Ci furono infatti frequenti uragani accompagnati da lampi e tuoni.

            Una sera in cui quel vento soffiava con violenza tale che pareva fosse tornato gennaio e i borghesi avevano tirato fuori i mantelli, il piccolo Gavroche, che tremava sempre allegramente nei suoi cenci, stava ritto e come in estasi davanti alla bottega di un parrucchiere nei dintorni dell'Orme-Saint-Gervais. Era adorno di uno scialle da donna di lana, raccolto chissà dove, col quale si era fatto una sciarpa. Il piccolo Gavroche pareva in profonda ammirazione di una sposa di cera, scollata e adorna di fiori d'arancio, che girava dietro il vetro, mostrando, tra due lampade Quinquet, il sorriso ai passanti; in realtà egli osservava la vetrina per vedere se non poteva «sgraffignare» un pane di sapone, che in seguito sarebbe andato a rivendere per un soldo a un «parrucchiere» di periferia. Gli capitava spesso di poter mangiare con uno di quei pani. Chiamava quel genere di lavoro, per il quale aveva talento, «far la barba ai barbieri».

            Mentre contemplava la sposa e teneva d'occhio il sapone, borbottò tra i denti: «Martedì... No, non è martedì... E se fosse martedì?... Forse è martedì... Sì è martedì».

            Non si è mai saputo a cosa si riferisse quel monologo.

            Se, per caso, si fosse riferito all'ultima volta che aveva mangiato, dato che era venerdì, eran passati tre giorni.

            Il barbiere, nella sua bottega riscaldata da una buona stufa, radeva un cliente e lanciava di tanto in tanto un'occhiata di sbieco a quel nemico, a quel monello intirizzito e sfrontato che teneva le mani in tasca ma aveva l'attenzione palesemente sguainata.

            Mentre Gavroche esaminava la sposa, i vetri e il Windsor-soap, due bambini di altezza diversa, abbastanza ben vestiti e ancor più piccoli di lui, che parevano avere uno sette anni e l'altro cinque, girarono timidamente la maniglia e entrarono nella bottega chiedendo chissà cosa, forse la carità, con un piagnucolio che pareva un gemito piuttosto che una preghiera. Parlavano tutti e due insieme e le loro parole erano incomprensibili perché la voce del piccino era rotta dai singhiozzi e il freddo faceva battere i denti al maggiore. Il barbiere si girò con un'espressione infuriata e, senza lasciare il rasoio, spingendo il maggiore con la mano sinistra e il piccino col ginocchio, li cacciò in strada e richiuse la porta dicendo:

            «Far prender freddo alla gente per niente!».

            I due bambini ripresero il cammino piangendo. Intanto si era rannuvolato e cominciava a piovere.

            Il piccolo Gavroche li rincorse e li abbordò:

            «Che avete marmocchi?».

            «Non sappiamo dove andare a dormire», rispose il maggiore.

            «Tutto qui?», disse Gavroche. «Tutto qui? Si piange per così poco? Siete proprio sciocchi!».

            E assumendo, con la sua superiorità un po' beffarda, un accento di autorità intenerita e di dolce protezione:

            «Venite con me, poppanti».

            «Sì, signore», fece il maggiore.

            E i due bambini lo seguirono come avrebbero seguito un arcivescovo. Avevano smesso di piangere.

            Gavroche li condusse per la rue Saint-Antoine in direzione della Bastiglia e, mentre camminava, lanciò un'occhiata indignata e retrospettiva verso la bottega del parrucchiere.

            «Non ha cuore quel tosacapelli», borbottò. «È un inglese».

            Una ragazza, vedendoli camminare tutti e tre in fila con Gavroche in testa, esplose in una fragorosa risata. Una risata che mancava di rispetto al gruppo.

            «Buongiorno signorina Omnibus», le disse Gavroche.

            Un istante dopo gli tornò in mente il parrucchiere e aggiunse:

            «Mi son sbagliato di grosso: non è un tosacapelli, è un serpente. Parrucchiere, andrò a cercare un fabbro e ti farò mettere un campanello alla coda».

            Quel parrucchiere l'aveva reso aggressivo. Apostrofò, scavalcando un rigagnolo, una portinaia barbuta, degna di incontrare Faust sul Brocken, con una scopa in mano.

            «Signora», le disse, «uscite col vostro cavallo?».

            Detto questo, inzaccherò gli stivali di vernice di un passante.

            «Mascalzone!», gridò il passante infuriato.

            Gavroche alzò il naso dal suo scialle.

            «Il signore si lamenta?».

            «Di te!», fece il passante.

            «L'ufficio è chiuso», disse Gavroche, «non ricevo più lamentele».

            Intanto, continuando a risalire la via, scorse, congelata sotto un portone, una mendicante di tredici o quattordici anni, con un vestito così corto che le si vedevano le ginocchia. La piccina cominciava a essere troppo signorina per questo. La crescita gioca di questi tiri: la gonna diventa corta quando la nudità diventa indecente.

            «Povera piccola!», disse Gavroche. «Non ha neppure le mutande. Toh, piglia questo intanto».

            E, sciogliendo tutta quella buona lana che aveva attorno al collo, la gettò sulle spalle magre e livide della mendicante dove la sciarpa ridivenne scialle.

            La piccina lo guardò con un'aria sbigottita e ricevette lo scialle in silenzio. A un certo grado di miseria, il povero, nel suo stupore, non geme più per il male e non ringrazia per il bene.

            Fatto questo: «Brr!», disse Gavroche, più tremante di san Martino, il quale, perlomeno, aveva tenuto metà del mantello.

            A quel «Brr!» l'uragano aumentò la sua stizza e divenne furioso. Quei cieli cattivi puniscono le buone azioni.

            «Questa poi», esclamò Gavroche, «che cosa significa? Torna a piovere! Buon Dio, se continua così, io disdico l'abbonamento».

            E si rimise in cammino.

            «Fa lo stesso», riprese, lanciando uno sguardo alla mendicante che si raggomitolava sotto lo scialle, «eccone una con una bella buccia».

            E, guardando la nube, gridò: «Beffato!».

            I due bambini regolavano il passo sul suo.

            Quando passarono davanti a uno di quei fitti graticci indicanti una bottega di panettiere, dato che il pane, come l'oro, si mette dietro grate di ferro, Gavroche si girò:

            «A proposito, abbiamo cenato marmocchi?».

            «Signore», rispose il maggiore, «non abbiamo più mangiato da stamattina».

            «Siete dunque senza né padre né madre?», riprese maestosamente Gavroche.

            «Perdonate signore, noi abbiamo papà e mamma, ma non sappiamo dove sono».

            «A volte, è meglio così che saper dove sono», disse Gavroche che era un pensatore.

            «Son due ore», proseguì il maggiore, «che camminiamo, abbiamo cercato qualcosa agli angoli dei paracarri, ma non abbiamo trovato niente».

            «Lo so», fece Gavroche. «Si mangiano tutto i cani».

            E, dopo una pausa, riprese:

            «Ah! Abbiamo perduto i nostri autori. Non sappiamo più quel che ne abbiano fatto. Non si deve far così, monelli. È sciocco perder così gente d'una certa età. Questa poi! Bisogna pur mangiare».

            Del resto non fece loro altre domande. Esser senza domicilio, cosa c'è di più facile?

            Il maggiore dei due marmocchi, quasi interamente tornato alla pronta noncuranza dell'infanzia, fece questa esclamazione:

            «È strano però.