Ma sarebbe troppo lungo descrivere il gran clamore e i pianti che fecero quelle alla crematura dei cadaveri, e quali onori Teseo, da nobile conquistatore, rese alle dame quando si congedarono da lui. Bisogna ch’io sia breve. Ucciso dunque Creonte e conquistata in questo modo Tebe, il nobile duca, Teseo insomma, riposò tutta la notte ancora al campo, padrone ormai di far quel che voleva del paese intero.

I soldati, intanto, andavano rovistando con diligenza e cura nel mucchio dei cadaveri, per spogliarli, dopo la battaglia e la sconfitta, delle armi e dei vestiti. E così accadde che nel mucchio essi trovassero, coperti da orribili ferite sanguinanti, due giovani cavalieri che giacevano l’uno accanto all’altro, con armature identiche, riccamente lavorate.

L’uno si chiamava Arcita e l’altro Palemone. Erano tra la vita e la morte, ma dalle insegne e dall’equipaggiamento gli araldi li identificarono come appartenenti alla famiglia reale di Tebe, e figli di due sorelle. I soldati allora li estrassero dal mucchio e li trasportarono con precauzione alla tenda di Teseo, il quale invece li mandò subito ad Atene perché fossero rinchiusi per sempre in prigione, senz’alcuna possibilità di riscatto.

Fatto questo, il nobile duca radunò il suo esercito e se ne tornò in patria con la corona d’alloro del conquistatore, a trascorrervi i suoi giorni in felicità ed onore. Che volete di più? Il peggio era per Palemone e per il suo compagno Arcita, i quali, nell’angoscia e nel dolore, erano ormai per sempre rinchiusi in una torre, e non c’era oro che potesse riscattarli.

Così di giorno in giorno passarono gli anni, finché una volta, in un mattino di maggio, Emilia, che a guardarla era più bella del giglio sul suo verde stelo e più fresca di maggio con i suoi fiori novelli (tanto che se la rosa avesse gareggiato in colore con lei, non avrei saputo chi fosse più bella), secondo il solito si alzò e si vestì prima che fosse giorno.

Maggio infatti non lascia poltrire a letto: è la stagione stessa che punge l’animo gentile e lo scuote dal sonno dicendogli: «Alzati e fa’ il tuo dovere!». Per questo appunto Emilia si ricordò d’alzarsi e di far gli onori a maggio. Per darvene un’idea, vi dirò che indossava abiti freschi e che aveva i biondi capelli uniti in una lunga treccia che le scendeva sul dorso. Mentre il sole a poco a poco sorgeva, lei si mise a passeggiare qua e là per il giardino, raccogliendo fiori tutta contenta, un po’ bianchi e un po’ rossi, per farne una sottile ghirlanda per la fronte, e intanto cantava che pareva un angelo del paradiso.

Accanto proprio al muro del giardino dove Emilia stava passeggiando, c’era la gran torre, massiccia e forte, che costituiva la prigione principale del castello (quella dov’erano rinchiusi i cavalieri di cui vi parlavo e vi parlerò ancora). Splendeva il sole e il mattino era sereno. Anche Palemone, povero prigioniero, s’era alzato e, col permesso del carceriere, era salito in una cella dalla quale si vedeva tutta la nobile città ed anche il giardino, pieno di rami verdeggianti, dove la radiosa e fresca Emilia era a passeggio e si spostava qua e là. Quel povero prigioniero di Palemone, camminando avanti e indietro per la cella, non faceva che deplorare la sua disgrazia e lamentarsi d’essere al mondo. Ora il caso o destino volle che attraverso una finestra, chiusa da una massiccia inferriata a fitte sbarre grosse come travi, egli posasse gli occhi proprio sopra Emilia, e subito si trasse indietro mandando un grido come se fosse pugnalato al cuore.

Scosso improvvisamente da quel grido, Arcita disse: «Cugino mio, cos’hai che sei così pallido e smorto? Perché hai gridato? Chi t’ha offeso? Se è a causa della prigione, per amor di Dio, sopporta con pazienza, perché intanto non c’è rimedio. E’ il destino che ci ha mandato questa sventura; dev’essere stato l’influsso maligno di Saturno o di qualche altra costellazione, benché noi avessimo fatto gli scongiuri. Ad ogni modo così ha voluto il cielo fin da quando siamo nati, e a noi tocca solo rassegnarci, ecco tutto».

Palemone invece gli rispose: «Veramente, cugino, questa volta ti sbagli. Non è per la prigione che ho gridato, ma perché proprio ora, trafiggendomi gli occhi, m’è scesa una tale fitta al cuore che mi farà morire. E’ la bellezza di quella donna che vedo laggiù passeggiare avanti e indietro in quel giardino, ecco qual è la causa dei miei lamenti e del mio dolore! Non so neppure se sia una donna o una dea, ma per me quella è Venere in persona».

Così dicendo, cadde in ginocchio ed esclamò: «Venere, se è per tua volontà che appari così in questo giardino, davanti a me, misero essere infelice, aiutaci a fuggire da questa prigione. Se invece è stabilito dall’irrevocabile parola del destino che in prigione dobbiamo morire, abbi almeno compassione della nostra stirpe, trascinata così in basso da un tiranno».

A questo punto anche Arcita si mise a scrutare nel giardino dove la donna continuava a passeggiare avanti e indietro. E appena la vide, rimase anche lui così colpito dalla sua bellezza, che, se Palemone era stato gravemente ferito, ora Arcita lo era altrettanto, se non di più.