E, sospirando penosamente, disse: «Ah, mi sento improvvisamente morire a guardare la fresca bellezza di quella donna che sta laggiù a passeggiare! Se non avrò la pietà e la grazia di poterla almeno vedere, senz’altro sarò spacciato!».
Sentendo queste parole, con aria impermalita Palemone replicò:
«Ma parli sul serio o scherzi?».
«Sul serio, e come!» fece Arcita. «Dio m’aiuti, non ho davvero voglia di scherzare!»
Questa volta, aggrottando tutt’e due le ciglia, Palemone disse: «Non ti farebbe molto onore essere sleale e traditore con me che sono tuo cugino e per te come un fratello, dopo che solennemente ci siamo giurati che neanche a costo di morire sotto tortura, e ad ogni modo finché la morte non ci avesse separati, noi non ci saremmo mai ostacolati in faccende d’amore o altro, fratello mio caro; ma che, anzi, in ogni caso tu mi avresti sinceramente aiutato, come io avrei aiutato te. Questo era il nostro giuramento, non puoi negarlo. Ecco perché mi sono confidato con te. Ed ora tu, mancando alla tua parola, t’incapricci della donna di cui sono e sarò innamorato sempre, finché il mio cuore avrà vita. No, Arcita, non puoi essere così sleale! Io l’ho amata per primo, e ti confesso la mia pena come ad un confidente, ad un fratello che, ti ho già detto, aveva giurato d’aiutarmi. Se veramente sei un cavaliere, devi fare il possibile per aiutarmi, altrimenti posso ben dirlo che sei un traditore».
Arcita, colpito nel suo orgoglio, rispose: «Tu piuttosto sarai un traditore, non io. Anzi, lo sei, e te lo dico apertamente! Io me ne sono innamorato prima. Come puoi parlare tu?
Non sai nemmeno se si tratti d’una donna o d’una dea! La tua è una forma d’infatuazione, mentre il mio è vero amore: ecco, anch’io adesso t’ho detto tutto, a te che sei mio cugino e hai giurato d’essermi fratello. Ma ammettiamo pure che tu l’abbia amata per primo; ebbene, non ti ricordi di quel vecchio saggio che diceva: «Chi può dettar legge all’innamorato»? L’amore, credimi, è la legge più grande che possa mai toccare a un uomo su questa terra, e per amore s’infrangono ogni giorno dappertutto le leggi e i giuramenti più assoluti. Un uomo deve per forza amare, è inutile che si metta a ragionare; non può farne a meno, neanche a costo di rischiare la vita, sia lei vergine, vedova o maritata. Per te poi è impossibile rimaner sempre nelle sue grazie, e lo stesso vale per me, perché sai benissimo che, purtroppo, siamo condannati a vita, e non c’è riscatto che possa liberarci. Siamo come quei due cani che litigavano per un osso: lottarono per un giorno intero senza nessun risultato, finché poi, mentre stavano a ringhiare, calò in mezzo a loro un nibbio e l’osso se lo portò via. Alla corte del re, fratello mio, ognuno pensa per sé. Tu ama per conto tuo, che per conto mio io amo ed amerò sempre. Questo è tutto, caro fratello. Dovendo tutti e due rassegnarci a questa prigione, segua ognuno la sorte che gli tocca».
Grande e lunga fu ancora la discussione fra quei due, ad aver tempo di parlarne, ma passiamo oltre. Per farla corta, un giorno un illustre duca, di nome Piritoo, compagno di Teseo fin da quand’erano bambini, venne ad Atene a trovare l’amico e a svagarsi un po’
con lui com’era solito fare ogni tanto, giacché si volevano tutti e due il più gran bene del mondo. Si volevano tanto bene, che, secondo certi antichi libri, quando uno morì, l’altro andò a cercarlo giù negl’inferi, davvero. Ora, però, non vorrei mettermi qui a descrivere questo episodio. Il fatto è che il duca Piritoo, era anche molto amico di Arcita, che per anni aveva conosciuto a Tebe, e così alla fine, su richiesta e preghiera appunto di Piritoo, senza bisogno d’alcun riscatto, il duca Teseo lo lasciò uscire di prigione, libero di andare dove volesse, ad una condizione, però: che se per caso Arcita fosse mai stato trovato d’ora in poi, sia di giorno che di notte, anche per un solo istante, in qualsiasi territorio di Teseo, una volta catturato, ci avrebbe rimesso la testa.
Questi erano i patti, non c’era altro rimedio o altra via di scampo. Così Arcita se ne partì dirigendosi al più presto verso casa, e di là doveva ormai badar bene di non muoversi se voleva aver salva la vita.
Che dispiacere provava ora Arcita! Si sentiva nel cuore la morte e non faceva che piangere, disperarsi e gridare da far pena, pensando fra sé d’uccidersi. Diceva:
«Maledetto il giorno che sono nato! La mia prigione ora è peggiore di prima. Eccomi ormai per sempre condannato, e non al purgatorio, ma all’inferno.
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