Il dolore la rodeva dentro, spremendole grosse lagrime dagli occhi, e rendendola più bella: così, a primavera, cade la pioggia mentre splende il sole.
"Voi siete il mio sposo e il mio padrone, rispose con un sospiro, e per terribile che sia la sorte che mi aspetta, vi mostrerò che la mia gioia maggiore è quella di obbedirvi".
Andò in camera sua, si spogliò delle ricche vesti, riprese in silenzio gli umili abiti di un tempo, e di nuovo si presentò al principe, dicendo:
"Non so staccarmi da voi senza che mi perdoniate i dispiaceri che forse vi ho dato; posso sopportare la mia miseria, non già il vostro sdegno. Fatemi questa grazia, ed io vivrò contenta nell'umile mia dimora, senza che mai il tempo possa mutare il mio rispetto e il mio amore per voi."
Poco mancò che tanta sottomissione e tanta magnanimità non rimovessero il principe dal suo proposito. Commosso, quasi piangendo, egli stava sul punto di abbracciarla, quando di botto la caparbietà la vinse e gli fece dire con asprezza:
"Del passato non mi ricordo più. Sono contento di vedervi pentita. Andate!"
La poverina parte all'istante in compagnia del padre addolorato. "Torniamo, dice, ai nostri boschi, alla rozza dimora; lasciamo senza rimpianto il fasto della reggia. Le nostre capanne non hanno tanta magnificenza, ma vi si trova l'innocenza, la quiete, il riposo".
Torna al suo deserto, riprende fuso e conocchia e va a filare in riva a quel ruscello dove il principe l'avea trovata. Calma, senza rancore, prega di continuo il cielo che colmi lo sposo di gloria, di ricchezza, di quanto, possa bramare.
Ma il caro sposo intanto, volendo sempre più metterla alla prova, le manda a dire di venire a corte.
"Griselda, le dice, bisogna che la principessa cui domani mi fo sposo sia contenta di voi e di me. Aiutatemi dunque. Nessun risparmio, nessun ritegno; fate che in ogni cosa si manifesti la grandezza del principe, e di un principe innamorato. Mettete tutta l'arte vostra ad ornare gli appartamenti di lei; vi regni il fasto, la nettezza, la magnificenza; pensate che si tratta di una giovane principessa da me teneramente amata. Anzi, perchè meglio intendiate i vostri doveri, ve la farò subito conoscere."
Arrivò in quel punto la giovane sposa, e parve più luminosa e sorridente dell'aurora. Griselda, al solo vederla, si sentì dentro un impeto di amor materno; si ricordò del passato e dei giorni felici. "Ahimè! pensò, la figlia mia, se il cielo l'avesse permesso, avrebbe la stessa età e sarebbe forse così bella".
Un affetto vivo, prepotente, la prese per quella fanciulla; e non appena la vide allontanarsi, non potè fare a meno di dire al principe, mossa dall'inconscio istinto materno:
"Permettete, signore, ch'io vi faccia notare che l'amabile principessa da voi scelta per sposa, cresciuta ed allevata negli agi e nella porpora, non potrà sopportare, senza pericolo della vita, gli stessi trattamenti che io m'ebbi da voi. Per me, il bisogno, gli oscuri natali mi avevano indurita alle fatiche, sicchè potevo sopportare ogni sorta di male, senza soffrirne e senza dolermi. Ma a lei, che non mai conobbe il dolore, la minima parola un po' aspra potrebbe far male. Io ve ne supplico, signore! trattatela con dolcezza".
"Pensate, ammonì severo il principe, a servirmi come potete; non sarà mai detto che una semplice pastorella mi faccia la lezione e m'insegni i miei doveri".
A queste parole, Griselda, senza aprir bocca, si ritira.
Arrivano intanto gl'invitati alle nozze; e il principe, in una magnifica sala, prima che la funzione incominci, parlò loro in questi termini:
"Nulla al mondo, dopo la speranza, è più ingannevole dell'apparenza, ed eccone una prova luminosa. Chi non crederebbe che la giovane principessa, mia eletta sposa, non sia felice e contenta? Eppure, non è così.
"Chi non crederebbe che questo giovane guerriero, vago di gloria, non sia lieto di queste nozze, egli che nei tornei riporterà vittoria su tutti ì rivali? Eppure non è così. "Chi non crederebbe che Griselda, giustamente sdegnata, non pianga e non si disperi? Eppure ella non si duole, consente a tutto, e nulla potè stancare la sua pazienza.
"Chi non crederebbe finalmente alla fortuna che mi arride, vedendo la grazia di colei che amo? Eppure se le nozze mi legassero, io sarei il più disgraziato fra i principi del mondo.
"L'enigma vi sembra difficile, ma due parole ve lo spiegheranno, due parole che faranno dileguare tutte le sventure or ora enumerate.
"Sappiate che la bella ed amata sposa è mia figlia, e che io la do in moglie a questo giovane signore, che l'ama ardentemente e n'è riamato.
"Sappiate pure che, vivamente commosso dalla rassegnazione della sposa fedele da me indegnamente scacciata, io la riprendo, per riparare col più fervente amore ai torti che le inflisse la mia crudele gelosia. Sarò più studioso di prevenire ogni suo desiderio che non fui costante a colmarla di amarezze; e se la memoria sarà eterna della mirabile rassegnazione di lei, voglio che molto più si parli della gloria onde io ne avrò coronata la virtù".
Come ad un improvviso raggio di sole che squarci le nuvole nere della tempesta, s'illumina e ride la campagna, così in tutti gli occhi si dileguò la tristezza, cedendo il posto alla più schietta allegria.
La principessina si gettò alle ginocchia del padre e teneramente le abbracciò; la rialzò il principe e la condusse dalla madre, cui il soverchio della gioia toglieva quasi i sensi. Il cuore, costante e forte contro gli assalti del dolore, soccombeva ora alla letizia, e la povera Griselda non poteva che piangere.
"Basta, disse il principe, sfogherete a miglior tempo gli affetti. Riprendete le vesti regali e solenniziamo le nozze di nostra figlia".
Si va in chiesa, si scambia fra gli sposi la promessa; e subito dopo seguono feste, tornei, giuochi, danze, musiche, banchetti. Tutti gli occhi si volgono a Griselda, tutte le voci esaltano la sua meravigliosa pazienza. E tale e tanta è la gioia del popolo, che si arriva perfino a lodare la prova crudele del principe bisbetico, alla quale si deve il perfetto modello d'una così bella e rara virtù, che tanto aggiunge pregio alla donna.
I desideri ridicoli
C'era una volta un taglialegna, il quale, stanco della vita - così almeno diceva - avea gran voglia di andarsene al mondo di là. Da che era venuto al mondo, a sentir lui, il cielo spietato non avea mai voluto esaudire un solo dei suoi voti.
Un giorno che così si lamentava nel bosco, gli comparve Giove con in mano un fulmine. Figurarsi la paura del pover'uomo! "Niente voglio, esclamò gettandosi a terra, niente desideri, niente fulmini, e siamo lesti!"
"Non temere, lo rassicurò Giove. Commosso ai tuoi pianti, vengo a mostrarti il torto che mi fai. Ascoltami. Io, sovrano del mondo, ti prometto di esaudire i primi tre desideri che ti verranno in mente, quali che essi siano. Pensa a quel che meglio potrebbe formare la tua felicità; ma poichè questa dipende tutta dai tuoi voti, pensaci bene prima di farli."
Ciò detto, disparve.
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