Il lattaio si mette in viaggio

Sul punto di svenire, mi lasciai andare su una poltrona. Questa sensazione durò cinque minuti e fu seguita da un accesso di folle terrore: la visione di quella miserabile faccia bianca e di quegli occhi spalancati m’era insopportabile. Riuscii finalmente a prendere un telo col quale coprii il cadavere, poi, titubante, mi avvicinai alla dispensa, afferrai una bottiglia di cognac e ne bevvi parecchi sorsi. Non era certo la prima volta che vedevo un uomo morire di morte violenta: io stesso ne avevo uccisi parecchi durante la guerra nel Sudafrica; ma questo delitto, compiuto freddamente, a porte chiuse, era una cosa ben diversa. Tuttavia riuscii a calmarmi.

Guardai il mio orologio: erano le dieci e mezzo.

Solo allora mi venne l’idea di esplorare la casa: non c’era nessuno, né riuscii a trovare traccia alcuna del passaggio di qualche persona. Chiusi e sprangai tutte le finestre e misi la catena alla porta.

Mentre macchinalmente facevo tutte queste cose, andavo riacquistando la presenza di spirito e con essa la facoltà di pensare. Ma mi ci volle quasi un’ora per rendermi conto esattamente della situazione: del resto, non c’era bisogno di affrettarsi perché, esclusa la possibilità d’un ritorno offensivo dell’assassino, avevo tempo sino alle sei del mattino per riflettere.

Ormai ero in ballo, evidentemente; bisognava, dunque, ballare. Ogni dubbio sulla veridicità di quanto mi aveva narrato Scudder era ormai scomparso. La prova di questa storia era lì, sotto quel telo. Le persone che sapevano quel ch’egli sapeva lo avevano scoperto e avevano scelto il mezzo migliore per assicurarsi il suo silenzio. Tutto ciò non faceva una grinza. Ma egli aveva abitato quattro giorni in casa mia, e i suoi nemici dovevano supporre che mi avesse confidato tutto. Era, dunque, il mio turno: anch’io avrei dovuto passare dove egli era passato. Forse quella stessa notte, o domani, o dopodomani; a ogni modo la mia sorte era decisa.

E d’improvviso mi resi conto di un’altra probabilità. Io sarei potuto John Buchan

13

1993 - I Trentanove Scalini

andare subito all’ufficio di polizia, o lasciare questa incombenza a Paddock che avrebbe certo scoperto il corpo al mattino dopo; ma in entrambi i casi che cosa avrei potuto raccontare nei riguardi di Scudder? Avevo già indotto in errore Paddock presentandogli il mio ospite sotto falso nome, e sentivo che tutta la faccenda sarebbe apparsa singolarmente oscura. Se poi, scegliendo di dire la verità, avessi raccontato alla polizia quello che avevo appreso da Scudder, ero certo che tutti si sarebbero fatti beffe di me.

Avevo mille probabilità contro una di vedermi accusato d’assassinio, e le prove materiali erano sufficienti per farmi condannare a morte. Poche persone in Inghilterra mi conoscevano; non potevo contare su un solo vero amico disposto a deporre in mio favore. Forse i nemici segreti di Scudder avevano calcolato anche questo. Erano capaci di tutto, e una prigione inglese era un mezzo come un altro per sbarazzarsi di me fin dopo il 15

giugno; un mezzo che valeva almeno quanto una coltellata nel petto.

E ammesso anche, nel migliore dei casi, che la storia di Scudder fosse creduta, raccontandola io avrei fatto il gioco degli assassini. Carolidè sarebbe rimasto a casa sua, ed era quello che essi desideravano. Scartai tutto ciò: la sola visione del volto di Scudder morto mi aveva ispirato una fede definitiva nel suo disegno. Egli non viveva più, ma da vivo, aveva riposto la sua fiducia in me, così che io non avevo altra via che quella di proseguire nel suo compito.

Qualcuno giudicherà fuori posto questo scrupolo, specie in un uomo in pericolo di vita, ma questo era il mio modo di vedere.