Dopo due ore la corte si ritirò e mi lasciarono in compagnia di un nutrito corpo di guardia con l’ordine di fronteggiare l’impertinenza e il malanimo della plebaglia, che non vedeva l’ora di affollarmisi intorno il più vicino possibile. Qualcuno della folla ebbe perfino l’impudenza di scagliarmi addosso qualche freccia, mentre me ne stavo seduto per terra accanto alla porta di casa, una delle quali mi sfiorò un occhio. Allora il colonnello fece acciuffare sei dei caporioni e la migliore punizione gli sembrò quella di consegnarmeli legati. L’operazione fu eseguita dai soldati che me li spinsero davanti con il calcio delle picche. Li presi tutti insieme con la destra poi ne infilai cinque nella tasca della giacca; il sesto lo guardai come se avessi voluto mangiarlo vivo. Il poveraccio urlava terribilmente mentre il colonnello e le guardie stavano sulle spine, specialmente quando mi videro estrarre il temperino. Ma li tranquillizzai subito guardando con dolcezza quel disgraziato e tagliando le corde con cui era legato. Poi lo misi per terra e lui se la dette a gambe. Agli altri riservai lo stesso trattamento, tirandoli fuori uno ad uno di tasca; potei osservare che con quell’atto di clemenza mi ero guadagnato la riconoscenza dei soldati e della gente, il che ebbe il suo peso quando fu riferito a corte.
Sul fare della notte entrai con qualche difficoltà in casa e mi distesi per terra; continuai così per una quindicina di giorni, durante i quali l’imperatore ordinò che mi fosse preparato un letto. Portarono seicento letti di comune grandezza per mezzo di carri e furono montati nella mia abitazione. Centocinquanta cuciti insieme vennero a costituire un’unica piazza di lunghezza e larghezza appropriate, e anche se i rimanenti furono ammassati in quattro strati, non trovai una grande differenza con il pavimento di pietra dura. Con gli stessi criteri mi fornirono anche di lenzuoli, coltroni e coperte, vere delizie per chi, come me, si era da tempo abituato ad ogni privazione.
Col diffondersi della notizia del mio arrivo per tutto il reame, venne a vedermi un numero incredibile di ricchi, di fannulloni e di curiosi, tanto che i villaggi erano diventati quasi deserti e ne avrebbero risentito la coltivazione dei campi e le faccende domestiche, se Sua Maestà Imperiale non vi avesse messo un freno con proclami e decreti. Prescrisse infatti che quanti mi avevano visto se ne tornassero a casa, e che non dovevano permettersi di avvicinarsi a meno di cinquanta metri dalla mia abitazione, senza il permesso della Corte; il che portò ai segretari di stato mance cospicue. Nel frattempo l’imperatore teneva frequenti riunioni di governo per discutere quale decisione prendere nei miei confronti e un amico mio, persona di rango e molto addentro nelle segrete cose, mi assicurò che la Corte si trovava in notevoli difficoltà per causa mia. Temevano che riuscissi a liberarmi, e che mantenermi fosse un costo spropositato e tale da causare una carestia. A volte prendevano la decisione di farmi morire di fame o almeno di tirarmi frecce avvelenate sulle mani e sul volto, che mi avrebbero spacciato in quattro e quattr’otto; ma dovevano poi considerare che il puzzo di una così immensa carcassa avrebbe potuto diffondere la peste nella capitale e probabilmente in tutto il paese. Nel bel mezzo di questi dibattiti, diversi ufficiali dell’esercito si presentarono alla porta del salone del consiglio. I due che furono ammessi fecero un resoconto della mia condotta nei confronti dei sopra citati criminali. Questo suscitò un’impressione così favorevole in Sua Maestà e nell’intero consiglio, che venne nominata una commissione imperiale col compito di far consegnare quotidianamente, da parte di tutti i villaggi entro un raggio di novecento metri, sei buoi, quaranta pecore ed altre derrate per il mio sostentamento, insieme ad una quantità proporzionale di pane, vino ed altre bevande. Per il pagamento dovuto, Sua Maestà emise assegni garantiti dal tesoro della corona, dal momento che questo sovrano vive soprattutto delle sue rendite e raramente, e solo in occasioni eccezionali, impone tasse ai suoi sudditi, i quali sono comunque tenuti a seguirlo in guerra a loro spese. Venne istituito inoltre un corpo di seicento persone con la funzione di farmi da domestici, ai quali furono concessi salari appropriati al loro mantenimento e dei padiglioni costruiti appositamente ai lati della mia porta. Fu poi ordinato a trecento sarti di farmi un abito secondo la moda di quel paese; che sei studiosi, fra i più famosi di quelli di Sua Maestà, si dedicassero ad insegnarmi la loro lingua, ed infine che i cavalli dell’imperatore, quelli della nobiltà e del corpo di guardia si addestrassero al mio cospetto per abituarsi alla mia mole. Eseguiti come di dovere tutti questi decreti, feci grandi progressi nella loro lingua in circa tre settimane, durante le quali Sua Maestà mi onorò di parecchie visite, compiacendosi di collaborare alla mia istruzione con i maestri. Cominciavamo già a conversare in qualche modo e le prime parole che imparai furono per esprimergli il mio desiderio di riavere, mercé sua, la libertà, e glielo ripetei quotidianamente in ginocchio. Lui mi rispose, come potei capire, che sarebbe stata una questione di tempo ed in ogni caso impensabile senza il consenso del Consiglio della corona, infine che per prima cosa dovevo: “Lumos Kelmin pesso desmar lon Emposo”, cioè giurare un accordo con lui e il suo regno; che comunque sarei stato trattato con ogni cortesia e mi consigliava di guadagnarmi la stima sua e dei suoi sudditi con la pazienza e la riservatezza. Desiderava inoltre che non me la prendessi a male se avesse dato l’ordine ai suoi ufficiali di perquisirmi, poteva darsi che avessi addosso diverse armi, pericolose specie se proporzionate alla grandezza della mia persona. Risposi che il desiderio di Sua Maestà poteva ritenersi esaudito, poiché ero pronto a spogliarmi e a rovesciare le tasche in sua presenza. Glielo feci capire parte a parole, parte a segni. Lui replicò che, secondo le leggi del regno, dovevo essere perquisito da due ufficiali e, dal momento che si rendeva perfettamente conto che tutto ciò non poteva essere eseguito senza il mio consenso ed il mio aiuto, aveva una così alta stima della mia generosità e del mio senso di giustizia, da affidare alle mie mani i suoi ispettori. Qualunque cosa mi avessero sequestrato, mi sarebbe stata restituita al momento di lasciare la loro terra, o comunque ripagata al prezzo che avrei ritenuto di dover fissare.
Presi in mano i due ufficiali e li misi prima nelle tasche della giacca e quindi in tutte le altre tasche che avevo, ad eccezione di due taschini ed una tasca segreta che non desideravo farmi ispezionare, contenenti cosucce di mia necessità e di nessun interesse per loro. In uno dei taschini avevo un orologio d’argento e nell’altro un borsello con poche monete d’oro. Questi gentiluomini, forniti di carta, penne e calamai, stesero un preciso inventario di tutto ciò che avevano visto, poi, dopo aver terminato, mi chiesero di deporli nuovamente a terra per consegnarlo all’imperatore. In seguito tradussi nella nostra lingua quell’inventario che suona, parola per parola, così:
“In primis, nella tasca destra della giacca del Grande Uomo Montagna (così ho interpretato le parole ‘Quinbus Flestrin’) abbiamo rinvenuto, dopo scrupolosa ispezione, null’altro che un pezzo smisurato di stoffa grossolana, largo a sufficienza per far da tappeto nel salone del trono di Sua Maestà. Nella tasca sinistra abbiamo visto una mastodontica cassa d’argento, con coperchio dello stesso metallo, che noi ispettori non riuscimmo a sollevare. Dopo avergli chiesto di aprirlo, uno di noi balzò dentro e si trovò fino a metà gamba in una specie di polvere che, sollevandosi fino al nostro viso, ci fece entrambi ripetutamente starnutire. Nella tasca destra del panciotto abbiamo trovato un fascio enorme di fogli di una materia bianca e sottile, ripiegati l’uno sull’altro, della grandezza di tre uomini almeno e tenuti insieme da un grossissimo canapo; sopra avevano delle figure nere che riteniamo essere la scrittura, ciascuna lettera della quale è grande quanto il palmo della nostra mano. In quella sinistra c’era una specie di strumento costituito da una ventina di lunghi pali che scaturivano da un’unica trave, molto simili alla palizzata che si trova davanti alla corte di Sua Maestà. Con questo strumento pensiamo che l’Uomo Montagna si pettini i capelli, anche se è solo un’ipotesi, perché non lo abbiamo mai infastidito con domande, dal momento che ci facevamo intendere con difficoltà. Nel tascone destro del suo coprimezzo (traduco così la parola ‘ranfu-lo’ con cui chiamavano i calzoni) abbiamo visto una colonna di ferro vuota, lunga quanto un uomo, legata ad un pezzo di legno duro e più massiccio della colonna, dalla quale sporgevano di lato un paio di congegni di ferro dalla forma strana, di cui non conosciamo la funzione. Nella tasca sinistra c’era una macchina identica a questa. Nella tasca più piccola della parte destra c’erano diverse baiaffe piatte e rotonde di metallo bianco e rosso, di vario peso; alcune di quelle bianche, che sembravano d’argento, erano così larghe e pesanti che il mio compagno ed io facevamo fatica a sollevarle. Nella tasca sinistra c’erano due colonne nere di forma irregolare; riuscimmo ad arrivarci in cima solo con gran difficoltà, poiché eravamo in fondo alla tasca. Una di queste era coperta e sembrava fatta di un solo pezzo, mentre all’estremità dell’altra spuntava qualcosa di bianco e rotondo, grosso due volte la nostra testa. Dentro ognuna di queste stava rinchiusa un’enorme lama di acciaio che, su nostra ingiunzione, lui ci mostrò. Temevamo infatti che fossero macchine pericolose. Lui le tirò fuori dagli astucci e ci disse che al suo paese con una ci si radeva la barba e con l’altra ci si tagliava la carne. C’erano poi due taschini nei quali non fummo capaci di insinuarci, perché erano come due fenditure taglienti alla sommità del coprimezzo, tenute aderenti dalla pressione della pancia. Dal taschino destro pendeva una pesante catena d’argento con appesa una macchina straordinaria. Gli facemmo cenno di estrarre quel che stava attaccato al capo della catena: si trattava di un globo per metà d’argento e per metà di un metallo trasparente attraverso il quale si potevano vedere strane figure disposte in cerchio. Pensavamo di poterle toccare, ma le nostre dita non andarono oltre quella materia traslucida. Ci mise agli orecchi quella macchina che faceva un rumore incessante, come quello di un mulino. Pensiamo che si tratti di qualche bestia sconosciuta o del dio che lui adora, siamo anzi favorevoli a questa seconda ipotesi, perché ci assicurò (se abbiamo capito bene quel che ci disse, dal momento che si esprimeva in maniera assai scorretta) che raramente intraprendeva qualche azione senza prima averlo consultato. L’ha definito il suo oracolo, dicendo che gli indicava il momento giusto per ogni azione. Dal taschino sinistro tirò fuori una rete grande quasi quanto quella di un pescatore, studiata in modo da potersi aprire e chiudere come un borsello ed infatti gli serviva a questo scopo; ci trovammo diversi pezzi di un metallo giallo e massiccio i quali, se fossero veramente d’oro, ammonterebbero ad una somma favolosa.
“Ispezionate in questo modo tutte le tasche, in ottemperanza al volere di Sua Maestà, osservammo che portava intorno alla vita una cintura fatta con la pelle di qualche animale che doveva essere stato immenso e dalla quale, a sinistra, pendeva una spada della lunghezza di cinque uomini e, a destra, una borsa o sacchetto a due scomparti, ognuno dei quali era capace di contenere tre sudditi di Sua Maestà. In uno di questi scomparti c’erano delle palle o globi di un metallo pesantissimo, della dimensione della nostra testa, che solo una mano robusta riusciva a sollevare; nell’altro un mucchio di certi granelli neri, non di gran mole né troppo pesanti, poiché ne potevamo tenere una cinquantina sul palmo della mano.
“Questo è l’esatto inventario di quanto abbiamo rinvenuto addosso all’Uomo Montagna, il quale ha avuto con noi maniere di grande cortesia e il rispetto dovuto ad una commissione di Sua Maestà. Firmato e apposto il sigillo il quarto giorno della ottantanovesima luna del fausto regno di Sua Maestà.
Clefren Frelock, Marsi Frelock.”
Letto l’inventario al cospetto dell’imperatore, questi mi ordinò di consegnare i diversi oggetti. Per prima cosa mi chiese la sciabola, che staccai, fodero e tutto. Nel frattempo ordinò ad un suo esercito di tremila uomini scelti di circondarmi a distanza, con archi e frecce pronte a scoccare; ma non ci feci attenzione perché tenevo gli occhi fissi sull’imperatore. Lui volle allora che sguainassi la sciabola che, per quanto si fosse un po’ arrugginita in mare era in molti tratti ancora sfavillante: le truppe emisero un boato fra il terrore e la sorpresa, perché ai raggi del sole i riflessi della sciabola, che facevo ondeggiare qua e là, abbagliavano i loro occhi. Sua Maestà, che è un principe magnanimo, rimase meno sbigottito di quanto credessi e mi ordinò di rinfoderarla e di metterla per terra pian pianino, a circa sei piedi dall’estremità della mia catena. Poi volle una delle colonne di ferro cavo, cioè le mie pistole da tasca. Le tirai fuori e quindi, per esaudire il suo desiderio, gliene spiegai l’uso meglio che potevo, poi, caricatane una a salve (per fortuna il sacchetto ben chiuso aveva impedito alla polvere di bagnarsi, secondo un accorgimento che i prudenti marinai sanno di dover prendere) misi in guardia l’imperatore di non spaventarsi e la scaricai in aria. Questa volta vi fu uno sbalordimento assai più grande di quello espresso alla vista della sciabola. Caddero a terra a centinaia, come fossero stati colpiti a morte, e perfino l’imperatore, per quanto avesse solo barcollato, per un certo tempo non riuscì a riaversi. Così come avevo fatto con la sciabola, consegnai entrambe le pistole e quindi il sacchetto della polvere e delle palle, non senza averlo prima messo in guardia che questo doveva stare lontano dal fuoco, capace com’era di incendiarsi alla minima scintilla e di fare saltare in aria il palazzo imperiale. Gli consegnai anche l’orologio, che l’imperatore era curiosissimo di vedere. Lui allora ordinò a due fra i più alti soldati delle guardie, di infilarlo in una pertica e portarlo a spalla, come fanno in Inghilterra i garzoni con le botti di birra. Era stupito nel sentire il continuo rumore e nel vedere la lancetta dei minuti che si muoveva; lui infatti riusciva a scorgerne il moto distintamente, perché quel popolo ha una vista molto più acuta della nostra. Chiese il parere dei saggi che lo circondavano che risposero in maniera evasiva e lontana dal vero, come il lettore può ben comprendere senza che debba ripetermi, tanto più che non riuscii a capirli del tutto. Fu poi la volta delle monete d’argento e di rame, del borsello con nove grosse monete d’oro ed altre più piccole, del pettine, della tabacchiera d’argento, del fazzoletto e del giornale di bordo. Sciabola, pistole e sacchetto di munizioni furono trasportati con carri all’arsenale di Sua Maestà, mentre le altre cose mi furono restituite.
Come ho già detto sopra, avevo una tasca segreta che era loro sfuggita nella quale tenevo un paio di occhiali (che metto a volte, perché ho la vista debole), un cannocchiale tascabile e diverse altre cosucce che, sapendo che non avrebbero avuto nessuna importanza per l’imperatore, non mi sentii in dovere di mostrare, pur rispettando la parola data; e poi temevo che le avrei perdute o che si sarebbero danneggiate una volta non più in mano mia.
3- L’AUTORE FA DIVERTIRE L’IMPERATORE E I NOBILI DI ENTRAMBI I SESSI
IN MODO STRAORDINARIO. DESCRIZIONE DEI DIVERTIMENTI ALLA CORTE DI LILLIPUT. L’AUTORE OTTIENE LA LIBERTA’ A DETERMINATE CONDIZIONI.
Il garbo e la mitezza del mio comportamento avevano così ben impressionato l’imperatore e la corte e non meno l’esercito e la gente in generale, che cominciai a nutrire qualche speranza di riacquistare in breve la libertà. Non trascurai niente per favorire questo atteggiamento di benevolenza. I nativi avevano poco a poco sempre meno paura che facessi loro del male. Talvolta mi mettevo per terra e facevo danzare cinque o sei di loro sulla mia mano, e alla fine ragazzi e ragazze non ebbero paura di mettersi a giocare a nascondino fra i miei capelli. Avevo ormai fatto notevoli progressi nell’uso della loro lingua. Un giorno l’imperatore volle intrattenermi con parecchi dei loro giochi nazionali, nei quali eccellono su tutti i paesi che ho conosciuto, sia nella abilità che nel fasto. Nessuno mi divertì quanto quello dei funamboli che ballavano su di un sottile filo bianco, lungo un mezzo metro e alto da terra un trenta centimetri. Su questo gioco chiedo al paziente lettore di potermi dilungare un po’.
A praticare questo esercizio sono solo quelle persone candidate a ricoprire cariche elevate o alte onorificenze della corte. Fin da giovani vengono addestrate a questa arte e non tutte sono di sangue nobile o di cultura liberale. Quando una carica di primo piano è vacante, perché il titolare è morto o è caduto in disgrazia, cinque o sei candidati alla successione presentano all’imperatore la richiesta di potere intrattenere Sua Maestà e la corte esibendosi sulla corda. Colui che fa più salti senza cadere, ha diritto a subentrare in quella carica. Molto spesso gli stessi ministri sono obbligati a dare prova della loro bravura, per convincere l’imperatore che sono sempre in possesso della loro abilità. Il tesoriere Flimnap, lo riconoscono tutti, fa capriole sulla corda tesa un centimetro più in alto degli altri nobili dell’impero. L’ho visto fare il salto mortale parecchie volte di seguito, sopra una tavoletta fissata alla cordicella non più spessa di un nostro spago. Dopo di lui viene, se non pecco di parzialità, il mio amico Reldresal, primo segretario agli interni, mentre tutti gli altri funzionari più o meno si equivalgono. Durante i giochi capitano assai spesso incidenti mortali, di cui le cronache sono piene. Ho visto coi miei occhi due o tre candidati rompersi le ossa, anche se il pericolo più grande lo corrono gli stessi ministri che devono comprovare la loro abilità. Perché, presi come sono dall’ambizione di superare se stessi e i loro colleghi, si sforzano a tal punto, che nessuno si salva da qualche capitombolo, che poi sono due o tre per alcuni di loro. Mi venne detto che un anno o due prima del mio arrivo, il tesoriere Flimnap si sarebbe senza dubbio rotto l’osso del collo, se la violenza della caduta non fosse stata attutita da uno dei cuscini del re che per caso si trovava per terra. C’è poi un’altra gara che, in particolari occasioni, si svolge alla sola presenza dell’imperatore, dell’imperatrice e del primo ministro. L’imperatore mette sul tavolo tre sottili fili di seta lunghi dieci centimetri, uno azzurro, uno rosso e uno verde. Questi fili costituiscono i premi per coloro che l’imperatore intende distinguere con un segno caratteristico della sua benevolenza. La cerimonia si svolge nel gran salone di governo, dove i candidati devono sottoporsi ad una prova di abilità assai diversa dalla precedente e di cui non ho visto niente di simile nei paesi del vecchio e del nuovo mondo. L’imperatore tiene in mano un bastone, le cui estremità sono parallele all’orizzonte, mentre i candidati, avanzando l’uno dietro l’altro, a volte saltano sopra il bastone, a volte vi sgusciano sotto, avanti e indietro per parecchie volte, a seconda che il bastone venga alzato o abbassato. Capita che l’imperatore tenga un capo del bastone e il primo ministro l’altro, oppure che sia quest’ultimo tenerlo da entrambe le parti. Colui che svolge il suo esercizio con maggiore scioltezza nel saltare e nello strisciare è ricompensato col filo azzurro, mentre al secondo tocca quello rosso e al terzo quello verde. Essi se li portano avvolti in due giri attorno alla vita e, fra i notabili del regno, sono pochi quelli che non sono in grado di fregiarsi di queste cinture. I cavalli dell’esercito e delle scuderie imperiali, che erano stati addestrati al mio cospetto, non recalcitravano più e mi venivano ai piedi senza dar segno di imbizzarrirsi. Allora stendevo una mano per terra e i cavalieri la saltavano con i loro cavalli; anzi ci fu un cacciatore reale che, in sella a un maestoso destriero, mi saltò il piede, scarpa e tutto, con un balzo straordinario. Un giorno ebbi la ventura di divertire l’imperatore in maniera veramente singolare. Lo pregai di ordinare che mi portassero parecchi bastoni grossi come canne da passeggio e lunghi una sessantina di centimetri. Sua Maestà passò l’ordine al sovrintendente delle foreste, il quale diede a sua volta istruzioni in proposito e il giorno seguente arrivarono sei boscaioli con altrettanti carri trainati ognuno da otto cavalli. Presi nove di questi pali e li infilai saldamente in terra, formando un quadrato della superficie di un novanta centimetri, fissai altri quattro bastoni ad ogni angolo all’altezza di novanta centimetri dal suolo e ad esso paralleli; poi legai il fazzoletto ai nove pali messi per dritto tirandolo da tutti i quattro lati, finché si tese come la pelle di un tamburo, a questo punto i quattro bastoni paralleli, che sovrastavano il fazzoletto di poco, servirono da ringhiera. Finito il lavoro, chiesi all’imperatore che facesse salire su questa piattaforma un gruppo dei suoi migliori cavalleggeri, in tutto ventiquattro, per esercitarsi. Sua Maestà accettò la mia proposta ed io li presi uno ad uno con la mano, cavallo e tutto, con i rispettivi ufficiali di addestramento. Formati i ranghi, si divisero in due squadre dando luogo a finte scaramucce, scagliando frecce spuntate, sguainando le spade, fuggendo e inseguendo, attaccando e battendo in ritirata; in breve, dettero un saggio della più perfetta disciplina militare che avessi mai visto. I bastoni trasversali impedivano che cavalli e cavalieri cadessero sopra al palcoscenico e l’imperatore si divertì a tal punto da ordinare che questi giochi fossero ripetuti per diversi giorni. Una volta si fece sollevare lui stesso per impartire i comandi e, non senza poche difficoltà, persuase la stessa imperatrice a farsi sollevare da me entro la sua portantina, per potere godere la scena a un due metri dalla piattaforma. Per fortuna durante questi spettacoli non avvennero disgrazie; solo una volta un cavallo focoso, che apparteneva ad uno dei capitani, scalpitando, lacerò con lo zoccolo il fazzoletto facendoci un buco e, mancandogli il piede, ruzzolò insieme al cavaliere, ma venni subito loro in aiuto. Con una mano infatti tappai il foro, mentre con l’altra misi a terra le squadre allo stesso modo in cui le avevo fatte salire. Il cavallo che era caduto si slogò la spalla sinistra, ma il cavaliere se la cavò senza un graffio e a me non rimase che rammendare alla meglio il fazzoletto, deciso d’ora in poi a non fidarmi più della sua resistenza in imprese tanto pericolose.
Due o tre giorni prima della mia liberazione, mentre intrattenevo la corte con questa specie di spettacoli, arrivò un corriere per informare Sua Maestà che alcuni dei suoi sudditi, mentre cavalcavano nelle vicinanze del luogo dove ero stato catturato, avevano scorto una gran roba nera distesa al suolo, dalla forma strana, alta come una persona nel mezzo e larga come la camera da letto imperiale. Non si trattava di una cosa viva, come avevano supposto in un primo momento, perché giaceva immobile sull’erba, sebbene alcuni di loro vi avessero girato attorno varie volte. Salendo uno in groppa all’altro avevano raggiunto la cima che era apparsa piatta e liscia mentre, camminandoci sopra, si era dimostrata cava. Ritenevano che si trattasse di un qualchecosa appartenente all’Uomo Montagna e, col beneplacito di Sua Maestà, prendevano l’impegno di trasportarla a corte con cinque cavalli. Capii subito cosa avevano trovato, e in cuor mio, mi rallegrai della notizia.
Quando dopo il naufragio avevo guadagnato la riva, ero talmente frastornato che, prima di raggiungere il luogo dove mi ero addormentato, dovevo aver perso il cappello che pure mi ero legato al capo con un sottogola quando ero sulla barca e che non si era slacciato per tutto il tempo che avevo nuotato. Per qualche accidente casuale, il laccio si era rotto e ero convinto di averlo perso in mare. Pregai Sua Maestà di disporre che mi fosse riportato il prima possibile, dopo avergli descritto la natura e l’uso di quell’indumento. Il giorno dopoo, infatti, eccomelo trascinato dai carrettieri, sebbene non si potesse dire che fosse in buono stato. Nella falda, a un paio di centimetri dall’orlo, avevano fatto due buchi nei quali avevano infilato due uncini e questi, a loro volta, erano legati con una lunga corda ai finimenti dei cavalli. E così il mio cappello era stato trascinato per più di mezzo miglio inglese. Comunque devo dire che rimase danneggiato molto meno del previsto, grazie all’uniformità e levigatezza di quella terra. Due giorni dopo questo avvenimento, venne ordinato all’esercito acquartierato dentro e tutto intorno alla capitale lo stato di all’erta, perché all’imperatore era venuto il ticchio di divertirsi in modo assai strano. Volle che mi piazzassi ritto e a gambe il più possibile divaricate, come il Colosso di Rodi. Quindi ordinò al suo generale, vecchio condottiero pieno di esperienza, e mio gran protettore, di schierare le truppe a ranghi serrati e di farle sfilare sotto di me al rullo dei tamburi: la fanteria in file di ventiquattro e la cavalleria di sedici, con le bandiere al vento e lance in resta. In tutto erano tremila fanti e un migliaio di cavalieri. Sua Maestà ordinò, pena la morte, che ogni soldato si attenesse al più stretto senso di decenza nei miei confronti, anche se alcuni degli ufficiali più giovani alzarono lo stesso gli occhi mentre mi passavano sotto. E devo dire che i miei calzoni erano allora così mal ridotti, che non mancarono occasioni di riso e di meraviglia. Avevo inviato tanti memoriali e petizioni per ottenere la libertà, che alla fine l’imperatore ne parlò prima nel gabinetto privato e poi nella seduta plenaria del consiglio, dove nessuno si oppose ad eccezione di Skyresh Bolgolam che si compiaceva, senza che lo avessi mai provocato, di essere mio nemico mortale. Ma tutto il consiglio gli votò contro e l’imperatore sanzionò la decisione. Questo ministro era “galbet”, o ammiraglio del regno, godeva la cieca fiducia del sovrano ed era molto capace nei suoi compiti sebbene fosse una persona dal carattere acido e rude. Alla fine lo convinsero ad acconsentire, ma lui ottenne in cambio di stilare gli articoli e le condizioni che regolavano la mia libertà e sui quali ero tenuto a giurare. Fu lo stesso Skyresh Bolgolam, seguito da due sottosegretari e da diverse persone di rango, a portarmi il documento con gli articoli in oggetto. Dopo che mi furono letti, mi chiesero di giurare fedeltà ai patti, prima secondo il costume della mia patria, quindi nel loro, il quale consisteva nel tenermi il piede destro con la mano sinistra, mettendo il dito medio della destra sul cucuzzolo e il pollice sulla punta dell’orecchio sinistro. E poiché il lettore può essere curioso di conoscere approssimativamente lo stile e le maniere espressive di quel popolo, nonché gli articoli alle cui condizioni ottenni la libertà, ho tradotto l’intero documento, parola per parola, e ora lo presento al pubblico:
“GOLBASTO MOMAREN EVLAME GURDILO SHEFIN MULLY ULLY GUE, potentissimo imperatore di Lilliput, delizia e terrore dell’universo, i cui possedimenti si estendono per cinquemila “blustrug” (una circonferenza di circa dodici miglia) ai confini del globo; monarca di tutti i monarchi, più alto di tutti i figli dell’uomo, i cui piedi calpestano il centro dell’universo e la cui testa batte contro il sole, al cui cenno i principi della terra si sentono tremare le ginocchia; dolce come la primavera, propizio come l’estate, ferace come l’autunno, terribile come l’inverno; Sua Maestà Altissima propone all’Uomo Montagna, giunto recentemente nei nostri celesti domini, i seguenti articoli che egli si impegna a rispettare con giuramento solenne.
1. L’Uomo Montagna non partirà dai nostri domini senza nostra autorizzazione, munita del gran sigillo.
2. Non potrà permettersi di entrare nella capitale senza nostro specifico ordine, nel qual caso verrà dato un preavviso di due ore agli abitanti per ripararsi in casa.
3. Il suddetto Uomo Montagna limiterà le proprie passeggiate alle strade principali e più spaziose ed eviterà di camminare o sdraiarsi sui prati o sui campi di grano.
4. Mentre percorre le strade sopraddette avrà la massima cura di non calpestare i nostri amati sudditi, cavalli e carri; né potrà prendere in mano alcuno, senza suo permesso.
5. Se si dà il caso di dover trasmettere una notizia urgente, l’Uomo Montagna dovrà portare nella sua tasca ambasciatore e cavallo, per un viaggio di sei giorni ogni luna, e, se richiesto, riportare al cospetto di Sua Maestà detto ambasciatore sano e salvo.
6. Sarà nostro alleato contro il nemico dell’isola di Blefuscu e farà quanto sarà in suo potere per distruggerne la flotta che è in procinto di invaderci.
7. Nei momenti di ozio, detto Uomo Montagna darà assistenza ai nostri operai, aiutandoli a sollevare le pietre più grosse per terminare il muro del parco principale ed altri nostri edifici reali. Detto Uomo Montagna dovrà fornirci, nel tempo di due lune, l’esatta misura dei nostri territori contando i passi tutt’intorno alla costa. Per ultimo, dietro solenne giuramento di rispettare i sopracitati articoli, detto Uomo Montagna riceverà giornalmente una provvigione di cibo e di bevande sufficiente al mantenimento di 1728 dei nostri sudditi; avrà libero accesso alla nostra Augusta Persona e riceverà altri segni della nostra benevolenza. Dato nel nostro Palazzo di Belfoborac il dodicesimo giorno della novantesima luna del nostro regno.”
Fu con somma gioia che giurai e sottoscrissi queste clausole, per quanto alcune di esse non fossero tanto onorevoli quanto avrei desiderato, frutto esclusivamente della malevolenza dell’alto ammiraglio Skyresh Bolgolam. Mi furono dunque tolte le catene e fui completamente libero, l’imperatore in persona mi fece l’onore di presiedere all’intera cerimonia. Gli dimostrai tutta la mia riconoscenza prostrandomi ai suoi piedi, ma lui mi ordinò di alzarmi; poi, dopo molte parole piene di benevolenza, che taccio per non apparire vanitoso, aggiunse di sperare che sarei stato un utile servitore e che avrei ben meritato quei segni di favore che mi aveva già manifestato o che avrei potuto ancora ricevere in futuro. Non sarà sfuggito al lettore che nell’ultima clausola concernente la mia liberazione, l’imperatore si impegnava a fornirmi tanto vitto quanto bastava al mantenimento di 1728 lillipuziani. Qualche tempo dopo, quando chiesi a un amico cortigiano in che modo avevano stabilito quel numero, mi rispose che i ragionieri di Sua Maestà, misurata l’altezza del mio corpo per mezzo di un quadrante, rilevando che essa stava alla loro nella proporzione di dodici a uno, tratta la conclusione che, vista la somiglianza dei corpi, il mio doveva contenerne almeno 1728 dei loro, avevano stabilito che questo aveva bisogno di tanto cibo quanto ce ne voleva per mantenere quel numero di lillipuziani.
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