I VIAGGI DI GULLIVER

I VIAGGI DI GULLIVER di Jonathan Swift.

INDICE.

L’editore al lettore: pagina 4.

PARTE PRIMA - VIAGGIO A LILLIPUT.

Capitolo 1: pagina 7.

Capitolo 2: pagina 23.

Capitolo 3: pagina 38.

Capitolo 4: pagina 50.

Capitolo 5: pagina 58.

Capitolo 6: pagina 68.

Capitolo 7: pagina 83.

Capitolo 8: pagina 96.

 

PARTE SECONDA - VIAGGIO A BROBDINGNAG.

Capitolo 1: pagina 106.

Capitolo 2: pagina 124.

Capitolo 3: pagina 133.

Capitolo 4: pagina 148.

Capitolo 5: pagina 155.

Capitolo 6: pagina 169.

Capitolo 7: pagina 182.

Capitolo 8: pagina 192.

PARTE TERZA - VIAGGIO A LAPUTA, BALNIBARBI, LAGNAGG, GLUBBDUBDRIB E

GIAPPONE.

Capitolo 1:  pagina 209.

Capitolo 2:  pagina 217.

Capitolo 3:  pagina 229.

Capitolo 4:  pagina 237.

Capitolo 5:  pagina 246.

Capitolo 6:  pagina 257.

Capitolo 7:  pagina 266.

Capitolo 8:  pagina 272.

Capitolo 9:  pagina 281.

Capitolo 10: pagina 286.

Capitolo 11: pagina 298.

 

PARTE QUARTA - VIAGGIO NEL PAESE DEGLI HOUYHNHNM.

Capitolo 1:  pagina 303.

Capitolo 2:  pagina 313.

Capitolo 3:  pagina 322.

Capitolo 4:  pagina 331.

Capitolo 5:  pagina 339.

Capitolo 6:  pagina 349.

Capitolo 7:  pagina 359.

Capitolo 8:  pagina 370.

Capitolo 9:  pagina 379.

Capitolo 10: pagina 387.

Capitolo 11: pagina 398.

Capitolo 12: pagina 410.

 

L’EDITORE AL LETTORE.

Il signor Lemuel Gulliver,  autore di questi viaggi,  è un  mio  caro, vecchio amico e parente alla lontana da parte di madre. Tre anni fa il signor  Gulliver,  ormai  stanco delle continue visite di curiosi alla sua casa di Redriff,  comprò un piccolo appezzamento di terra con  una comoda  dimora  nei pressi di Newark,  nel Nottinghamshire,  sua terra natale,  dove si è ritirato a vita privata,  fra la considerazione dei vicini.

Sebbene  il signor Gulliver sia nato nel Nottinghamshire,  dove viveva suo padre,  l’ho più volte sentito ripetere che la  sua  famiglia  era originaria  della  contea di Oxford,  tanto è vero che ci sono diverse tombe ed epitaffi nel cimitero  di  Banbury,  in  quella  contea,  che portano inciso il nome dei Gulliver.

Prima  di  lasciare  Redriff,  mi  ha  affidato questi fogli,  dandomi libertà di disporne come meglio credessi.  Li ho letti con  attenzione tre  volte e devo dire che rivelano uno stile chiaro e scorrevole;  se l’autore ha un difetto,  è  quello  di  perdersi  un  po’  troppo  nei particolari,  come succede ai viaggiatori.  Eppure la verità soffia su ogni pagina ed infatti l’autore stesso era talmente noto come  persona veritiera, che era diventato proverbiale fra i suoi vicini di Redriff, i quali, per suffragare una loro affermazione, erano soliti aggiungere che era vera come se l’avesse detta Gulliver.  Su  consiglio  di  stimate  persone,   alle  quali  ho  sottoposto  il manoscritto con il permesso dell’autore, mi appresto a farlo circolare fra la gente nella speranza che possa costituire,  almeno per un certo periodo,  un’attrattiva per i nostri giovani nobiluomini, più proficua che non i soliti libelli politici e di partito.  Il libro avrebbe dovuto essere due volte più voluminoso di quello  che è. Infatti ho avuto il coraggio di togliere parecchi brani riguardanti i venti e le maree,  le varie rotte e le deviazioni,  il governo della nave in balìa della tempesta (scritto in gergo marinaresco), nonché le annotazioni sulle latitudini e  sulle  longitudini.  Forse  il  signor Gulliver  me ne vorrà un po’,  ma ho voluto rendere il libro adatto ai gusti di ogni lettore.  Se,  in ogni caso,  la mia  suprema  ignoranza nell’arte  nautica  mi ha fatto commettere degli errori,  me ne assumo tutta la colpa. Se poi qualche viaggiatore, spinto da curiosità, vorrà consultare il  manoscritto  originale,  così  come  mi  fu  consegnato dall’autore, sarò felice di metterglielo a disposizione.  Per  quanto riguarda i particolari della vita dell’autore,  il lettore avrà modo di conoscerli nella prima parte del libro.  Richard Sympsor.

 

PARTE PRIMA.

VIAGGIO A LILLIPUT.

 

1 -L’AUTORE FORNISCE ALCUNE NOTIZIE Dl  SE’  E  DELLA  SUA  FAMIGLIA.

PRIME NECESSITA’ CHE LO SPINGONO A VIAGGIARE. FA NAUFRAGIO E NUOTA PER SALVARSI.  APPRODA SANO E SALVO NEL PAESE Dl LILLIPUT, VIENE CATTURATO E PORTATO ALL’INTERNO.

Mio padre aveva una piccola tenuta nel Nottinghamshire ed  io  ero  il terzo  di  cinque  figli.  All’età  di  quattordici anni mi mandò allo Emanuel College di Cambridge dove passai  tre  anni  dedicandomi  agli studi  senza  distrazione,  ma  poiché  il  peso del mio mantenimento, malgrado l’esiguità dei soldi che mi mandava, si faceva troppo oneroso per i suoi scarsi mezzi,  mi mise come  apprendista  da  James  Bates, rinomato chirurgo di Londra, col quale restai quattro anni. Le piccole somme  che  mio  padre  mi  mandava  di tanto in tanto le impiegai per imparare l’arte della navigazione  ed  altri  rami  della  matematica, utili  per coloro che intendono navigare,  poiché ritenevo che proprio questo sarebbe stato, prima o poi,  il mi destino.  Lasciato il signor Bates,  tornai  da  mio padre e qui,  col suo aiuto,  quello dello zio Giovanni  e  di  altri  parenti,   raggranellai  quaranta  sterline  e l’impegno  di  altre  trenta all’anno per mantenermi a Leida.  Per due anni e sette mesi vi  studiai  medicina,  conoscendone  l’utilità  nei lunghi viaggi.

Subito dopo essere tornato da Leida, il mio buon maestro Bates mi fece ottenere il posto di chirurgo sulla “Rondine”,  comandata dal capitano Abramo Pannell, con il quale rimasi tre anni e mezzo facendo uno o due viaggi nel levante e in altri  paesi.  Al  mio  ritorno,  incoraggiato anche dal maestro Bates, decisi di stabilirmi a Londra e lui stesso mi mandò diversi pazienti.  Alloggiai in una casetta nell’Old Jury;  poi, dal momento che mi consigliarono di cambiare tenore di vita,  presi in moglie Maria Burton,  seconda figlia di Edmondo Burton,  calzettaio in via Newgate, che portò con sé quattrocento sterline di dote.  Ma gli affari cominciarono a andare male con la morte del buon maestro Bates,  avvenuta due anni dopo;  inoltre avevo pochi amici  e  non  mi reggeva  il  cuore di seguire l’esempio dei metodi disonesti di troppi fra i miei colleghi.  Per cui,  consigliatomi con mia moglie ed alcuni amici,  decisi di riprendere la via del mare. Fui chirurgo, l’una dopo l’altra,  in due navi e per sei anni feci parecchi viaggi nelle  Indie Orientali  e  Occidentali,  grazie  ai quali incrementai un po’ le mie sostanze.  Impiegavo il tempo libero leggendo i  classici,  antichi  e moderni,  dei  quali mi portavo sempre dietro un buon numero di opere; quando ero a terra osservavo i costumi e la natura della  gente  e  ne studiavo le lingue, nelle quali ero particolarmente versato, grazie ad una memoria di ferro.

Dopo  l’ultimo di questi viaggi,  che si era rivelato poco redditizio, mi venne la nausea del mare;  e poi cresceva in  me  il  desiderio  di starmene  a casa con mia moglie e la mia famigliola.  Traslocai dunque dall’Old Jury a Fetter Lane e di qui  a  Wapping,  nella  speranza  di trovare  lavoro  fra  i  marinai,  senza  per  altro  ottenerne  alcun guadagno.  Dopo avere atteso per tre anni che le  cose  volgessero  al meglio,   accettai  la  vantaggiosa  offerta  del  capitano  Guglielmo Prichard,  comandante dell’”Antilope”,  in procinto di partire  per  i mari  del  sud.  Salpammo  da  Bristol  il  4 maggio 1699 e il viaggio all’iniio si svolse favorevolmente.

Vi sono buone ragioni per  non  stare  a  seccare  il  lettore  con  i particolari  delle  nostre avventure in quei mari;  basterà informarlo che,  al momento di andare da quei posti  alle  Indie  Orientali,  una violenta tempesta ci trasportò a nord-ovest della terra di Van Diemen.  Secondo le misurazioni ci trovavamo a 30 gradi e 2 primi di latitudine sud.  Dodici  membri della ciurma se n’erano andati al creatore per le fatiche sovrumane e il rancio avariato,  il resto versava  in  pessime condizioni.  Il 5 novembre,  che da quelle parti coincide con l’inizio dell’estate,  in una giornata  di  foschia,  i  marinai  scorsero  uno scoglio  a  non  più  di  mezza  gomena  dalla  nave verso il quale ci sospingeva inesorabilmente il vento: ci spaccammo in due tronconi.  In sei  della ciurma calammo in mare una scialuppa e ci mettemmo a vogare per allontanarci dalla nave e dallo scoglio. Secondo i calcoli remammo per circa tre leghe fino ad esaurire quelle poche forze che  ci  erano rimaste,  dopo  il  massacrante governo della nave.  Ci affidammo alla mercé delle onde,  ma in  capo  a  mezzora  un’improvvisa  raffica  di settentrione  rovesciò  la  scialuppa.  Non  so  cosa  capitò  ai miei compagni della barca,  né a quelli che avevano  cercato  scampo  sullo scoglio,    infine agli altri che erano rimasti sulla nave.  L’unica deduzione che posso trarre è che siano tutti morti.  Quanto a me,  nuotai affidandomi alla fortuna,  mentre il vento  e  la corrente  mi  spingevano  avanti.  Di tanto in tanto lasciavo scendere verso il fondo le gambe,  senza riuscire a toccare.  Quando ero  ormai sfinito  e incapace di lottare sentii che toccavo,  mentre la burrasca si era un po’ placata. Il pendio del fondale era così dolce, che mi ci volle un miglio di cammino prima di raggiungere la riva e calcolai che a quell’ora dovevano essere le otto di sera.  Mi addentrai  per  circa mezzo  miglio  senza  riuscire a scoprire il minimo segno di case e di abitanti o almeno ero così stremato, da non riuscire a scorgerli.  Ero terribilmente  stanco,  inoltre  il  caldo  e  quasi  mezza  pinta  di acquavite tracannata prima di  lasciare  la  nave,  mi  avevano  messo addosso un gran sonno. Mi distesi sull’erba bassa e tenera dove dormii così  profondamente,  come  mai mi era capitato,  per nove ore filate, perché quando mi svegliai era giorno pieno.  Cercai di alzarmi,  ma non riuscii a muovermi  poiché,  addormentatomi supino,  mi  sentii  le braccia e le gambe legate da entrambe le parti alla terra e così i capelli che avevo  lunghi  e  folti.  Sentivo  che molti  legacci  sottili  mi attraversavano il corpo dalle ascelle alle cosce.  Riuscivo solo a guardare in  alto,  mentre  il  sole  cresceva abbagliandomi  gli  occhi.  Sentivo  un rumore confuso ai fianchi,  ma nella posizione in cui ero disteso non vedevo altro che il  cielo.  Di lì  a  poco  sentii  che  qualcosa di vivo si muoveva sulla mia gamba, saliva pian piano sul petto fino ad arrivarmi al mento.  Guardando  in basso  come meglio potevo,  mi accorsi che si trattava di una creatura umana,  alta non più di quindici centimetri,  con arco,  frecce  e  la faretra sulla schiena. Intanto sentivo che almeno una quarantina della stessa  specie  venivano  dietro  alla  prima.  Stupefatto al massimo, gridai tanto forte che quelli se la squagliarono in preda  al  terrore ed alcuni,  come poi mi fu detto, rimasero feriti saltando a terra dal mio corpo. Non tardarono a farsi sotto di nuovo e uno di loro,  che si era arrischiato a venirmi tanto vicino da potere scorgere tutto il mio volto,   alzando  gli  occhi  e  le  braccia  al  cielo  in  segno  di ammirazione, gridò con voce stridula ma distinta: “Hekinah Degul!” Gli altri ripeterono quelle parole  parecchie  volte,  ma  allora  non sapevo  che  cosa  volessero dire.  Per tutto quel tempo rimasi in una posizione assai scomoda,  come il lettore può immaginare.  Alla  fine, divincolandomi per liberarmi, riuscii a rompere i legacci e a svellere i  pioli che mi tenevano il braccio sinistro legato a terra.  Infatti, sollevandolo all’altezza del viso,  scoprii il modo con cui mi avevano legato  e  così,  con  un violento strattone che mi fece un gran male, allentai  le  cordicelle  che  mi  tenevano  la  testa  piegata  sulla sinistra.  Ora  potevo  girare  un tantino la testa.  Ma quegli esseri fuggirono di nuovo prima che potessi afferrarli;  al che ci fu un gran vociare  in  tono  acutissimo  e,  appena cessato,  sentii uno di loro gridare forte: “Tolgo Phonac!”. Un momento dopo sentii un centinaio di frecce che mi piovevano  sulla  mano  sinistra,  pungenti  come  aghi, mentre quelli ne lanciavano in aria un altro nugolo, come noi facciamo in  Europa  con  i mortai;  per cui penso che molte mi ricadessero sul corpo,  sebbene non le  avvertissi,  ed  altre  sulla  faccia  che  mi affrettai  a  coprire  con  la  sinistra.  Esaurito questo scroscio di frecce,  emisi  un  gemito  di  dolore  e  poiché  tentavo  ancora  di liberarmi,   ne   scaricarono   un’altra  bordata  più  nutrita  della precedente, mentre alcuni di loro cercavano di infilzarmi nei fianchi.  Avevo addosso,  per fortuna,  un  giubbetto  di  cuoio  che  loro  non potevano forare.

Pensai  che  fosse  più  prudente  starmene  fermo almeno fino a notte fonda,  quando con la mano sinistra già sciolta avrei potuto liberarmi completamente.  In quanto agli indigeni,  avevo ragione di credere che avrei potuto sostenere i più grandi eserciti che mi avrebbero  mandato contro,  se erano tutti delle dimensioni di quello che avevo visto. Ma le cose si sarebbero svolte in modo diverso.  Quando quella gente vide che  me  ne  stavo  fermo,  smisero di lanciare frecce.  Dal crescente rumore capivo che la folla aumentava;  inoltre a circa tre  metri  dal mio orecchio sentii battere per oltre un’ora, come se stessero facendo qualche lavoro; girando la testa da quella parte, per quel poco che mi era  concesso  da  corde e pioli,  vidi che avevano innalzato un palco alto un mezzo metro da terra,  capace di ospitare  quattro  di  quelle persone,  con due o tre scale per salirci sopra. Da lì uno di costoro, che sembrava un personaggio importante,  mi rivolse un lungo  discorso del quale non capii un’acca.  Ma avrei dovuto ricordare che,  prima di cominciare il suo discorso,  quel dignitario  aveva  gridato  per  tre volte: “Langro dehul san” (parole, queste, che insieme alle precedenti mi  furono poi ripetute e spiegate).  Al che si erano fatte avanti una cinquantina di persone per tagliare  le  cordicelle  che  mi  tenevano legata  la testa dal lato sinistro.  Potei allora girarmi a destra per osservare l’aspetto e i gesti dell’oratore.  Sembrava di mezza  età  e più  alto  dei  tre accompagnatori dei quali uno era un paggio che gli reggeva lo strascico,  alto non più del mio  dito  medio,  mentre  gli altri  gli  stavano  ai fianchi per sostenerlo.  Conosceva bene l’arte dell’oratoria,  infatti non mi sfuggirono retorici appelli di minacce, uniti ad altri di promesse, pietà e benevolenza.  Risposi con brevi parole e in tono di sottomissione, alzando gli occhi e la mano sinistra al cielo, come per invocarlo a mio testimonio; poi, affamato come ero per non avere mandato giù un boccone da quando avevo abbandonato la nave, spinto dai morsi sempre più laceranti della fame, persi  la  pazienza  e (contro ogni regola di buona creanza) mi portai più volte la mano alla bocca per dimostrare che avevo bisogno di cibo.  Lo “hurgo” (così chiamano  un  gran  personaggio,  come  poi  venni  a sapere) mi capì a volo, scese dal palco e comandò che mi appoggiassero le scale ai lati del corpo. Più di un centinaio di persone salirono su trascinando  fino alla mia bocca panieri colmi di cibo,  raccolto e là inviato appena il re aveva avuto notizia della mia esistenza.  C’erano carni  di  diversi  tipi  di  animali,  che  tuttavia  non  riuscii  a riconoscere dal gusto.  C’erano spallette,  cosci  e  lombi  simili  a quelli di montone,  ben cucinati ma più piccoli delle ali di allodola.  Ne mangiai due o tre alla volta con altrettante pagnotte,  grandi come pallini  da  sparo.  Mi  avvicinavano il cibo più svelti che potevano, mostrando in mille modi la loro meraviglia e lo stupore  dinanzi  alla mia  mole  smisurata  e all’appetito che dimostravo.  Allora feci loro intendere che avevo sete.  Si rendevano conto  che,  da  quanto  avevo mangiato,  non mi sarebbe stata sufficiente una piccola quantità;  per cui,  da quel popolo  ingegnoso  che  erano,  imbracarono  con  grande abilità  una  delle  botti più grosse che avevano,  la fecero rotolare verso la mia mano e ne tolsero il coperchio. La vuotai con una sorsata perché conteneva una mezza pinta scarsa di un  vinello  sul  tipo  del Borgogna,  ma  anche  più  delizioso.  Me ne portarono una seconda che trangugiai come la prima, poi feci segno che ne volevo ancora, ma loro avevano finito le scorte.

Compiuti che ebbi questi prodigi,  loro si misero a gridare di gioia e a ballarmi sul petto,  ripetendo più volte,  come avevano fatto prima:

“Hekinah Degul!”.  Mi fecero capire a segni che potevo buttare giù  le botti,  ma  prima  avvertirono  la gente di fare largo gridando a gran voce: “Borach Mivola!”. E quando le videro volare in aria, scoppiarono in un generale “Hekinah Degul!”.  Confesso che più  di  una  volta  mi venne  la  tentazione  di afferrarne una quarantina o una cinquantina, quando,  nel loro andirivieni sul mio corpo,  mi venivano a portata di mano,  e  di scaraventarli giù a terra.  Ma il ricordo di quanto avevo

provato, che con ogni probabilità non era il peggio di quanto potevano farmi,   nonché  la  parola  d’onore  in   cui   mi   ero   impegnato, sottomettendomi  loro  palesemente,  cacciarono  quelle  fantasie.  Né potevo dimenticare che ora mi  trovavo  legato  a  quel  popolo  dalle

consuetudini   dell’ospitalità,   trattato  com’ero  stato  con  tanta larghezza  e  dovizia  di  mezzi.   Comunque   non   finivo   mai   di meravigliarmi, in cuor mio, del coraggio di quei minuscoli mortali che avevano  osato salire sul mio corpo e camminarci sopra,  pur essendo a portata della mano che  avevo  libera,  senza  dar  segno  del  minimo spavento alla vista di un essere mostruoso quale dovevo apparire loro.  Dopo  qualche  tempo,  visto  che non richiedevo altro cibo,  mi venne davanti un personaggio di alto rango inviato da Sua Maestà  Imperiale.  Salitomi sullo stinco destro, Sua Eccellenza camminò fino al mio volto con un seguito di dodici persone poi,  presentatemi le credenziali con sigillo reale,  che mi ficcò sotto gli occhi,  parlò per una decina di minuti  senza  il  minimo accento d’ira,  ma con fermezza,  accennando spesso in una direzione,  che poi capii essere quella della  capitale.  Essa  distava  un  mezzo miglio e dovevo esservi portato per decisione unanime del re  e  del  suo  Consiglio.  Risposi  poche  parole  senza risultato e feci un segno con la mano libera,  portandomela sull’altra legata ma passando sopra Sua Eccellenza  e  il  suo  seguito  per  non travolgerli, e quindi indicando sia la testa che il corpo, cercando di far  capire  che  volevo  essere liberato.  Lui sembrò capirmi al volo perché scosse la testa in segno di diniego e allungò le mani  in  modo tale   da   farmi   capire  che  dovevo  essere  trasportato  come  un prigioniero.  Volle però farmi capire con altri segni che avrei  avuto altro  cibo e altre bevande e un ottimo trattamento.  Al che pensai di rompere di nuovo  i  legacci,  ma  quando  mi  toccò  riassaggiare  il bruciore delle loro frecce sul volto e sulle mani che si erano coperti di  vesciche,  con  ancora  molti dardi che di lì penzolavano,  avendo notato che nel frattempo il numero dei nemici era cresciuto, feci loro capire,  a furia di gesti,  che avrebbero potuto fare di me quello che volevano.

Allora lo “hurgo” e il suo seguito si allontanarono con grande dignità ed  aria  soddisfatta.  Poco dopo sentii un grido generale e le parole “Peplom Selan” che venivano ripetute in continuazione mentre avvertivo che un gran numero di persone  stava  allentando  le  corde  dal  lato sinistro  del  mio  corpo.  Mi  fu così possibile rigirarmi sul fianco destro per fare acqua in grande quantità fra lo stupore della folla la quale, intuito dai miei movimenti quel che stavo per fare,  si aprì in due  facendo un bel largo per evitare il torrente che cadeva con tanto fragore e irruenza.  Poco prima mi avevano spalmato il volto e le mani di unguento odoroso che, in un batter d’occhio, mi aveva fatto sparire il bruciore causato dalle freccie. Se si aggiunge a questo calmante il ristoro   che   avevo  avuto  dal  cibo  e  dalle  bevande,   entrambi nutrientissimi,  si capirà come  mi  sentissi  predisposto  al  sonno.  Dormii,   come  poi  mi  dissero,   otto  ore  filate  e  non  c’è  da meravigliarsene,  perché i medici del re  avevano  allungato  il  vino delle botti con una buona dose di sonnifero.  Sembrava  che,  fin  dal  momento  in cui mi avevano visto dormire per terra dopo l’approdo,  il  re  fosse  stato  avvertito  da  un  veloce corriere  e che avesse stabilito in consiglio di farmi legare nel modo che ho già descritto (ordine che  venne  eseguito  durante  la  notte, mentre  ero  sprofondato  nel sonno),  di inviare una gran quantità di vettovaglie e di preparare una macchina  da  traino  per  trasportarmi nella capitale.

Questa  decisione potrà forse sembrare temeraria e non priva di rischi e spero che nessun principe europeo vorrà, presentandoglisi una simile occasione,  seguirne l’esempio;  tuttavia la ritenni  molto  saggia  e generosa.  Se infatti questa gente,  profittando del mio sonno, avesse tentato di farmi fuori con i loro dardi e i loro giavellotti, mi sarei svegliato alla prima sensazione di bruciore.  Allora avrei spezzato le corde che mi legavano,  spinto da una rabbia e una forza incontenibili e loro,  non essendo in grado di oppormi una  valida  resistenza,  non avrebbero potuto aspettarsi alcuna pietà.  Questo  popolo  eccelle  nella  matematica  e  ha raggiunto la massima perfezione nelle arti meccaniche,  con il favore  e  l’incoraggiamento dell’imperatore, noto mecenate della cultura. Questo principe possiede molte  macchine montate su ruote per il trasporto di alberi e di altra roba molto pesante. Spesso fa costruire le navi da guerra, che possono raggiungere la lunghezza di quasi due metri,  in mezzo ai boschi  dove crescono gli alberi più grossi,  e le fa quindi trasportare con queste macchine per tre o quattrocento metri  fino  al  mare.  Furono  dunque ingaggiati  cinquecento  fra carpentieri ed ingegneri per allestire il più grande traino che avessero mai  costruito:  un’armatura  di  legno alta  dal suolo otto centimetri,  lunga due metri e larga uno e venti, che scorreva su ventidue ruote.  Il grido che avevo  sentito  salutava l’arrivo  di  questa macchina,  che sembra fosse stata costruita nelle quattro ore che seguirono al mio approdo.  Me la sistemarono di fianco per  tutta la mia lunghezza,  ma la difficoltà maggiore consisteva nel sollevarmi e depormi sopra il veicolo.  Allora gli operai  innalzarono ottanta pertiche di trenta centimetri, quindi si dettero ad imbracarmi il  collo,  le mani,  il corpo e le gambe con delle fasce che venivano sollevate da  corde,  grosse  come  spaghi,  che  avevano  altrettanti arpioni ad ogni capo. Novecento fra gli uomini più robusti, scelti per quello  scopo,  tiravano le corde con l’aiuto di carrucole legate alla sommità delle pertiche. Fu così che in meno di tre ore fui sollevato e sospeso su quella macchina alla quale mi  legarono  saldamente.  Tutto questo  mi  fu  raccontato  perché,  mentre  veniva  eseguita l’intera manovra,  dormivo saporitamente sotto l’effetto di quella pozione  che avevano mescolato al vino.  Ci vollero millecinquecento cavalli,  alti dieci centimetri o quasi, per trasportarmi alla capitale che,  come ho già detto, era lontana un mezzo miglio.

Eravamo in cammino da quattro ore, quando mi svegliai per un incidente veramente  ridicolo.  Il  veicolo  si  era  fermato  per  non so quale intoppo,  quando due o  tre  giovinastri,  presi  dalla  curiosità  di osservarmi  durante  il sonno,  saltarono sul mio corpo avanzando pian pianino fino al viso.  Qui uno di loro,  un ufficiale  delle  guardie, ficcatami la punta aguzza della sua alabarda dentro la narice sinistra mi  fece  il  solletico come se fosse una pagliuzza,  costringendomi a starnutire fragorosamente.  Loro se la svignarono senza essere  visti, ed  io  seppi  solo tre settimane dopo quale era stata la causa che mi aveva svegliato di soprassalto. Per il resto del giorno continuammo la marcia,  mentre ci  fermammo  di  notte.  Avevo  ai  lati  cinquecento soldati, alcuni con torce e altri con archi e frecce, pronti a tirarmi addosso se avessi tentato di muovermi.

All’alba  del  giorno  dopo riprendemmo il cammino e verso mezzogiorno arrivammo  a  meno  di  duecento  metri  dalle  porte   della   città.  L’imperatore e la corte ci vennero incontro,  tuttavia i dignitari non permisero che Sua Maestà mettesse a repentaglio la vita salendomi  sul corpo.

Nel luogo in cui ci fermammo c’era un antico tempio considerato il più grande di tutto il reame. Profanato anni prima da un delitto orribile, la gente lo considerava,  nel suo zelo religioso,  sconsacrato e aveva finito per destinarlo ad uso comune, dopo avere portato via gli arredi e gli oggetti dl culto.  Fu deciso  che  avrei  alloggiato  in  questo edificio.  L’immenso portale che dava a nord,  alto un metro e venti e largo più di mezzo,  mi permetteva di infilarmi dentro facilmente.  Ai lati  del  portale  c’erano  due  finestrine,  a  non  più di quindici centimetri da terra,  e dentro quella di  sinistra  i  fabbri  del  re gettarono  novantun catene,  simili a quelle che pendono dagli orologi delle signore in Europa e altrettanto  grosse;  esse  vennero  fissate alla mia gamba sinistra con trentasei chiavistelli. Davanti al tempio, a  circa sei metri dall’altro lato della strada,  c’era una torre alta un metro e mezzo.  Mi dissero che lì era salito il re con i principali dignitari  di  corte per vedermi,  ma io non riuscivo a scorgerli.  Si calcola che non meno di centomila persone fossero uscite  dalla  città con  lo  stesso  scopo  e che,  a dispetto delle guardie,  non meno di diecimila alla volta mi salissero sopra con l’aiuto di  scale.  Ma  fu emesso un proclama che lo proibiva,  pena la morte.  Quando gli operai furono sicuri che non avrei spezzato le catene,  tagliarono  le  corde che  mi  legavano  ed  io mi alzai in piedi con un animo così depresso come non avevo mai avuto in vita mia.  Non si può esprimere il clamore e  lo stupore della gente quando mi vide in piedi e poi camminare.  Le catene che mi trattenevano la gamba sinistra erano lunghe un due metri e mi consentivano non  solo  di  camminare  avanti  e  indietro  e  in semicerchio, ma, fissate come erano a un dieci centimetri dalla porta, mi  permettevano di sgusciare dentro al tempio e distendermi per tutta la mia lunghezza.

 

 

2 -L’IMPERATORE DI LILLIPUT CON IL SEGUITO VA A VISITARE L’AUTORE NEL SUO  CONFINO.  DESCRIZIONE  DELL’IMPERATORE  E  DEL  SUO  VESTITO.  SI DESIGNANO DEI SAGGI PERCHE’ INSEGNINO ALL’AUTORE LA LINGUA.  QUESTI SI GUADAGNA LA SIMPATIA CON IL SUO MITE TEMPERAMENTO. GLI VENGONO FRUGATE LE TASCHE E SEQUESTRATE  LA SPADA E LE PISTOLE.

 

Quando fui in piedi mi guardai intorno e devo dire di  non  avere  mai visto  un panorama tanto ameno.  Tutto in giro la campagna sembrava un giardino senza limiti in cui i campi recintati,  dell’ampiezza di  una dozzina  di  metri,  parevano  essere altrettante aiuole di fiori.  Ai campi si alternavano boschi alti una mezza pertica i  cui  alberi  più maestosi, a mio giudizio, non superavano i due metri. Ed ecco apparire a  sinistra  la  città  che  sembrava  una di quelle scene dipinte sui sipari teatrali.

Da diverse ore sentivo sempre più impellente la necessità di liberarmi e non c’era da meravigliarsene perché non lo facevo da due giorni.  Mi trovavo  dunque alle strette fra il bisogno e la vergogna.  La miglior cosa da fare fu quella di scivolare dentro casa e, dopo essermi chiusa la porta alle spalle,  di inoltrarmi  per  tutta  la  lunghezza  della catena e sgomberare il ventre di quel peso molesto.  Questa fu l’unica volta in cui mi macchiai di  un’azione  tanto  poco  pulita  e  voglio sperare che il lettore imparziale mi considererà con indulgenza,  dopo avere soppesato con giudizio non avventato ed equanime,  la situazione e le angustie in cui mi trovavo.  In seguito fu mia costante abitudine di sbrigare tali faccende appena sveglio e  all’aria  aperta,  lontano quanto  me  lo permetteva la catena.  Inoltre tutte le mattine,  prima dell’arrivo della gente,  avevo preso la precauzione di  fare  portare via  quella  materia spiacevole da due servi adibiti a tale servizio e muniti di carriole.  Non mi sarei  tanto  a  lungo  soffermato  su  un dettaglio che, a prima vista, può apparire trascurabile, se non avessi ritenuto  necessario  giustificarmi  con  la gente in fatto di pulizia personale,  argomento sul quale,  come mi è  stato  riferito,  qualche maligno ha avuto da ridire sia in questa che in altre occasioni.  Conclusa  questa  tormentata  faccenda,  uscii  di  casa  perché avevo bisogno d’aria pura.  L’imperatore era già disceso dalla  torre  e  mi veniva  incontro sul suo cavallo,  azione che avrebbe potuto costargli cara perché la bestia,  per quanto bene addestrata,  ma  non  abituata alla  vista  di  una  montagna  che le si muoveva davanti,  si impennò imbizzarrita. Il principe tuttavia, che era un ottimo cavallerizzo, si tenne in sella dando modo ai palafrenieri di  accorrere  subito  e  di prendere  le briglie e quindi smontò.  Quando fu a terra mi guardò con grande ammirazione,  tenendosi sempre oltre la lunghezza della catena.  Poi ordinò a cuochi e maggiordomi,  che erano già pronti,  di portarmi da bere e da mangiare e loro spinsero verso di  me,  piano  piano,  le varie  cibarie  su  certi carretti fino a che potei afferrarli.  Presi quei carretti in mano e li vuotai di un colpo: venti  erano  pieni  di carne  e  dieci di vino.  I primi si esaurirono in un paio di bocconi, mentre bevvi in un unico  sorso  il  vino  di  dieci  giare  di  creta contenute su un carro e così feci con il resto.  L’imperatrice  e  i  principi di sangue di entrambi i sessi sedevano a distanza nelle loro  portantine,  accompagnati  da  diverse  dame  del seguito;  tuttavia  quando  avvenne  l’incidente  del  cavallo del re, scesero e gli andarono tutti intorno.  Descriverò ora la  persona  del sovrano.  La sua statura supera quella di qualsiasi altro a corte,  di quasi un’unghia,  e basta questo a incutere riverenza in chiunque  sia al suo cospetto.  Ha tratti decisi e mascolini, labbro austriaco, naso aquilino,   pelle  olivastra,   portamento  eretto,   corpo  e  membra proporzionati,  maniere  aggraziate e andamento maestoso.  Aveva ormai superato la giovinezza con i suoi ventotto anni suonati e durante  gli ultimi  sette  aveva  regnato  riportando  vittorie  militari,   nella generale prosperità del paese.  Per vederlo meglio,  mi distesi su  un fianco  in  modo  che  il mio volto fosse all’altezza del suo,  mentre stava in piedi a soli tre metri di distanza.  D’altra parte mi  capitò da allora in poi di prenderlo in mano tante volte,  che non mi sbaglio nel farne la descrizione.  Aveva un abito semplice  e  disadorno,  fra l’asiatico  e l’europeo,  ma in testa portava un elmo leggero,  d’oro, ornato di gemme e con una piuma sulla cima.  Teneva in mano,  pronto a difendersi  in  caso avessi rotto le catene,  la spada sguainata lunga otto centimetri, con l’impugnatura e il fodero tempestati di diamanti.  Aveva la voce acuta ma chiara in  ogni  articolazione,  tanto  che  lo sentivo  bene  anche quando stavo in piedi.  Le signore e i cortigiani erano vestiti in  modo  sfarzoso,  e  il  posto  che  essi  occupavano sembrava,  nel suo insieme,  una gonna distesa al suolo,  ricamata con figure d’oro e d’argento.

Sua Maestà Imperiale mi rivolse più volte la parola e io gli  risposi, anche  se  nessuno  dei  due  riuscì a capire una sillaba.  Come potei dedurre dai loro vestiti,  c’erano anche parecchi preti e avvocati  ai quali  fu  ordinato di parlarmi e io stesso mi rivolsi a loro in tutte quelle lingue in cui riesco a spiccicare almeno due  parole  in  fila, quali il tedesco e il fiammingo,  il latino, il francese, lo spagnolo, l’italiano e la lingua franca. Fu tutto inutile.