Dopo due ore la corte si ritirò e mi lasciarono in compagnia di un nutrito corpo di  guardia con  l’ordine  di  fronteggiare  l’impertinenza  e  il  malanimo della plebaglia,  che non vedeva l’ora di affollarmisi intorno il più vicino possibile. Qualcuno della folla ebbe perfino l’impudenza di scagliarmi addosso  qualche freccia,  mentre me ne stavo seduto per terra accanto alla porta di casa,  una delle quali mi sfiorò un  occhio.  Allora  il colonnello  fece  acciuffare sei dei caporioni e la migliore punizione gli sembrò quella di consegnarmeli legati.  L’operazione  fu  eseguita dai soldati che me li spinsero davanti con il calcio delle picche.  Li presi tutti insieme con la destra poi ne infilai  cinque  nella  tasca della  giacca;  il  sesto  lo  guardai come se avessi voluto mangiarlo vivo.  Il poveraccio urlava terribilmente mentre il  colonnello  e  le guardie stavano sulle spine, specialmente quando mi videro estrarre il temperino.  Ma  li  tranquillizzai  subito guardando con dolcezza quel disgraziato e tagliando le corde con cui era legato.  Poi lo misi  per terra  e  lui  se  la  dette  a  gambe.  Agli altri riservai lo stesso trattamento, tirandoli fuori uno ad uno di tasca;  potei osservare che con  quell’atto  di  clemenza  mi  ero  guadagnato la riconoscenza dei soldati e della gente,  il che ebbe il suo peso quando fu  riferito  a corte.

Sul  fare  della  notte  entrai  con  qualche  difficoltà in casa e mi distesi per terra;  continuai  così  per  una  quindicina  di  giorni, durante  i  quali l’imperatore ordinò che mi fosse preparato un letto.  Portarono seicento letti di comune grandezza  per  mezzo  di  carri  e furono  montati  nella  mia abitazione.  Centocinquanta cuciti insieme vennero  a  costituire  un’unica  piazza  di  lunghezza  e   larghezza appropriate,  e  anche  se  i  rimanenti  furono  ammassati in quattro strati,  non trovai una grande differenza con il pavimento  di  pietra dura.  Con gli stessi criteri mi fornirono anche di lenzuoli, coltroni e coperte, vere delizie per chi, come me,  si era da tempo abituato ad ogni privazione.

Col diffondersi della notizia del mio arrivo per tutto il reame, venne a vedermi un numero incredibile di ricchi, di fannulloni e di curiosi, tanto  che  i  villaggi  erano  diventati quasi deserti e ne avrebbero risentito la coltivazione dei campi e le faccende domestiche,  se  Sua Maestà  Imperiale non vi avesse messo un freno con proclami e decreti.  Prescrisse infatti che quanti mi avevano  visto  se  ne  tornassero  a casa,  e  che  non  dovevano  permettersi  di  avvicinarsi  a  meno di cinquanta metri dalla mia abitazione,  senza il permesso della  Corte; il che portò ai segretari di stato mance cospicue.  Nel  frattempo  l’imperatore  teneva frequenti riunioni di governo per discutere quale decisione prendere nei miei confronti e un amico  mio, persona di rango e molto addentro nelle segrete cose,  mi assicurò che la Corte si trovava in notevoli difficoltà per causa mia. Temevano che riuscissi a liberarmi,  e che mantenermi fosse un costo spropositato e tale da causare una carestia. A volte prendevano la decisione di farmi morire  di fame o almeno di tirarmi frecce avvelenate sulle mani e sul volto,  che mi  avrebbero  spacciato  in  quattro  e  quattr’otto;  ma dovevano  poi  considerare  che  il puzzo di una così immensa carcassa avrebbe potuto diffondere la peste nella capitale e  probabilmente  in tutto il paese.  Nel bel mezzo di questi dibattiti,  diversi ufficiali dell’esercito si presentarono alla porta del salone del  consiglio.  I due  che  furono  ammessi  fecero  un resoconto della mia condotta nei confronti dei sopra citati criminali.  Questo  suscitò  un’impressione così  favorevole  in  Sua  Maestà  e nell’intero consiglio,  che venne nominata una commissione  imperiale  col  compito  di  far  consegnare quotidianamente,  da  parte  di  tutti  i  villaggi entro un raggio di novecento metri, sei buoi, quaranta pecore ed altre derrate per il mio sostentamento, insieme ad una quantità proporzionale di pane,  vino ed altre  bevande.  Per  il  pagamento  dovuto,  Sua Maestà emise assegni garantiti dal tesoro della corona, dal momento che questo sovrano vive soprattutto delle  sue  rendite  e  raramente,  e  solo  in  occasioni eccezionali,  impone  tasse  ai  suoi  sudditi,  i quali sono comunque tenuti a seguirlo in guerra a loro spese.  Venne istituito inoltre un corpo di seicento persone con  la  funzione di farmi da domestici,  ai quali furono concessi salari appropriati al loro mantenimento e dei padiglioni  costruiti  appositamente  ai  lati della  mia  porta.  Fu poi ordinato a trecento sarti di farmi un abito secondo la moda di quel paese;  che sei studiosi,  fra i più famosi di quelli di Sua Maestà,  si dedicassero ad insegnarmi la loro lingua, ed infine che i cavalli dell’imperatore, quelli della nobiltà e del corpo di guardia si addestrassero al mio cospetto  per  abituarsi  alla  mia mole.  Eseguiti  come  di  dovere  tutti  questi decreti,  feci grandi progressi nella loro lingua in circa tre settimane,  durante le  quali Sua Maestà mi onorò di parecchie visite,  compiacendosi di collaborare alla mia istruzione con i maestri.  Cominciavamo già a  conversare  in qualche  modo  e le prime parole che imparai furono per esprimergli il mio desiderio di riavere,  mercé sua,  la libertà,  e  glielo  ripetei quotidianamente in ginocchio.  Lui mi rispose,  come potei capire, che sarebbe stata una questione di tempo ed in ogni caso impensabile senza il consenso del Consiglio della corona,  infine  che  per  prima  cosa dovevo:  “Lumos  Kelmin  pesso  desmar  lon  Emposo”,  cioè giurare un accordo con lui e il suo regno;  che comunque sarei stato trattato con ogni  cortesia e mi consigliava di guadagnarmi la stima sua e dei suoi sudditi con la pazienza e la riservatezza.  Desiderava inoltre che non me  la  prendessi  a male se avesse dato l’ordine ai suoi ufficiali di perquisirmi, poteva darsi che avessi addosso diverse armi,  pericolose specie se proporzionate alla grandezza della mia persona.  Risposi che il desiderio di Sua  Maestà  poteva  ritenersi  esaudito,  poiché  ero pronto  a spogliarmi e a rovesciare le tasche in sua presenza.  Glielo feci capire parte a parole, parte a segni. Lui replicò che, secondo le leggi del regno,  dovevo essere perquisito da  due  ufficiali  e,  dal momento  che  si  rendeva perfettamente conto che tutto ciò non poteva essere eseguito senza il mio consenso ed il mio aiuto,  aveva una così alta  stima  della  mia  generosità  e del mio senso di giustizia,  da affidare alle mie mani i suoi ispettori.  Qualunque cosa  mi  avessero sequestrato,  mi  sarebbe  stata  restituita al momento di lasciare la loro terra,  o comunque ripagata al prezzo che avrei ritenuto di dover fissare.

Presi  in  mano  i  due  ufficiali  e li misi prima nelle tasche della giacca e quindi in tutte le altre tasche che avevo,  ad  eccezione  di due   taschini   ed   una  tasca  segreta  che  non  desideravo  farmi ispezionare, contenenti cosucce di mia necessità e di nessun interesse per loro. In uno dei taschini avevo un orologio d’argento e nell’altro un borsello con poche monete d’oro.  Questi gentiluomini,  forniti  di carta, penne e calamai, stesero un preciso inventario di tutto ciò che avevano  visto,  poi,  dopo  aver  terminato,  mi  chiesero di deporli nuovamente a terra per consegnarlo all’imperatore. In seguito tradussi nella nostra lingua quell’inventario che  suona,  parola  per  parola, così:

“In  primis,  nella tasca destra della giacca del Grande Uomo Montagna (così ho interpretato le parole ‘Quinbus Flestrin’) abbiamo rinvenuto, dopo scrupolosa ispezione, null’altro che un pezzo smisurato di stoffa grossolana,  largo a sufficienza per far da  tappeto  nel  salone  del trono   di  Sua  Maestà.   Nella  tasca  sinistra  abbiamo  visto  una mastodontica cassa d’argento, con coperchio dello stesso metallo,  che noi  ispettori  non  riuscimmo  a  sollevare.  Dopo avergli chiesto di aprirlo,  uno di noi balzò dentro e si trovò fino a metà gamba in  una specie  di  polvere  che,  sollevandosi  fino al nostro viso,  ci fece entrambi ripetutamente starnutire.  Nella tasca destra  del  panciotto abbiamo  trovato  un  fascio  enorme  di fogli di una materia bianca e sottile,  ripiegati l’uno sull’altro,  della grandezza di  tre  uomini almeno e tenuti insieme da un grossissimo canapo;  sopra avevano delle figure nere che riteniamo essere la scrittura,  ciascuna lettera della quale  è grande quanto il palmo della nostra mano.  In quella sinistra c’era una specie di strumento costituito da una ventina di lunghi pali che scaturivano da un’unica trave,  molto simili alla palizzata che si trova davanti alla corte di Sua Maestà.  Con questo strumento pensiamo che l’Uomo Montagna si pettini i capelli,  anche se è solo un’ipotesi, perché non lo abbiamo mai infastidito con domande,  dal momento che ci facevamo  intendere  con  difficoltà.   Nel  tascone  destro  del  suo coprimezzo  (traduco  così  la  parola ‘ranfu-lo’ con cui chiamavano i calzoni) abbiamo visto una colonna di ferro  vuota,  lunga  quanto  un uomo,  legata ad un pezzo di legno duro e più massiccio della colonna, dalla quale sporgevano di lato un paio  di  congegni  di  ferro  dalla forma strana,  di cui non conosciamo la funzione. Nella tasca sinistra c’era una macchina identica a questa.  Nella tasca più  piccola  della parte  destra  c’erano  diverse  baiaffe  piatte  e rotonde di metallo bianco  e  rosso,  di  vario  peso;  alcune  di  quelle  bianche,  che sembravano d’argento,  erano così larghe e pesanti che il mio compagno ed io facevamo fatica a sollevarle.  Nella tasca sinistra c’erano  due colonne nere di forma irregolare;  riuscimmo ad arrivarci in cima solo con gran difficoltà, poiché eravamo in fondo alla tasca. Una di queste era coperta e sembrava fatta di un solo  pezzo,  mentre  all’estremità dell’altra spuntava qualcosa di bianco e rotondo,  grosso due volte la nostra testa.  Dentro ognuna di queste stava rinchiusa un’enorme  lama di acciaio che, su nostra ingiunzione, lui ci mostrò. Temevamo infatti che fossero macchine pericolose.  Lui le tirò fuori dagli astucci e ci disse che al suo paese con una ci si radeva la barba e con l’altra  ci si  tagliava  la  carne.  C’erano poi due taschini nei quali non fummo capaci di insinuarci,  perché erano come due fenditure taglienti  alla sommità del coprimezzo,  tenute aderenti dalla pressione della pancia.  Dal taschino destro pendeva una pesante catena  d’argento  con  appesa una  macchina  straordinaria.  Gli  facemmo cenno di estrarre quel che stava attaccato al capo della catena: si trattava di un globo per metà d’argento e per metà di un metallo trasparente attraverso il quale  si potevano  vedere  strane  figure  disposte  in  cerchio.  Pensavamo di poterle toccare,  ma le nostre dita non andarono oltre quella  materia traslucida.  Ci mise agli orecchi quella macchina che faceva un rumore incessante,  come quello di un  mulino.  Pensiamo  che  si  tratti  di qualche  bestia  sconosciuta  o  del  dio  che  lui adora,  siamo anzi favorevoli a questa seconda ipotesi,  perché ci assicurò  (se  abbiamo capito bene quel che ci disse, dal momento che si esprimeva in maniera assai  scorretta)  che  raramente  intraprendeva  qualche azione senza prima averlo consultato. L’ha definito il suo oracolo, dicendo che gli indicava il momento giusto per ogni azione. Dal taschino sinistro tirò fuori una rete grande quasi quanto quella di un pescatore, studiata in modo da potersi aprire e chiudere come  un  borsello  ed  infatti  gli serviva a questo scopo; ci trovammo diversi pezzi di un metallo giallo e massiccio i quali, se fossero veramente d’oro, ammonterebbero ad una somma favolosa.

“Ispezionate in questo modo tutte le tasche, in ottemperanza al volere di  Sua  Maestà,  osservammo che portava intorno alla vita una cintura fatta con la pelle di qualche animale che doveva essere stato  immenso e dalla quale, a sinistra, pendeva una spada della lunghezza di cinque uomini e,  a destra, una borsa o sacchetto a due scomparti, ognuno dei quali era capace di contenere tre sudditi di Sua  Maestà.  In  uno  di questi   scomparti   c’erano   delle  palle  o  globi  di  un  metallo pesantissimo,  della dimensione della nostra testa,  che solo una mano robusta riusciva a sollevare;  nell’altro un mucchio di certi granelli neri,  non di gran mole né troppo pesanti,  poiché ne potevamo  tenere una cinquantina sul palmo della mano.

“Questo  è  l’esatto  inventario  di  quanto abbiamo rinvenuto addosso all’Uomo Montagna,  il quale  ha  avuto  con  noi  maniere  di  grande cortesia  e  il  rispetto  dovuto  ad  una  commissione di Sua Maestà.  Firmato e apposto il sigillo il quarto  giorno  della  ottantanovesima luna del fausto regno di Sua Maestà.

Clefren Frelock, Marsi Frelock.”

Letto  l’inventario  al cospetto dell’imperatore,  questi mi ordinò di consegnare i diversi oggetti.  Per prima cosa mi chiese  la  sciabola, che staccai,  fodero e tutto.  Nel frattempo ordinò ad un suo esercito di tremila uomini scelti di circondarmi a distanza, con archi e frecce pronte a scoccare;  ma non ci feci attenzione perché tenevo gli  occhi fissi  sull’imperatore.  Lui  volle  allora che sguainassi la sciabola che,  per quanto si fosse un po’ arrugginita  in  mare  era  in  molti tratti ancora sfavillante: le truppe emisero un boato fra il terrore e la sorpresa,  perché ai raggi del sole i riflessi della sciabola,  che facevo ondeggiare qua e là, abbagliavano i loro occhi. Sua Maestà, che è un principe magnanimo,  rimase meno sbigottito di quanto credessi  e mi  ordinò  di  rinfoderarla  e di metterla per terra pian pianino,  a circa sei piedi dall’estremità della mia catena.  Poi volle una  delle colonne di ferro cavo,  cioè le mie pistole da tasca. Le tirai fuori e quindi, per esaudire il suo desiderio, gliene spiegai l’uso meglio che potevo,  poi,  caricatane una a salve (per fortuna  il  sacchetto  ben chiuso   aveva   impedito   alla  polvere  di  bagnarsi,   secondo  un accorgimento che i prudenti marinai sanno di dover prendere)  misi  in guardia l’imperatore di non spaventarsi e la scaricai in aria.  Questa volta vi fu uno sbalordimento assai più grande di quello espresso alla vista della sciabola. Caddero a terra a centinaia,  come fossero stati colpiti  a  morte,  e  perfino  l’imperatore,  per  quanto avesse solo barcollato, per un certo tempo non riuscì a riaversi.  Così come avevo fatto  con  la  sciabola,  consegnai  entrambe  le pistole e quindi il sacchetto della polvere e delle palle, non senza averlo prima messo in guardia che questo doveva stare lontano dal fuoco,  capace com’era  di incendiarsi alla minima scintilla e di fare saltare in aria il palazzo imperiale.  Gli  consegnai  anche  l’orologio,  che  l’imperatore  era curiosissimo di vedere. Lui allora ordinò a due fra i più alti soldati delle guardie,  di infilarlo in una pertica e portarlo a spalla,  come fanno in Inghilterra i garzoni con le botti di birra.  Era stupito nel sentire il continuo rumore e nel vedere la lancetta dei minuti che  si muoveva;  lui  infatti  riusciva  a  scorgerne  il moto distintamente, perché quel popolo ha una vista molto più acuta della  nostra.  Chiese il  parere  dei  saggi  che  lo  circondavano che risposero in maniera evasiva e lontana dal vero,  come il lettore può ben comprendere senza che debba ripetermi, tanto più che non riuscii a capirli del tutto. Fu poi  la volta delle monete d’argento e di rame,  del borsello con nove grosse  monete  d’oro  ed  altre  più  piccole,  del  pettine,   della tabacchiera  d’argento,  del  fazzoletto  e  del  giornale  di  bordo.  Sciabola,  pistole e sacchetto di  munizioni  furono  trasportati  con carri  all’arsenale  di  Sua  Maestà,  mentre  le altre cose mi furono restituite.

Come ho già detto sopra, avevo una tasca segreta che era loro sfuggita nella quale tenevo un paio di occhiali (che metto a volte,  perché  ho la  vista  debole),  un cannocchiale tascabile e diverse altre cosucce che,   sapendo  che  non  avrebbero  avuto  nessuna   importanza   per l’imperatore,  non mi sentii in dovere di mostrare, pur rispettando la parola data;  e poi temevo che le avrei perdute  o  che  si  sarebbero danneggiate una volta non più in mano mia.

 

 

3- L’AUTORE FA DIVERTIRE L’IMPERATORE E I NOBILI DI ENTRAMBI I SESSI

IN MODO STRAORDINARIO.  DESCRIZIONE DEI  DIVERTIMENTI  ALLA  CORTE  DI LILLIPUT. L’AUTORE OTTIENE LA LIBERTA’ A DETERMINATE CONDIZIONI.

Il  garbo  e  la  mitezza  del  mio  comportamento  avevano  così  ben impressionato l’imperatore e la corte e non meno l’esercito e la gente in generale,  che cominciai a nutrire qualche speranza di riacquistare in  breve  la  libertà.  Non  trascurai  niente  per  favorire  questo atteggiamento di benevolenza. I nativi avevano poco a poco sempre meno paura che facessi loro del male.  Talvolta  mi  mettevo  per  terra  e facevo  danzare  cinque  o  sei  di  loro sulla mia mano,  e alla fine ragazzi e ragazze non ebbero paura di mettersi a giocare a  nascondino fra  i  miei  capelli.  Avevo  ormai fatto notevoli progressi nell’uso della loro lingua.  Un giorno  l’imperatore  volle  intrattenermi  con parecchi  dei  loro  giochi nazionali,  nei quali eccellono su tutti i paesi che ho conosciuto,  sia nella abilità che nel fasto.  Nessuno mi divertì  quanto  quello  dei  funamboli che ballavano su di un sottile filo  bianco,  lungo  un  mezzo  metro  e  alto  da  terra  un  trenta centimetri.  Su  questo  gioco  chiedo  al paziente lettore di potermi dilungare un po’.

A praticare questo esercizio sono  solo  quelle  persone  candidate  a ricoprire  cariche  elevate  o  alte onorificenze della corte.  Fin da giovani vengono addestrate a questa arte e non tutte  sono  di  sangue nobile  o  di  cultura  liberale.  Quando  una carica di primo piano è vacante, perché il titolare è morto o è caduto in disgrazia,  cinque o sei  candidati alla successione presentano all’imperatore la richiesta di potere intrattenere Sua Maestà e la corte esibendosi  sulla  corda.  Colui che fa più salti senza cadere, ha diritto a subentrare in quella carica.  Molto  spesso gli stessi ministri sono obbligati a dare prova della loro bravura,  per convincere l’imperatore che  sono  sempre  in possesso  della  loro  abilità.  Il tesoriere Flimnap,  lo riconoscono tutti,  fa capriole sulla corda tesa un centimetro più in  alto  degli altri  nobili dell’impero.  L’ho visto fare il salto mortale parecchie volte di seguito,  sopra una tavoletta fissata alla cordicella non più spessa  di  un  nostro  spago.  Dopo  di  lui  viene,  se non pecco di parzialità,  il mio amico Reldresal,  primo segretario  agli  interni, mentre tutti gli altri funzionari più o meno si equivalgono.  Durante  i  giochi capitano assai spesso incidenti mortali,  di cui le cronache sono piene.  Ho visto coi miei  occhi  due  o  tre  candidati rompersi  le  ossa,  anche  se  il  pericolo più grande lo corrono gli stessi ministri che devono comprovare la loro abilità.  Perché,  presi come  sono dall’ambizione di superare se stessi e i loro colleghi,  si sforzano a tal punto, che nessuno si salva da qualche capitombolo, che poi sono due o tre per alcuni di loro.  Mi venne detto che un  anno  o due prima del mio arrivo, il tesoriere Flimnap si sarebbe senza dubbio rotto  l’osso  del collo,  se la violenza della caduta non fosse stata attutita da uno dei cuscini del re che per caso si trovava per terra.  C’è poi un’altra gara che,  in particolari occasioni,  si svolge  alla sola presenza dell’imperatore,  dell’imperatrice e del primo ministro.  L’imperatore mette sul tavolo tre sottili fili di  seta  lunghi  dieci centimetri,   uno  azzurro,   uno  rosso  e  uno  verde.  Questi  fili costituiscono i premi per coloro che l’imperatore intende  distinguere con  un  segno  caratteristico della sua benevolenza.  La cerimonia si svolge nel gran salone di governo,  dove i candidati devono sottoporsi ad una prova di abilità assai diversa dalla precedente e di cui non ho visto niente di simile nei paesi del vecchio e del nuovo mondo.  L’imperatore tiene in mano un bastone, le cui estremità sono parallele all’orizzonte,  mentre i candidati,  avanzando l’uno dietro l’altro, a volte saltano sopra il bastone,  a volte vi sgusciano sotto,  avanti e indietro per parecchie volte,  a seconda che il bastone venga alzato o abbassato.  Capita che l’imperatore tenga un capo  del  bastone  e  il primo  ministro  l’altro,  oppure  che  sia  quest’ultimo  tenerlo  da entrambe le parti.  Colui che svolge il  suo  esercizio  con  maggiore scioltezza  nel  saltare  e  nello  strisciare è ricompensato col filo azzurro, mentre al secondo tocca quello rosso e al terzo quello verde.  Essi se li portano avvolti in due giri attorno  alla  vita  e,  fra  i notabili  del  regno,  sono  pochi  quelli  che  non  sono in grado di fregiarsi di queste cinture.  I cavalli dell’esercito e delle scuderie imperiali,   che   erano   stati  addestrati  al  mio  cospetto,   non recalcitravano  più  e  mi  venivano  ai  piedi  senza  dar  segno  di imbizzarrirsi.  Allora  stendevo  una  mano per terra e i cavalieri la saltavano con i loro cavalli;  anzi ci fu un cacciatore reale che,  in sella a un maestoso destriero,  mi saltò il piede, scarpa e tutto, con un balzo  straordinario.  Un  giorno  ebbi  la  ventura  di  divertire l’imperatore in maniera veramente singolare. Lo pregai di ordinare che mi portassero parecchi bastoni grossi come canne da passeggio e lunghi una   sessantina   di   centimetri.   Sua  Maestà  passò  l’ordine  al sovrintendente delle foreste, il quale diede a sua volta istruzioni in proposito  e  il  giorno  seguente  arrivarono   sei   boscaioli   con altrettanti  carri  trainati  ognuno  da  otto cavalli.  Presi nove di questi pali e li infilai saldamente in  terra,  formando  un  quadrato della  superficie  di  un  novanta  centimetri,  fissai  altri quattro bastoni ad ogni angolo all’altezza di novanta centimetri dal  suolo  e ad  esso  paralleli;  poi  legai  il fazzoletto ai nove pali messi per dritto tirandolo da tutti i quattro lati, finché si tese come la pelle di un tamburo,  a  questo  punto  i  quattro  bastoni  paralleli,  che sovrastavano il fazzoletto di poco,  servirono da ringhiera. Finito il lavoro, chiesi all’imperatore che facesse salire su questa piattaforma un gruppo dei suoi migliori cavalleggeri,  in tutto ventiquattro,  per esercitarsi.  Sua Maestà accettò la mia proposta ed io li presi uno ad uno con la mano,  cavallo e  tutto,  con  i  rispettivi  ufficiali  di addestramento.  Formati  i  ranghi,  si  divisero in due squadre dando luogo a finte scaramucce,  scagliando frecce spuntate,  sguainando  le spade,  fuggendo e inseguendo,  attaccando e battendo in ritirata;  in breve,  dettero un saggio della più perfetta disciplina  militare  che avessi  mai  visto.  I  bastoni  trasversali  impedivano che cavalli e cavalieri cadessero sopra al palcoscenico e l’imperatore si divertì  a tal  punto  da ordinare che questi giochi fossero ripetuti per diversi giorni. Una volta si fece sollevare lui stesso per impartire i comandi e, non senza poche difficoltà,  persuase la stessa imperatrice a farsi sollevare da me entro la sua portantina,  per potere godere la scena a un due metri dalla piattaforma.  Per fortuna durante questi spettacoli non  avvennero  disgrazie;  solo  una  volta  un  cavallo focoso,  che apparteneva ad uno dei capitani, scalpitando, lacerò con lo zoccolo il fazzoletto facendoci un buco e, mancandogli il piede,  ruzzolò insieme al  cavaliere,  ma  venni  subito loro in aiuto.  Con una mano infatti tappai il foro, mentre con l’altra misi a terra le squadre allo stesso modo in cui le avevo fatte salire.  Il cavallo che era caduto si slogò la spalla sinistra, ma il cavaliere se la cavò senza un graffio e a me non  rimase che rammendare alla meglio il fazzoletto,  deciso d’ora in poi  a  non  fidarmi  più  della  sua  resistenza  in  imprese   tanto pericolose.

Due  o tre giorni prima della mia liberazione,  mentre intrattenevo la corte  con  questa  specie  di  spettacoli,  arrivò  un  corriere  per informare  Sua Maestà che alcuni dei suoi sudditi,  mentre cavalcavano nelle vicinanze del luogo dove ero stato catturato, avevano scorto una gran roba nera distesa al suolo,  dalla forma strana,  alta  come  una persona  nel  mezzo e larga come la camera da letto imperiale.  Non si trattava di una cosa viva,  come avevano supposto in un primo momento, perché giaceva immobile sull’erba,  sebbene alcuni di loro vi avessero girato attorno varie volte.  Salendo uno in groppa  all’altro  avevano raggiunto la cima che era apparsa piatta e liscia mentre, camminandoci sopra,  si  era  dimostrata  cava.  Ritenevano  che si trattasse di un qualchecosa appartenente all’Uomo Montagna e,  col beneplacito di  Sua Maestà,  prendevano  l’impegno  di  trasportarla  a  corte  con cinque cavalli.  Capii subito  cosa  avevano  trovato,  e  in  cuor  mio,  mi rallegrai della notizia.

Quando  dopo  il  naufragio  avevo  guadagnato  la riva,  ero talmente frastornato  che,   prima  di  raggiungere  il  luogo  dove   mi   ero addormentato,  dovevo aver perso il cappello che pure mi ero legato al capo con un sottogola  quando  ero  sulla  barca  e  che  non  si  era slacciato per tutto il tempo che avevo nuotato.  Per qualche accidente casuale,  il laccio si era rotto e ero convinto  di  averlo  perso  in mare.  Pregai  Sua  Maestà di disporre che mi fosse riportato il prima possibile,   dopo   avergli   descritto   la   natura   e   l’uso   di quell’indumento.  Il  giorno dopoo,  infatti,  eccomelo trascinato dai carrettieri,  sebbene non si potesse dire che fosse  in  buono  stato.  Nella  falda,  a  un  paio di centimetri dall’orlo,  avevano fatto due buchi nei quali avevano infilato due uncini e questi,  a  loro  volta, erano  legati con una lunga corda ai finimenti dei cavalli.  E così il mio cappello era stato trascinato per più  di  mezzo  miglio  inglese.  Comunque  devo  dire  che  rimase danneggiato molto meno del previsto, grazie all’uniformità e levigatezza di quella terra.  Due  giorni  dopo  questo  avvenimento,  venne  ordinato  all’esercito acquartierato  dentro  e  tutto  intorno  alla  capitale  lo  stato di all’erta, perché all’imperatore era venuto il ticchio di divertirsi in modo assai strano.  Volle che mi piazzassi ritto  e  a  gambe  il  più possibile  divaricate,  come il Colosso di Rodi.  Quindi ordinò al suo generale,  vecchio  condottiero  pieno  di  esperienza,   e  mio  gran protettore, di schierare le truppe a ranghi serrati e di farle sfilare sotto  di me al rullo dei tamburi: la fanteria in file di ventiquattro e la cavalleria di sedici,  con le bandiere al vento e lance in resta.  In  tutto  erano tremila fanti e un migliaio di cavalieri.  Sua Maestà ordinò,  pena la morte,  che ogni soldato si attenesse al più  stretto senso  di decenza nei miei confronti,  anche se alcuni degli ufficiali più giovani alzarono lo stesso gli occhi mentre mi passavano sotto.  E devo  dire  che i miei calzoni erano allora così mal ridotti,  che non mancarono occasioni di riso e di meraviglia.  Avevo inviato tanti memoriali e petizioni per ottenere la libertà, che alla fine l’imperatore ne parlò prima  nel  gabinetto  privato  e  poi nella  seduta  plenaria  del  consiglio,  dove  nessuno  si  oppose ad eccezione di Skyresh Bolgolam che si compiaceva,  senza che lo  avessi mai provocato, di essere mio nemico mortale. Ma tutto il consiglio gli votò contro e l’imperatore sanzionò la decisione.  Questo ministro era “galbet”, o ammiraglio del regno,  godeva la cieca fiducia del sovrano ed  era  molto  capace  nei suoi compiti sebbene fosse una persona dal carattere acido e rude.  Alla fine lo convinsero ad  acconsentire,  ma lui  ottenne  in  cambio  di  stilare gli articoli e le condizioni che regolavano la mia libertà e sui quali ero  tenuto  a  giurare.  Fu  lo stesso  Skyresh  Bolgolam,  seguito da due sottosegretari e da diverse persone di rango, a portarmi il documento con gli articoli in oggetto.  Dopo che mi furono letti,  mi chiesero di giurare  fedeltà  ai  patti, prima secondo il costume della mia patria,  quindi nel loro,  il quale consisteva nel tenermi il piede destro con la mano sinistra,  mettendo il  dito  medio  della  destra  sul cucuzzolo e il pollice sulla punta dell’orecchio sinistro.  E poiché il lettore  può  essere  curioso  di conoscere approssimativamente lo stile e le maniere espressive di quel popolo, nonché gli articoli alle cui condizioni ottenni la libertà, ho tradotto l’intero documento,  parola per parola,  e ora lo presento al pubblico:

“GOLBASTO MOMAREN EVLAME GURDILO SHEFIN MULLY ULLY  GUE,  potentissimo imperatore  di  Lilliput,  delizia  e  terrore  dell’universo,  i  cui possedimenti si estendono per cinquemila “blustrug” (una circonferenza di circa dodici miglia) ai confini  del  globo;  monarca  di  tutti  i monarchi,  più alto di tutti i figli dell’uomo, i cui piedi calpestano il centro dell’universo e la cui testa batte contro il  sole,  al  cui cenno  i  principi della terra si sentono tremare le ginocchia;  dolce come la primavera,  propizio come  l’estate,  ferace  come  l’autunno, terribile  come  l’inverno;  Sua  Maestà  Altissima  propone  all’Uomo Montagna,  giunto recentemente nei nostri celesti domini,  i  seguenti articoli che egli si impegna a rispettare con giuramento solenne.

1. L’Uomo  Montagna  non  partirà  dai  nostri  domini  senza  nostra autorizzazione, munita del gran sigillo.

2. Non potrà permettersi  di  entrare  nella  capitale  senza  nostro specifico  ordine,  nel  qual  caso verrà dato un preavviso di due ore agli abitanti per ripararsi in casa.

3. Il suddetto Uomo Montagna limiterà  le  proprie  passeggiate  alle strade  principali  e più spaziose ed eviterà di camminare o sdraiarsi sui prati o sui campi di grano.

4. Mentre percorre le strade sopraddette avrà la massima cura di  non calpestare i nostri amati sudditi,  cavalli e carri; né potrà prendere in mano alcuno, senza suo permesso.

5. Se si dà il caso di dover trasmettere una notizia urgente,  l’Uomo Montagna dovrà portare nella sua tasca ambasciatore e cavallo,  per un viaggio di sei  giorni  ogni  luna,  e,  se  richiesto,  riportare  al cospetto di Sua Maestà detto ambasciatore sano e salvo.

6. Sarà nostro alleato contro il nemico dell’isola di Blefuscu e farà quanto sarà in suo potere per distruggerne la flotta che è in procinto di invaderci.

7. Nei momenti di ozio,  detto Uomo Montagna darà assistenza ai nostri operai,  aiutandoli  a sollevare le pietre più grosse per terminare il muro del parco principale ed altri nostri edifici  reali.  Detto  Uomo Montagna  dovrà fornirci,  nel tempo di due lune,  l’esatta misura dei nostri territori contando i passi tutt’intorno alla costa.  Per ultimo,  dietro solenne giuramento  di  rispettare  i  sopracitati articoli, detto Uomo Montagna riceverà giornalmente una provvigione di cibo  e  di  bevande  sufficiente  al  mantenimento di 1728 dei nostri sudditi;  avrà libero accesso alla nostra Augusta Persona  e  riceverà altri  segni  della  nostra  benevolenza.  Dato  nel nostro Palazzo di Belfoborac il dodicesimo giorno  della  novantesima  luna  del  nostro regno.”

 

Fu  con  somma  gioia  che giurai e sottoscrissi queste clausole,  per quanto alcune  di  esse  non  fossero  tanto  onorevoli  quanto  avrei desiderato,   frutto   esclusivamente   della   malevolenza  dell’alto ammiraglio Skyresh Bolgolam.  Mi furono dunque tolte le catene  e  fui completamente  libero,  l’imperatore  in  persona  mi  fece l’onore di presiedere  all’intera  cerimonia.   Gli  dimostrai   tutta   la   mia riconoscenza prostrandomi ai suoi piedi,  ma lui mi ordinò di alzarmi; poi,  dopo molte parole piene  di  benevolenza,  che  taccio  per  non apparire  vanitoso,  aggiunse  di  sperare  che  sarei  stato un utile servitore e che avrei ben meritato quei segni di favore che  mi  aveva già manifestato o che avrei potuto ancora ricevere in futuro.  Non  sarà  sfuggito al lettore che nell’ultima clausola concernente la mia liberazione,  l’imperatore si impegnava  a  fornirmi  tanto  vitto quanto  bastava  al  mantenimento di 1728 lillipuziani.  Qualche tempo dopo,  quando chiesi  a  un  amico  cortigiano  in  che  modo  avevano stabilito  quel  numero,  mi  rispose  che i ragionieri di Sua Maestà, misurata l’altezza del mio corpo per mezzo di un quadrante,  rilevando che essa stava alla loro nella proporzione di dodici a uno,  tratta la conclusione che,  vista  la  somiglianza  dei  corpi,  il  mio  doveva contenerne  almeno  1728 dei loro,  avevano stabilito che questo aveva bisogno di tanto cibo quanto ce ne voleva per mantenere quel numero di lillipuziani.