Nessuno al mondo era più abile di lui. Era il miglior elemosiniere della sua casa (pagava perfino un certo cànone per il privilegio che nessuno dei suoi confratelli invadesse la sua riserva), perché, quand’anche si trattasse d’una vedova senza neppure una scarpa, così suadente era il suo “In principio”, (16) che almeno un quattrino l’otteneva sempre prima d’andarsene. Questi suoi guadagni superavano di gran lunga ogni sua prebenda.
E sapeva darsi d’attorno come un cagnolo. Nei giorni di transazione (17) sapeva essere di grande aiuto: allora non pareva davvero un conventuale con la tonaca logora da povero studente, ma somigliava a un dottore o a un papa. La sua mantellina era di doppio filato di lana e piombava tonda come una campana appena fusa. Talvolta egli bisbigliava vezzosamente per rendere più dolce l’inglese sulla sua lingua; e mentre arpeggiava, dopo aver cantato, gli occhi gli brillavano in fronte come stelle nella notte fredda. Questo valente elemosiniere si chiamava Uberto.
C’era un Mercante con la barba forcuta e la veste variopinta, alto in groppa sul cavallo; cappello di castoro alla fiamminga in testa, stivaletti con belle fibbie finemente lavorate. Sapeva farsi bene sue ragioni, ogni qualvolta c’era da guadagnare. Voleva a tutti i costi che si sorvegliasse il mare tra Middelburg e Orwell. (18) Sapeva lui come cambiare a interesse i suoi scudi. Era un brav’uomo che si valeva ottimamente del suo ingegno: nessun s’era mai accorto che avesse debiti, riservato com’era nei suoi affari e nei contratti. Era insomma una persona certamente in gamba, ma, a dir proprio la verità, non so neppure come si chiamasse.
C’era anche uno Studente di Oxford, che da un bel pezzo aveva finito d’almanaccare con la logica. (19) Il suo cavallo era secco come rastrello, e anche lui grasso non era, ve l’assicuro, ma aveva aspetto smunto e austero. Il suo gabbano era tutto logoro perché non usufruiva ancora d’alcun beneficio e non era così mondano da procurarsi un impiego. Preferiva avere a capo del letto venti libri, rilegati in nero o in rosso, su Aristotele e la sua filosofia, invece di ricchi abiti o un violino o un bel salterio. Ma, per quanto fosse filosofo, aveva ben poco oro nello scrigno: (20) tutto quello che poteva ottenere dai suoi amici lo spendeva in libri e per istruirsi, e pregava assiduamente per l’anima di coloro che gli offrivano i mezzi per studiare. Dedicava allo studio la maggior cura e attenzione. Non diceva mai una parola più del necessario, e anche quella in forma corretta e rispettosa, concisa, svelta e piena d’alto significato; i suoi discorsi riguardavano sempre la virtù morale, e con ugual piacere era disposto a imparare e a insegnare.
C’era anche un Commissario di Giustizia, (21) prudente e savio, colmo d’ogni eccellenza, che tante volte era stato al Portico. (22) Persona discreta e di gran conto: almeno così pareva, a giudicare dalle sue sagge parole. Veniva spesso nominato giudice alle assise con lettera patente e pieni poteri. Per via della sua dottrina e del suo gran nome, parcelle e toghe ne aveva molte. Non c’era nessuno che sapesse comprar terre meglio di lui: tutto diventava per lui proprietà svincolata e i suoi contratti erano incontestabili. Non c’era uomo più affaccendato che tuttavia sapesse apparire più affaccendato di quel che fosse. Conosceva accuratamente tutte le leggi e tutti i decreti emessi fin dal tempo di re Guglielmo. (23) E poi sapeva comporre e stilare un atto in modo così perfetto, che nessuno poteva cavillare sul suo scritto; ricordava a memoria qualsiasi statuto. Cavalcava alla buona con un abito brizzolato, cinto da una fascia di seta a piccole strisce: sul suo vestiario non vi dico altro.
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