La mia piccola bambinaia teneva  le  stoviglie  in  una  cassettina d’argento che si portava in tasca,  tirandole fuori all’ora dei pasti e avendo cura di pulirle  di persona.  Con  la  regina  pranzavano  solo  le due principessine,  la maggiore di sedici anni e la più piccola di tredici e un mese.  Sua Maestà mi metteva sul  piatto  un  pezzetto  di  carne  ed  io  ne tagliavo una piccola porzione,  ma il suo divertimento era proprio nel vedere quel pranzo in miniatura,  dal momento che lei (che pure era di stomaco  delicato) in un solo boccone ingoiava quanto possono mangiare una dozzina di mietitori inglesi al pranzo della battitura,  una vista che qualche volta non mancava di darmi il voltastomaco. Stritolava fra i denti un’ala d’allodola, ossa e tutto, sebbene nove volte più grossa di  un  tacchino  cresciuto,  accompagnandola con un pezzo di pane più grande di un paio di pagnotte da dodici pence.  Beveva  in  un  calice d’oro e ad ogni sorso mandava giù il contenuto d’una botte. I coltelli erano  grandi  il doppio di una falce considerando anche il manico,  e della stessa proporzione erano le altre posate.  Ricordo che una volta Glumdalclitch mi portò a fare il giro delle altre tavole apparecchiate dove c’erano una dozzina di coltelli e forchette portentose in azione; devo  dire  di  non  aver  mai  visto  in  vita  mia  una  scena tanto terrificante.

Tutti i mercoledì (che, come ho già detto,  è il loro giorno festivo), la  regina  e  i  figli  di  tutti  e  due  i sessi facevano colazione nell’appartamento del re;  e poiché ero diventato il suo favorito,  in queste  occasioni  il mio tavolino veniva sistemato alla sua sinistra, davanti alla saliera.  Al re piaceva moltissimo conversare con me e mi chiedeva dei costumi,  della religione,  della legge, della politica e della cultura europea,  mentre cercavo di rispondergli  nella  maniera più  esauriente.  Aveva  un’intelligenza così lucida ed una facoltà di giudizio così esatta,  che faceva riflessioni ed osservazioni sagge su quanto gli raccontavo.  Ma devo tuttavia confessare che,  un giorno in cui mi ero dilungato un po’ troppo a parlare della mia patria diletta, dei nostri commerci,  delle guerre per terra e per mare,  degli scismi religiosi,  dei  partiti,  i pregiudizi della sua educazione presero a tanto il sopravvento,  che non poté fare a meno di prendermi sul palmo della  mano e,  accarezzandomi scherzosamente con l’altra e ridendo di cuore, di chiedermi se ero un “whig” o un “tory”. Quindi, rivolgendosi al primo ministro,  che stava in piedi accanto a lui  con  un  bastone bianco  in  mano,  alto  più  dell’albero maestro della nave reale “La Sovrana”,  disse malinconicamente che l’umana grandezza era  ben  poca cosa,  se  minuscoli  insetti come me potevano arrogarsene il diritto:

“Eppure scommetto,” aggiunse poi,  che anche questi esserini  hanno  i loro bravi titoli e le cariche onorifiche, costruiscono piccoli nidi e catapecchie  che  chiamano  case e città;  ostentano vesti e carrozze, fanno all’amore,  combattono,  disputano,  truffano,  tradiscono...” E continuò  di  questo passo mentre sentivo il sangue salirmi alla testa al solo sentire disprezzata la nostra  nobile  patria,  maestra  nelle arti e nelle armi,  sferza della Francia, arbitra dell’Europa, sede di tutte le virtù,  della pietà,  dell’onore,  della verità,  orgoglio ed invidia dell’universo.

Ma  poiché  non  ero  in  condizioni  di  rintuzzare  queste ingiurie, pensandoci sopra  cominciai  a  dubitare  di  essere  stato  realmente offeso.  In  effetti,  dopo  essermi  abituato  per  mesi a vedere e a conversare con quella gente,  a  osservare  oggetti  proporzionalmente maestosi,  il  primitivo  sgomento  provato al cospetto di quelle moli gigantesche era in me  tanto svanito che,  se avessi visto  allora  un gruppo  di signori inglesi con le loro dame,  vestiti con il lusso più sfarzoso, che recitavano il rituale di corte pavoneggiandosi, facevano riverenze,  cinguettando fra di loro,  a dire  la  verità  mi  sarebbe venuta  una  gran  voglia  di ridere loro in faccia,  così come questo sovrano e i suoi dignitari avevano fatto nei miei  confronti.  D’altra parte  non  potevo  trattenermi  dal  sorridere  anche  di  me stesso, allorché la regina,  prendendomi in  mano,  mi  metteva  davanti  allo specchio,  attraverso il quale vedevo contemporaneamente le nostre due figure;  ed era così ridicolo quel confronto,  che credevo di  essermi rimpicciolito rispetto alle mie normali dimensioni.  Nulla  mi mandava più in bestia e mi mortificava del nano della regina che,  essendo la creatura più piccola di quel  regno  (credo  che  non fosse  più  alto  di  nove  metri),  al  vedere  un  intruso tanto più minuscolo di lui, era diventato di un’insolenza insopportabile. Quando mi passava vicino nell’anticamera della regina,  mentre  me  ne  stavo discorrendo con signore e signori di corte, non mancava mai di fare il gradasso  e  di pavoneggiarsi,  o di lanciarmi qualche battuta cocente sulla mia statura.  A mia volta lo chiamavo fratello,  lo  invitavo  a farsi  sotto,  con altre stoccate pungenti che usano i paggi di corte.  Un giorno a pranzo questo maligno nanerottolo,  preso dalla stizza per qualche  mio  motto  arguto,  salito  sul  tramezzo  della sedia della regina,  mi afferrò per la vita e mi  gettò  in  una  tazza  di  panna dandosela  a  gambe.  Affondai  fin sopra la testa e me la sarei vista brutta,  se non fossi stato un nuotatore provetto,  tanto più  che  in quel  momento Glumdalclitch si trovava dall’altra parte della stanza e la regina era così terrorizzata,  che non ebbe la presenza di  spirito di aiutarmi. Per fortuna la mia piccola bambinaia mi venne in soccorso tirandomi  fuori,  dopo  che  avevo  ingoiato un bel po’ di panna.  Mi misero subito a letto,  anche se  tutto  il  danno  si  risolse  nella perdita del mio abito,  irrimediabilmente imbrattato. Il nano si buscò una buona dose di frustate e fu costretto a trangugiare tutta la tazza di panna;  inoltre da quel giorno non rientrò  più  nei  favori  della regina, che, poco dopo, lo affidò ad una dama di alto rango. Fu quella l’ultima  volta  che  lo  vidi,  con  mia grande gioia,  perché non so immaginare a che punto di malvagità avrebbe potuto  spingerlo  il  suo livore.

Già  un’altra  volta  mi aveva giocato un tiro mancino che aveva fatto ridere la regina di cuore,  non senza indignarla subito dopo e  a  tal punto  che,  se non avessi generosamente interceduto per lui,  sarebbe stato cacciato immediatamente.  Sua Maestà aveva preso un osso buco e, vuotatolo  del  midollo,  l’aveva rimesso sul piatto per dritto,  come stava prima;  il naso colse il momento a volo e,  mentre Glumdalclitch era vicino alla credenza, salì sul suo sgabello, mi prese per le gambe e mi infilò fino al petto dentro all’osso,  dove rimasi a dondolare in quella posizione ridicola.  Mettermi a urlare mi sembrava  indecoroso, così  per  qualche istante gli altri non si resero conto di quello che mi era sussesso.  Per fortuna i principi non mangiano mai cibi  troppo caldi,  così  che  non riportai scottature alle gambe,  sebbene avessi ridotto calze e pantaloni in uno stato pietoso.  Per mia intercessione il nano se la cavò con una frustata.

Succedeva  spesso  che  la  regina si prendesse gioco di me per la mia paura e mi chiedeva se i miei compatrioti fossero altrettanto codardi.  Era dovuto al fatto che  quella  terra  è,  in  estate,  letteralmente invasa  dalle  mosche  e  quegli  insetti  ripugnanti,  grossi come le allodole di Dunstable,  non mi davano pace durante il  pranzo  con  il loro ronzio,  anzi spesso si posavano sul mio cibo lasciandovi uova ed escrementi che apparivano in bella vista ai miei occhi,  non a  quelli degli  altri  commensali  dotati  di una vista più lunga ma molto meno acuta della mia.  A volte mi si posavano sul naso o sulla fronte e  mi punzecchiavano sul vivo con quel loro tanfo repellente, mentre seguivo con  gli  occhi  quella  materia  purulenta  grazie  alla quale,  come affermano i naturalisti, possono camminare sul soffitto. Avevo un gran daffare per difendermi contro questi animali ripugnanti e  non  potevo fare a meno di sobbalzare quando mi si posavano sul volto.  Il nano si divertiva a catturare diverse mosche,  come fanno da noi gli  scolari, per  liberarle  poi  tutte  insieme sotto il mio naso,  con mia grande paura e divertimento della regina.  Allora cercavo  di  dar  loro  una stoccata  al  volo,  con  grande  abilità  che  destava  l’ammirazione generale.

Ricordo che una mattina Glumdalclitch mi  aveva  messo  sul  davanzale della finestra con la mia cassettina, come faceva sempre nei giorni di bel tempo per farmi prendere un po’ d’aria;  non volevo infatti che la cassetta fosse appesa ad un chiodo come si fa in  Inghilterra  con  le stie. Avevo appena aperto una finestra e mi ero seduto a tavola a fare colazione  con un pezzo di torta,  quando un nugolo d vespe,  attratte dall’odore, entrò nella stanza con un ronzio forte simile a quello dei bordoni di cento cornamuse. Alcune ridussero in briciole la torta e se la portarono via,  altre si misero  a  girarmi  intorno  alla  faccia, stordendomi con il frastuono,  terrorizzandomi con i loro pungiglioni.  Con un atto di coraggio riuscii a estrarre la spada e a attaccarle  in volo;  ne uccisi quattro, mentre le altre volarono via, dopo di che mi precipitai a chiudere la  finestra.  A  questi  insetti,  grossi  come pernici,  tolsi i pungiglioni, lunghi quattro centimetri e aguzzi come aghi.  Li conservai per ricordo e,  dopo averli  mostrati  in  diversi paesi  europei  insieme ad altre rarità al mio ritorno in Inghilterra, ne regalai tre al Gresham College conservando il quarto per me.

 

 

 

 

 

 

 

4 -                        DESCRIZIONE DEL  PAESE.  UNA  PROPOSTA  PER  CORREGGERE  LE  CARTE GEOGRAFICHE.  IL PALAZZO REALE E LA CAPITALE.  MODO TENUTO DALL’AUTORE NEL VIAGGIARE. DESCRIZIONE DELLA CATTEDRALE.

 

Vorrei fornire al lettore una breve descrizione di questo  paese,  nei limiti  delle  mie  esperienze  di  viaggio,  che coprirono un duemila miglia tutto intorno  alla  capitale  Lorbrulgrud.  Facevo  parte  del seguito  della  regina  che,  quando  accompagnava  il  re  nelle  sue ispezioni,  non oltrepassava mai  questo  limite,  ma  si  fermava  ad aspettarlo fino al suo ritorno dalle frontiere.  I territori di questo sovrano si estendono per quasi seimila miglia in lunghezza e da tre  a cinquemila  miglia in larghezza.  Dal che deduco che i nostri geografi commettono un errore grossolano,  quando credono che tra il Giappone e la  California  ci sia solo acqua.  Sostengo al contrario che deve pur esserci una terra che controbilanci il gran continente della Tartaria, per cui oggi dovrebbero correggere le loro carte,  aggiungendo  questa larga fascia di terra con il settore nord-occidentale dell’America, ed io sono disposto a dare loro una mano.

Questo  regno è una penisola delimitata ad oriente e a settentrione da una catena di montagne alte trenta miglia,  rese invalicabili da tutta una serie di vulcani. Nemmeno i più saggi hanno la più pallida idea se al  di  là di queste montagne viva una qualche razza di uomini e quale essa sia. Per i tre quarti la penisola è lambita dal mare, ma in tutto il regno non c’è un porto,  tanto più che agli estuari  dei  fiumi  le coste sono talmente punteggiate di scogli e il mare che vi si frange è così  impetuoso,  che nessuno vi si è mai avventurato,  nemmeno con un canotto: ne deriva che questi  popoli  sono  tagliati  fuori  da  ogni contatto  con  il  resto del mondo.  Ma all’interno i fiumi più grandi sono un’ottima via di commercio e  ricchissimi  di  pesce;  è  infatti assai raro che questa gente peschi pesci di mare, che hanno più o meno le  stesse  dimensioni  di  quelli  europei e sono per loro una misera frittura.  Da questo si può dedurre che la  natura  ha  scelto  questa terra  per  dare  una  dimostrazione  della  propria  potenza  con  la creazione di  piante  ed  animali  giganteschi,  anche  se  lascio  ai filosofi spiegarne la ragione.  Succede comunque che di tanto in tanto questa gente catturi una balena che sia  andata  a  incagliarsi  sugli scogli e che costituisce per loro un ottimo cibo.  Si tratta di balene mostruose che un uomo riesce a stento a trasportare sulle spalle e che spesso vengono portate nella capitale ed esposte come pesce  pregiato.  Una  di  queste  venne  servita  alla mensa reale,  anche se al re non piacque molto,  nauseato forse dalla sua grandezza che,  in ogni caso, non raggiungeva quella di certe balene che ho visto in Groenlandia.  Questa  è  una terra molto popolata e infatti conta cinquantuno città, un centinaio di cittadelle circondate  da  mura,  oltre  a  un  numero imprecisato di villaggi.  Per dare un’idea al sagace lettore,  basterà che gli descriva Lorbrulgrud,  la vasta capitale che si estende in due parti  pressoché uguali sulle sponde di un fiume fino a comprendere un totale di ottomila case.  Ha un’estensione che in lunghezza  arriva  a tre  “glonglungs”  (una loro misura che corrisponde a cinquantaquattro miglia) e in larghezza a due e mezzo. Ho tratto le misura dalla pianta reale della città,  disegnata dall’ordine reale dei topografi,  grande una trentina di metri.  Perché la potessi misurare agevolmente,  me la distesero per terra ed io,  a piedi scalzi,  calcolai il diametro e la circonferenza e, tenendo presente la scala, credo di avere dato misure esatte.

Il  palazzo  reale non è formato da un’unica costruzione,  bensì da un gruppo di edifici che si estendono  per  una  circonferenza  di  sette miglia. I saloni principali sono alti settantacinque metri e lunghi in proporzione. Quando Glumdalclitch usciva con la sua governante per una passeggiata o per far compere,  veniva loro assegnata una carrozza; in genere mi univo alla compagnia, chiuso nella mia scatola,  o assai più spesso  in  mano  alla  bambina  che  mi mostrava i palazzi e la folla durante il percorso.  Sebbene non ne sia matematicamente certo,  credo che  la nostra carrozza fosse grande come Westminster-Hall e appena un po’ più bassa.

Un giorno la governante  fece  fermare  la  carrozza  davanti  a  vari negozi,  dove mi capitò di osservare le scene più orrende mai viste da occhio europeo: c’era una donna  con  un  tumore  al  petto,  che  era cresciuto  in  maniera  mostruosa,  tutto  pieno di buchi in molti dei quali sarei potuto precipitare tutto lungo;  un uomo aveva una verruca sul  collo  più  grossa  di cinque sacchi di lana;  un altro poi aveva gambe di legno alte sei metri.  Ma lo spettacolo  più  ripugnante  era costituito  dai  pidocchi che brulicavano sulle loro vesti,  tanto più che vedevo questi insetti distintamente, con tutte le parti del corpo, mentre grufolavano con i grugni porcini,  molto meglio  di  quanto  si possono studiare al microscopio i pidocchi europei. Era la prima volta che  mi si mostrava una tale scena e avrei desiderato dissezionare uno degli insetti, se per disgrazia non avessi lasciato i miei strumenti e i bisturi sulla nave,  sebbene quella vista repellente mi  avesse  già dato il voltastomaco.

Oltre alla cassetta solita,  la regina volle che me ne fosse costruita una più piccola, di un tre metri per due, più maneggevole per i viaggi e tale da non stancare Glumdalclitch, che la portava in grembo,  e per non  ingombrare  la carrozza.  Come già era accaduto per la prima,  fu eseguita dal solito artigiano,  che seguiva i  miei  suggerimenti.  Si trattava di una cassettina da viaggio, perfettamente quadrata, con una finestra  al  centro  di  tre  delle  pareti,  protetta  da  grate per prevenire  incidenti  nei  lunghi  viaggi.  All’esterno  della  quarta parete, priva di finestre, erano fissati due anelli attraverso i quali il  portatore  infilava  una  cinghia  di  cuoio che poi si allacciava attorno al torace.  Il compito di portarmi sulle spalle in questa  mia cassettina  era  delegato,  in  assenza  di  Glumdalclitch,  a qualche servitore fidato e serissimo,  sia che facessi parte del  seguito  che accompagnava  i reali nei loro viaggi,  o che discendessi con loro nei giardini,  o mi recassi a far visita a qualche grande dama o a qualche ministro  di  stato.  Infatti  i  nobili  del  regno  erano entrati in confidenza con me e mi stimavano, forse più per il favore dimostratomi dal re che per mio merito.  Quando,  durante i viaggi,  la carrozza mi veniva  a  noia,  un  servo  a  cavallo  si allacciava al petto la mia scatola,  posandola su di un cuscino innanzi a lui e da quella altezza mi potevo godere,  attraverso le tre finestre, una completa panoramica del paesaggio.  Questa cassetta portatile era dotata di un lettino  da campo,  un’amaca sospesa al soffitto, un tavolino e due sedie, fissati al pavimento per evitare che venissero gettati qua e là dagli scossoni del cavallo o del  calesse.  A  me,  d’altra  parte,  quel  beccheggio violento   non   dava   un   gran  fastidio,   abituato  com’ero  agli interminabili viaggi di mare.

Se poi mi pigliava il  pallino  di  fare  un  giretto  per  la  città, Glumdalclitch  si  teneva in grembo la cassettina stando seduta in una portantina aperta,  come si usa in quei  luoghi,  portata  da  quattro uomini  e  affiancata da altri due in livrea di corte.  La gente,  che aveva sentito parlare di me, si affollava intorno alla portantina;  la bambina allora faceva fermare i lacchè e, presomi in mano, mi mostrava tutt’intorno.

Volevo vedere la cattedrale e soprattutto il suo campanile,  che tutti dicono sia la torre più alta del regno.  La mia  bambinaia  un  giorno volle  accontentarmi  e  mi  condusse a vederlo,  anche se ne ritornai deluso,  perché da terra alla guglia  non  supera  i  trecento  metri, un’altezza  che  in  fondo,  considerata  la differenza fra loro e noi europei, non è che faccia restare a bocca aperta e tale da non reggere il confronto,  fatte  le  debite  proporzioni,  con  il  campanile  di Salisbury,  se  non  vado  errato.  Non voglio con questo degradare in alcun modo quel paese,  al quale mi sentirò  obbligato  per  tutta  la vita,  perché,  quanto  a  quella  torre  mancava  in altezza,  veniva recuperato ampiamente in bellezza e in imponenza.  Le mura,  in pietra viva,  hanno uno spessore di trenta metri ed ogni bozza è dodici metri quadrati; esse sono adornate da ogni parte da statue marmoree di dei e imperatori, più grandi che al vero, sistemate dentro delle nicchie. Il caso volle che misurassi un mignolo  che,  caduto  da  una  di  quelle statue,  giaceva  tra  la  spazzatura  senza  che  nessuno se ne fosse accorto;  esso aveva la rispettabile lunghezza di un  metro  e  mezzo.  Glumdalclitch  lo avvolse in un fazzoletto e se lo portò a casa,  dove lo ripose fra altri gingilli di cui era molto gelosa,  come fanno  del resto le bambine di quell’età.

Le cucine reali sono un bell’esempio di architettura, alte un duecento metri  e  ricoperte a volta.  Il forno principale è un dieci passi più basso della cupola di San Paolo a Londra,  che  al  mio  ritorno  sono andato di proposito a misurare.  Ma se mi dovessi mettere a descrivere l’attaccapentole, i tegami, le cuccume,  gli spiedi che giravano con i loro arrosti,  forse non mi credereste ed anzi qualcuno mi accuserebbe di esagerare, come fanno spesso i viaggiatori. Ed invece,  proprio per evitare  questa tentazione,  sono andato all’estremo opposto;  tanto è vero che,  se mai questo libro dovesse essere tradotto nella lingua di Brobdingnag  (che è il nome di questo regno) e fosse inviato in questo paese, non mancherebbe il risentimento del re e del suo popolo, che ho in qualche modo offeso dandone una rappresentazione riduttiva.  Le stalle reali accolgono fino a un massimo di seicento cavalli,  alti una  ventina  di  metri.  Quando  il  re percorre la città per qualche festività solenne,  è scortato da una guardia d’onore  di  cinquecento cavalli;  non credevo di aver mai visto nulla di più grandioso, finché non mi capitò di vedere parte del suo esercito in ordine di battaglia; ma ci sarà un’altra occasione per parlarne.

 

5 -AVVENTURE DELL’AUTORE. UN’ESECUZIONE CAPITALE.  L’AUTORE DA’ PROVA DELLA SUA ABILITA’ DI MARINAIO.

 

Racconterò alcune di quelle avventure imbarazzanti e ridicole a cui mi esponeva la minuscola statura in quella terra nella quale,  per altro, avrei potuto vivere abbastanza felice. Glumdalclitch aveva l’abitudine di portarmi spesso con la mia cassettina nei giardini di corte, anzi a volte mi faceva uscire,  prendendomi in mano o facendomi camminare per terra.  Ricordo  che  un  giorno il nano ci venne dietro (naturalmente avvenne prima che fosse cacciato dalla reggia) e poiché la mia custode mi aveva posato per terra,  il nano ed io ci trovammo gomito a  gomito sotto  un  filare  di  meli  nani,  e  non  voglio  con questa sciocca allusione fare l’arguto,  come accade spesso in questo  e  nel  nostro paese. Quel mascalzone aspettò che, mentre passeggiavo, passassi sotto uno di quegli alberi, per scrollarmelo sulla testa. Sentii una dozzina di  mele,  grosse  come  botti di Bristol,  fischiarmi nelle orecchie, finché una mi cadde sulla schiena mentre  stavo  chino,  buttandomi  a terra.  Per  fortuna  non  mi  fece  granché e volli che il nano fosse perdonato, perché ero stato io a provocarlo.  Un altro giorno Glumdalclitch mi depose in un prato soffice  e  liscio perché  mi  svagassi,  mentre  lei  passeggiava  nei  paraggi  con  la governante.  Nel frattempo venne uno scroscio di grandine che mi gettò a  terra  e  i chicchi mi coprirono il corpo di lividi così grandi che sembrava quasi che fossi stato lapidato con palle da  tennis.  Riuscii comunque  a  strisciare  carponi fin sotto una siepe di timo,  dove mi distesi supino dalla parte sottovento. Ma ero così ammaccato da capo a piedi, che per dieci giorni dovetti restare tappato in casa. E non c’è da meravigliarsene, perché la natura in quei luoghi rimane in ogni suo azione fedele alle proporzioni,  cosìcche  un  chicco  di  grandine  è ottocento volte più grosso di un chicco europeo;  ve lo posso dire per esperienza, perché ho voluto togliermi lo sfizio di misurarli.  Ma in quello stesso giardino  mi  accadde  di  peggio.  Un  giorno  la piccola custode,  acconsentendo alle mie insistenze di essere lasciato solo  per  un  po’  con  i  miei  pensieri,  mi  depose  in  un  luogo apparentemente sicuro e,  avendo lasciato a casa la scatola, raggiunse la governante e altre signore in  un’altra  parte  del  giardino.  Era ormai abbastanza lontana da non potermi più sentire, quando capitò nei paraggi  il  barboncino bianco del giardiniere.  Dopo avere fiutato in giro, il cane mi trovò e, presomi in bocca, corse dal suo padrone e mi depose scodinzolando felice ai suoi piedi. Per fortuna era un cane ben ammaestrato e mi portò fra i denti senza il minimo graffio o la minima lacerazione delle vesti.  Ma non potete immaginare la paura del povero giardiniere che mi conosceva bene ed era stato sempre gentilissimo nei miei confronti.  Quando mi sollevò fra le mani e mi chiese come stavo, ero così frastornato, senza fiato,  da non riuscire a dire una parola.  Quando dopo poco mi ripresi, il giardiniere mi portò dalla mia custode che,  nel frattempo,  essendo ritornata a cercarmi nel luogo di prima, stava sulle spine perché non riusciva a vedermi né a farsi sentire. Lì per lì se la prese con il giardiniere,  ma la cosa fu messa a tacere e non fu mai risaputa a corte per non far arrabbiare la regina. Da parte mia non mi opposi di sicuro,  per non rovinarmi la reputazione con ciò che era accaduto.

Questo incidente indusse in ogni caso Glumdalclitch a non fidarsi  mai e  a  non  perdermi  di vista.  Questa era una decisione che temevo da tempo, infatti le avevo nascosto via via certi incidenti non gravi, ma spiacevoli, che mi erano capitati. Una volta un nibbio, librandosi sul giardino,  fece una picchiata  proprio  su  di  me  e  se  non  avessi sguainato  la  spada andandomi a nascondere sotto una folta siepe,  mi avrebbe  portato  via  tra  gli  artigli.   Un’altra  volta  camminavo sull’orlo di un buco di talpa scavato di fresco,  quando vi precipitai dentro fino al collo e  dovetti  inventare  non  so  quale  bugia  per giustificare  gli  abiti infangati.  Mi capitò anche di sbucciarmi gli stinchi andando a sbattere contro il guscio di una lumaca, mentre solo soletto pensavo alla mia povera Inghilterra.  Non so dire se fosse per me più piacevole o mortificante  vedere  che, durante quelle passeggiate solitarie,  nemmeno i passeri avevano paura di me, mentre mi venivano intorno in cerca di vermiciattoli e di altro cibo,  con sovrana indifferenza.  Ricordo che un tordo arrivò al punto di  portarmi  via di mano un pezzo di torta che Glumdalclitch mi aveva dato per colazione.  Se poi cercavo di catturare  qualcuno  di  questi uccelli,  mi si rivoltavano contro tentando di pizzicarmi le dita, che tenevo fuori della loro portata,  per poi tornarsene  pacificamente  a saltellare  qua  e    in  cerca  di  vermi e di lumache.  Un giorno, procuratomi un robusto randello,  riuscii ad assestare un bel colpo ad un  fanello che precipitò a terra stordito;  lo presi per il collo con entrambe le mani per portarlo trionfante alla mia piccola custode.  Ma l’uccello,  ripresosi  dallo stordimento,  cominciò a sbattermi le ali sul volto e su tutto il corpo  così  impetuosamente  che,  sebbene  lo tenessi  lontano a braccia distese,  anche per evitare i suoi artigli, fui più di una volta  sul  punto  di  lasciarlo  andare.  Per  fortuna accorse  uno  dei  servi  che gli dette una bella tirata di collo e il giorno dopo mi fu servito a pranzo per volere della regina.