Le belle maniere erano la sua gioia più grande. S’asciugava sempre il labbro superiore così bene, che nella sua coppa non si scorgeva la più piccola traccia d’unto quando aveva bevuto, e si serviva dei cibi con moltissimo garbo. Certamente essa amava anche conversare; piacevolissima e affabile nel portamento, si sforzava d’imitare le maniere di corte e d’aver modi dignitosi per esser stimata degna di riverenza. Ma, per darvi un’idea del suo carattere, era così caritatevole e pietosa, che si metteva a piangere se vedeva un topo preso in trappola, sia che fosse morto o sanguinasse. Teneva alcuni cagnolini che nutriva di carne arrostita oppure latte e pan buffetto. Ma piangeva a calde lacrime se gliene moriva uno o se glielo colpivano di mala grazia col bastone: era veramente tutta cuore e sentimento. Aveva il soggólo finemente pieghettato, il naso ben profilato, gli occhi grigi come il vetro, la bocca piccolina, rossa e morbida per giunta, ma soprattutto aveva una bella fronte, alta, credo, quasi un palmo, e di certo non era bassa di statura. Il suo mantello, vidi, era di foggia molto elegante. Portava al braccio un doppio rosario di piccoli coralli, con i grani più grossi tutti colorati di verde, e ne pendeva un medaglione d’oro lucente, su cui spiccava una coronata e, più sotto, “Amor vincit omnia” (12).

Aveva con sé un’altra Monaca, sua cappellana, e tre preti.

E c’era un Monaco, eccezionalmente bello, un ispettore di poderi che amava andare a caccia, un pezzo d’uomo, proprio adatto a far l’abate. Aveva nella stalla molti cavalli di gran pregio e quando cavalcava, si sentiva la sua briglia tintinnare nel sibilo del vento, chiara e squillante come la campana della cappella. Siccome là nel piccolo convento di cui era guardiano la regola di San Mauro e San Benedetto (13) era antiquata e un po’

troppo rigorosa, questo Monaco tralasciava la roba vecchia per mettersi al passo col mondo nuovo. Non avrebbe dato una gallina spennacchiata per quella massima secondo la quale i cacciatori non sono santi e un monaco fuor di clausura, ossia un monaco fuori del chiostro, è come un pesce fuor d’acqua. Per lui quella massima non valeva un’ostrica, ed io gli dissi che aveva ragione. Perché avrebbe dovuto mettersi a studiare e diventar matto sempre col naso sui libri nel chiostro, o lavorar di mani e sfaticare come aveva comandato Agostino? (14) Il mondo allora chi l’avrebbe servito?

Si tenesse pure la fatica per sé Agostino! Egli perciò faceva il battitore: aveva certi levrieri ch’erano veloci come uccelli in volo, e tutta la sua passione era spronare e andare a caccia della lepre, senza mai badare a spese. Vidi che aveva le maniche profilate ai polsi di pelliccia grigia, della più fine che si trovasse nel paese; e per allacciare il cappuccio sotto il mento, aveva un curioso, spillo d’oro lavorato, che formava al più grosso dei capi un nodo d’amore. Aveva la testa calva, lucida come uno specchio, e così il viso, tanto che pareva unto. Era un signorotto bello grasso e ben pasciuto, con certi occhi sporgenti e roteanti che ardevano come la brace sotto il paiuolo, stivali morbidi e il cavallo bardato splendidamente. Era insomma un gran bel prelato, non certo pallido come un’anima in tormento. Un cigno grasso era per lui il miglior arrosto; il suo palafreno era nero come una mora.

C’era poi un Frate, sbarazzino e allegro, un questuante, un tipo molto cerimonioso: in tutt’e quattro gli ordini (15) nessuno più di lui sapeva far tante moine e belle chiacchiere, e più d’una volta aveva dovuto combinare a sue spese il matrimonio di qualche bella ragazza. Era proprio un nobile sostegno per il suo ordine! Eppure era molto ben voluto e in confidenza con tutti i possidenti del suo paese e con valenti dame cittadine, perché aveva autorità di confessore, diceva lui, superiore a quella d’un curato, per via della licenza avuta dal suo ordine. Ascoltava con gran dolcezza la confessione, e soave era la sua assoluzione; quando poi sapeva di poterne ricavare qualcosa, andava molto adagio con la penitenza. Far doni a un povero ordine di frati era segno di buona confessione: se un uomo dà, aveva il coraggio di dire, significa che s’è pentito; c’è gente così dura di cuore che non riesce a piangere, neppure se viene ferita a sangue: e allora, invece di tanti pianti e orazioni, dia dei soldi ai poveri frati! La sua cocolla era piena zeppa di coltellucci e spilli da distribuire alle belle donne. E aveva pure una gran bella voce: sapeva cantar bene e suonare la viola; nelle romanze poi era insuperabile. Aveva il collo bianco come un giglio, ma era forte come un guerriero.

Conosceva le taverne d’ogni città e ogni oste e cantiniera, molto meglio dei lebbrosi o dei mendicanti; perché non stava bene che una persona come lui, con la sua posizione, avesse a che fare con lazzari ammalati. Non gli faceva onore e non gli serviva a niente trattar con certi poveracci, invece che coi ricchi e coi mercanti di cibarie. Dove credeva di poter trarre qualche profitto, si faceva cortese e umilmente servizievole.