La Scozia mi parve fare al caso mio, poiché, essendo la mia famiglia scozzese, mi sarebbe stato facile passare ovunque per uno scozzese qualsiasi. Dapprima pensai di farmi credere un turista tedesco: la cosa mi sarebbe stata agevole perché mio padre, che aveva avuto alcuni soci tedeschi, mi aveva insegnato a parlare correntemente la lingua, nell’esercizio della quale mi ero anche perfezionato grazie ai miei tre anni di commercio in ottone nel Damacaland germanico. Ma mi convinsi che mi sarei fatto meno notare come scozzese e che questo avrebbe reso più difficile alla polizia identificarmi. Quanto alla regione, scelsi il Galloway.

Era la parte selvaggia della Scozia più vicina, per quanto m’era dato giudicarne, e, secondo la carta, la popolazione non doveva certo abbondarvi.

Da un esame dell’orario appresi che un treno partiva dalla stazione San Pancrazio alle 7,10 del mattino, il che mi avrebbe permesso di scendere in un posto qualsiasi del Galloway verso sera. La combinazione mi soddisfaceva; ma si trattava, ora, di sapere come avrei potuto arrivare a San Pancrazio, poiché ero certissimo che i nemici di Scudder sorvegliavano la casa. Questo problema mi tenne sopra pensiero un momento; poi mi venne un’ispirazione, in seguito alla quale me ne andai a letto per dormire due ore di un pessimo sonno.

Mi alzai alle quattro e aprii le persiane della mia camera da letto. La limpida luce d’un bel mattino d’estate invadeva il cielo e i passeri già pigolavano. Per un attimo mi sentii indotto a lasciar andare le cose per la loro china, con la speranza che la polizia inglese sapesse vedere la faccenda sotto una luce ragionevole. Ma, ricapitolando gli avvenimenti, non trovai più alcun argomento per combattere la mia decisione della notte, per cui decisi, con la bocca arida, di mettere in esecuzione il mio piano.

Scovai un abito lucido e stinto, un paio di solide scarpe chiodate e una camicia di flanella, col collo rovesciato. Ficcai nelle tasche del vestito una camicia di ricambio, un berretto di stoffa, qualche fazzoletto e uno John Buchan

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1993 - I Trentanove Scalini

spazzolino da denti. Due giorni prima avevo ritirato dalla banca una discreta somma in oro, nel caso che Scudder avesse avuto bisogno di denaro; presi da questa somma cinquanta sterline in sovrane che misi in una cintura portata dalla Rodesia. Ero certo che non avrei avuto bisogno di più. Poi feci il bagno e mi tagliai all’americana i baffi, che usavo portar lunghi e cadenti.

Di solito Paddock arrivava puntualmente alle sette e mezzo e apriva egli stesso la porta di cui aveva le chiavi. Misi una pipa in saccoccia e mi disposi a rifornire la mia borsa di tabacco prendendone da un vaso in cui ero solito conservarlo e che si trovava sul tavolo presso il camino. Ed ecco che, manipolando il tabacco, la mia mano incontrò un corpo duro. Era il piccolo taccuino di Scudder. La cosa mi parve di buon augurio. Sollevai il telo che copriva il cadavere e mi meravigliai di vedere tanta pace e tanta dignità su quel viso cereo.

— Addio, vecchio camerata — gli dissi — mi accingo a fare tutto quello che è possibile per accontentarti. Augurami buona fortuna dovunque io vada.

Poi, nell’anticamera, mi misi ad attendere il lattaio. Passarono le sei e mezzo; poi le sei e quaranta. Ma il lattaio non arrivava. Tra tutti i giorni, quell’imbecille aveva scelto questo per essere in ritardo.

Finalmente, quando le sei e quarantacinque erano passate da un minuto, udii sulle scale il rumore dei bidoni; aprii la porta del pianerottolo: l’uomo era lì: fischiettava mentre sceglieva il mio bidone tra quelli che portava.