            «E allora, garzoncello! Che avete da misurarci così?».

            Messi tutti e tre uno sull'altro, avrebbero raggiunto una tesa appena.

            Quando il pane fu tagliato, il panettiere incassò il soldo e Gavroche disse ai due bambini:

            «Morfilez!».

            I bambini lo guardarono interdetti.

            Gavroche si mise a ridere:

            «Ah, già! Toh, è vero, non capiscono ancora, sono così piccoli!».

            E riprese:

            «Mangiate».

            E intanto porse a ognuno un pezzo di pane.

            E, pensando che il maggiore, che gli sembrava più degno della sua conversazione, meritasse qualche incoraggiamento speciale e dovesse essere liberato da ogni esitazione a soddisfare l'appetito aggiunse, dandogli la parte più grossa:

            «Caccia giù questo».

            C'era un pezzo più piccolo degli altri, lo prese per sé.

            I poveri bambini erano affamati, Gavroche compreso. Mentre strappavano il pane a morsiconi, tenevano occupata la bottega del fornaio che, ora che era stato pagato, li osservava malevolo.

            «Ritorniamo per strada», disse Gavroche.

            Ripresero la direzione della Bastiglia.

            Di tanto in tanto, quando passavano davanti alle vetrine illuminate delle botteghe, il più piccino si fermava a guardare l'ora in un orologio di piombo che aveva appeso al collo con una cordicella.

            «Ecco proprio un bel tonto», disse Gavroche.

            Poi, pensoso, borbottava fra i denti: «Non importa, se avessi dei marmocchi li custodirei meglio».

            Mentre finivano il loro pezzo di pane e raggiungevano l'angolo di quella cupa rue des Ballets in fondo alla quale si scorge lo spioncino basso e ostile della Force:

            «Toh, sei tu, Gavroche?», disse qualcuno.

            «Toh, sei tu Montparnasse?», disse Gavroche.

            Un uomo aveva avvicinato il monello, e, quell'uomo altri non era che Montparnasse camuffato con occhiali azzurrati ma riconoscibile per Gavroche.

            «Caspita!», proseguì Gavroche, «hai una buccia color cataplasma di seme di lino e occhiali azzurri come un dottore. Tu hai stile, parola di vecchio!».

            «Sst», fece Montparnasse, «non così forte!».

            E trascinò bruscamente Gavroche fuori dalla luce delle botteghe.

            I due piccini lo seguivano meccanicamente tenendosi per mano. Quando furono sotto l'archivolto buio di un portone, al riparo dagli sguardi e dalla pioggia:

            «Sai dove vado?», chiese Montparnasse.

            «All'abbazia di Monte-à-Regret», disse Gavroche.

            «Burlone!».

            Montparnasse riprese:

            «Vado a rivedere Babet».

            «Ah», fece Gavroche, «lei si chiama Babet».

            Montparnasse abbassò la voce.

            «Non lei, lui».

            «Ah, Babet!».

            «Sì, Babet».

            «Lo credevo annodato».

            «Ha disfatto il nodo», rispose Montparnasse.

            E raccontò rapidamente al monello che, al mattino di quello stesso giorno, Babet, che era stato trasferito alla Concièrgerie, era evaso prendendo a destra invece che a sinistra nel «corridoio dell'istruzione».

            Gavroche ammirò l'abilità.

            «Che dentista!», disse.

            Montparnasse aggiunse qualche dettaglio sull'evasione di Babet e terminò dicendo:

            «E non è tutto».

            Gavroche, mentre ascoltava, s'era impossessato di un bastone che Montparnasse teneva in mano; ne aveva macchinalmente tirato fuori la parte superiore: era apparsa la lama di un pugnale.

            «Ah!», fece cacciando subito dentro il pugnale, «hai portato il tuo gendarme travestito da borghese».

            Montparnasse strizzò l'occhio.

            «Caspita!», riprese Gavroche, «dunque stai per menar le mani con gli sbirri».

            «Non si sa mai», rispose Montparnasse con aria indifferente. «È sempre bene avere uno spillo addosso».

            Gavroche insistette:

            «Cosa farai allora stanotte?».

            Montparnasse prese nuovamente un tono grave e disse mangiandosi le sillabe:

            «Delle cose».

            E, cambiando bruscamente discorso:

            «A proposito!».

            «Che?».

            «Una storia dell'altro giorno. Immaginati. Ho incontrato un borghese che mi regala un sermone e la sua borsa. L'ho messa in tasca. Un minuto dopo frugo, non c'era nulla».

            «Tranne il sermone», fece Gavroche.

            «E tu», riprese Montparnasse, «dove stai andando ora?».

            Gavroche indicò i due protetti e disse:

            «A portare a nanna quei bambini».

            «E dove?».

            «A casa mia».

            «E dov'è questa tua casa?».

            «A casa mia».

            «Hai casa allora?».

            «Sì, ho casa».

            «E dove hai casa?».

            «Nell'elefante», disse Gavroche.

            Montparnasse, benché per sua natura non fosse facile a stupirsi, non poté trattenere un'esclamazione:

            «Nell'elefante!».

            «Ebbene sì, nell'elefante!», ripartì Gavroche. «Kekçaa?».

            Questa è un'altra parola che nessuno scrive e che tutti dicono: kekçaa, significa: «che c'è».

            L'osservazione profonda del monello riportò Montparnasse alla calma e al buon senso. Parve tornare a sentimenti migliori nei confronti dell'alloggio di Gavroche.

            «Difatti!», disse, «sì, l'elefante, e ci si sta bene?».

            «Benissimo», fece Gavroche. «Là, davvero, divinamente. Non ci sono spifferi come sotto i ponti».

            «Come ci entri?».

            «Ci entro».

            «C'è un buco allora», fece Montparnasse.

            «Perbacco! Ma non bisogna dirlo. È in mezzo alle gambe davanti. I poliziotti non l'hanno visto».

            «E tu ti arrampichi? Sì, ho capito».

            «Un giro di mano, cric, crac è fatto, gli altri fuori».

            Dopo una pausa Gavroche aggiunse:

            «Per questi piccini, prenderò una scala».

            Montparnasse si mise a ridere:

            «Dove diavolo hai preso quei mocciosi?».

            Gavroche rispose con semplicità:

            «Sono due marmocchi che mi ha regalato un parrucchiere».

            Intanto Montparnasse si era fatto pensoso.

            «Mi hai riconosciuto con gran facilità», mormorò.

            Prese dalla tasca due oggettini che altro non erano che due tubicini di penna avvolti nel cotone e se ne introdusse uno in ogni narice. Questo gli fece un altro naso.

            «Ti cambia», disse Gavroche, «sei meno brutto, dovresti tenerli sempre!».

            Montparnasse era un bel giovane, ma a Gavroche piaceva scherzare.

            «Scherzi a parte», chiese Montparnasse, «come mi trovi?».

            Era diverso anche il timbro di voce. In un batter d'occhio Montparnasse era diventato irriconoscibile.

            «Ah! Facci Pulcinella!», esclamò Gavroche.

            I due piccini, che fino a quel momento non avevano ascoltato nulla, occupati com'erano a ficcarsi le dita nel naso, a quel nome si avvicinarono e guardarono Montparnasse con un principio di allegria e di ammirazione.

            Sfortunatamente Montparnasse era preoccupato.

            Posò la mano sulla spalla di Gavroche e gli disse sottolineando le parole:

            «Ascolta quel che ti dico, ragazzo, se fossi in piazza e con il mio dogo, la mia diga, e la mia daga, e se voi mi prodigaste dieci bei soldoni, non rifiuterei di lavorare ma non siamo di martedì grasso».

            Quella frase bizzarra produsse un effetto singolare sul monello. Si girò bruscamente, fece girare con profonda attenzione gli occhietti brillanti attorno a sé e scorse, qualche passo da lì, una guardia municipale che volgeva loro le spalle. Gavroche si lasciò sfuggire un: «Ah! bene!», che represse immediatamente stringendo la mano a Montparnasse:

            «Ah, bene, buonasera», fece, «me ne vado al mio elefante coi miei marmocchi. Se per ipotesi tu avessi bisogno di me una notte, vienimi a trovare lì. Abito all'ammezzato. Non c'è portiere. Chiederai del signor Gavroche».

            «Bene», disse Montparnasse.

            E si separarono, Montparnasse camminando in direzione della Grève e Gavroche verso la Bastiglia. Il piccolo di cinque anni, trascinato da suo fratello che Gavroche trascinava, girò parecchie volte la testa indietro per veder «Pulcinella» che se ne andava.

            La frase sibillina con la quale Montparnasse aveva avvertito Gavroche della presenza della guardia municipale, non conteneva altra chiave che l'assonanza dig ripetuta cinque o sei volte in diverse forme. Quella sillaba, dig non pronunciata isolatamente, ma artisticamente mescolata alle altre parole di una frase, vuol dire: «Attenzione, non si può parlare liberamente». C'era inoltre nella frase di Montparnasse una finezza letteraria che sfuggì a Gavroche, cioè il mio dogo, la mia daga e la mia diga, locuzione dell'argot del Temple che significa il mio cane, il mio coltello e la mia donna, molto usata tra i pagliacci e i buffoni del gran secolo in cui Molière scriveva e Callot disegnava.

            Vent'anni or sono, si vedeva ancora all'angolo sud-est di piazza della Bastiglia vicino alla darsena del canale scavato nell'antico fossato della prigione cittadella, un monumento bizzarro che s'è già cancellato dalla memoria dei parigini e che meritava di lasciarvi qualche traccia perché era un'idea del «membro dell'istituto e generale in capo dell'esercito di Egitto».

            Diciamo monumento, benché fosse soltanto un modellino. Ma questo stesso modellino, embrione prodigioso, cadavere grandioso di un'idea di Napoleone che due o tre successivi colpi di vento avevano trascinato e buttato ogni volta più lontano da noi, era divenuto storico e aveva assunto un non so che di definitivo che contrastava col suo aspetto provvisorio.