Alla fine,  e non senza difficoltà,  la buona donna capì ciò che volevo, per cui, presomi di nuovo in mano, mi portò  in  giardino  deponendomi di nuovo per terra.  Corsi a duecento metri di distanza,  le feci segno di non seguirmi e  di  non  guardare dalla mia parte,  poi, nascostomi fra due foglie d’acetosa, mi liberai dei miei bisogni.

Spero che il benevolo lettore vorrà scusarmi se mi soffermo su  simili particolari i quali, per quanto insignificanti possano apparire ad una mente  meschina  e volgare,  saranno certamente di valido aiuto per il filosofo che voglia allargare l’orizzonte dei suoi  pensieri  e  della sua  immaginazione  e renderli utili al bene sia pubblico che privato.  Nel presentare infatti questa ed  altre  relazioni  dei  miei  viaggi, nelle  quali  raccontato la verità,  senza fare ricorso agli ornamenti della lingua, dello stile e della cultura, è stato questo il mio unico scopo.  Ma proprio questo viaggio mi ha,  nel suo complesso,  talmente colpito  l’immaginazione  e  mi è rimasto così impresso nella memoria, che, trasferendolo nella scrittura, non ho omesso il minimo dettaglio.  E’ stato solo ad una rilettura  del  mio  scritto  che  ho  cancellato alcuni  passi  di  scarsa  importanza,  per  non  essere  accusato  di raccontare cose noiose e insignificanti, che spesso si imputano, e non a torto, ai racconti dei viaggiatori.

 

2 -LA FIGLIA DELL’AGRICOLTORE.  L’AUTORE E’ PORTATO AL MERCATO E  POI NELLA CAPITALE. I PARTICOLARI DEL VIAGGIO.

 

La  mia padrona aveva una figlia di nove anni,  una bambina saggia per la sua età,  che sapeva cucire benissimo e con grazia i vestiti per la bambola.  Lei e sua madre sistemarono la culla della bambola facendone il giaciglio dove potessi trascorrere la notte,  poi misero  la  culla nel cassetto di una credenza e questo fu appeso ad uno scaffale a muro per  paura dei topi.  E per tutto il tempo che rimasi con questa gente fu questo il mio letto che, man mano che riuscivo a farmi capire, resi più comodo.

Questa ragazzina era così brava,  che era bastato che mi spogliassi un paio di volte in sua presenza,  perché imparasse subito a vestirmi e a spogliarmi,  anche se evitavo sempre di darle questo fastidio,  appena mi lasciava fare da solo.  Mi confezionò sette camice ed altri capi di biancheria con la stoffa più fine che fu  possibile  trovare,  sebbene fosse più ruvida della tela di sacco. Ed era lei che mi lavava i panni con le sue stesse mani. Inoltre mi faceva da maestra per insegnarmi la loro lingua. Bastava che indicassi un oggetto, che lei me ne diceva il nome  e in pochi giorni fui capace di chiedere qualsiasi cosa volessi.  Era di animo buono e,  per la sua età,  non  molto  cresciuta,  poiché arrivava appena a tredici metri. Prima la famiglia, poi l’intero reame mi chiamarono Grildrig,  nome che lei mi aveva dato per prima e simile al latino “nanunculus”, all’italiano “omino” e all’inglese “mannikin”.  Devo a lei la mia sopravvivenza e non ci separammo mai  finché  restai in quel paese. La chiamavo Glumdalclitch, o piccola bambinaia, e sarei un  ingrato se non ricordassi l’attenzione e l’affetto che mi dimostrò sempre,  e inoltre vorrei essere in grado  di  ricompensarla  come  si merita,  invece di essere stato,  come temo,  causa involontaria della sua disgrazia.

E nel frattempo si era diffusa in giro la notizia che il  mio  padrone aveva  trovato  nei  campi  uno  strano  animale,   piccolo  come  uno “splaknuck”,  ma fatto in tutto e per tutto come un  uomo,  capace  di imitarlo  in ogni azione,  che parlava una lingua tutta sua,  che pure aveva imparato diverse parole della loro,  che camminava su due gambe, si  comportava  in  modo  amabile e mansueto,  rispondeva ai richiami, faceva quello che gli veniva detto,  aveva membra ben proporzionate  e una  carnagione  più  tenera  di  una  bambina  di  tre anni di nobile nascita.  Fu così che un altro agricoltore che abitava vicino  al  mio padrone  ed era suo amico,  venne a farci visita per verificare quanto si diceva in giro.  Mi misero subito in mostra posandomi sulla  tavola dove  camminai ai loro comandi,  sguainai e rinfoderai la spada,  feci l’inchino all’ospite del padrone,  mi rivolsi a lui nella  sua  lingua per  chiedergli come stava e dargli il benvenuto,  seguendo in tutto i suggerimenti della mia piccola bambinaia.  L’ospite,  un vecchio dalla vista  corta,  inforcò un paio d’occhiali per vedermi meglio ed io non potei trattenermi dal ridere di cuore,  perché i suoi occhi sembravano come  una  luna  piena che splende da due finestre contemporaneamente.  Gli altri risero con me appena capirono la causa  della  mia  ilarità, sebbene   il   vecchio  fosse  abbastanza  stupido  da  prendersela  e arrabbiarcisi sopra.  Era un dannato spilorcio e  dovetti  constatarlo amaramente,  quando  mise in testa al mio padrone la maledetta idea di mettermi in mostra come un portento alla fiera del villaggio, distante una mezz’ora di cammino e a circa ventidue miglia  dalla  casa.  Capii subito che stavano architettando qualcosa di losco nei miei confronti, quando vidi il mio padrone e il suo amico che parlottavano,  indicando di tanto in tanto dalla mia parte.  In quel clima di paura  mi  sembrò addirittura  di  avere  capito  il senso di alcune loro parole,  ma la mattina seguente fu la mia piccola bambinaia Glumdalclitch a riferirmi il loro piano,  dopo che era riuscita  abilmente  a  far  parlare  sua madre. La povera bambina mi pose in grembo, poi cominciò a piangere di vergogna e di disperazione. Aveva paura che quella gente rozza potesse farmi del male; avrebbero potuto stringermi fino a procurarmi la morte o fracassarmi le ossa nel maneggiarmi.  Lei aveva avuto modo di notare la mia natura ritrosa e quanto fossi suscettibile  nell’onore;  capiva con  quale indignazione avrei affrontato l’idea di essere esibito alla plebaglia, per denaro, come un mostricciattolo da baraccone. Disse che papà e mamma le avevano promesso che sarei stato di sua proprietà,  ma ormai  sapeva  bene  che  sarebbe  successo  come  con quell’agnellino dell’anno scorso che,  una volta ingrassato,  fu venduto al macellaio.  Da parte mia, devo dire di essere rimasto molto meno rattristato della mia  bambinaia,  perché  avevo  ben  radicata in me la speranza che un giorno avrei recuperato la  libertà.  Per  quanto  poi  concerneva  la vergogna di essere mostrato come un prodigio, in quel paese mi sentivo totalmente  un estraneo;  e chi mai avrebbe potuto rinfacciarmi quelle sciagure al mio ritorno in Inghilterra,  quando il Re in  persona,  se fosse stato al mio posto, avrebbe dovuto subire lo stesso trattamento?  Seguendo il consiglio dell’amico, il padrone mi portò al mercato nella città  vicina  rinchiuso  in  una  scatola,  portando  con sé anche la bambina,  la mia piccola amica,  che fece  salire  davanti  a    sul cavallo.  La  scatola  era  chiusa,  eccetto una porticina dalla quale potevo entrare e  uscire  e  alcuni  fori  fatti  col  succhiello  per permettermi  di  respirare.  La  bimba  aveva  avuto  l’accortezza  di metterci dentro il materassino della bambola perché potessi sdraiarmi, ma nonostante la brevità del percorso,  fui sbatacchiato qua e là  per tutto  il  viaggio.  Non  bisogna  infatti  dimenticare che il cavallo percorreva ad ogni passo la bellezza di dodici metri,  provocando  dei sobbalzi  paragonabili  al  beccheggio  di  una nave in preda alla più furiosa delle tempeste, con una frequenza anche maggiore.  Si trattava di  un  viaggio poco più lungo che andare da Londra a Sant’Albano.  Il mio padrone prese alloggio alla locanda solita e,  dopo  aver  parlato per  un po’ con il locandiere e avere sistemato le cose,  prese a nolo un banditore,  o “grultrud”,  perché desse notizia per tutta la  città che  alla  locanda  dell’”Aquila  Verde”  era  in  mostra una creatura portentosa,  più piccola di un  “splacnuck”  (un  animaletto  di  quei luoghi assai minuto e lungo un metro e ottanta),  simile in ogni parte del corpo ad un essere umano, fornito di parola e capace di fare mille mossettine.

Scelta la stanza più vasta della taverna, mi misero sulla tavola di un trenta metri quadri.  La mia piccola bambinaia si  mise  accanto  alla tavola,  seduta  su  uno  sgabello  per proteggermi e dirmi cosa avrei dovuto fare. Per evitare un sovraffollamento,  il padrone fece entrare solo trenta persone alla volta per assistere allo spettacolo.  Seguivo i comandi della bimba che ora mi diceva di camminare avanti e indietro sul tavolo,  ora mi faceva domande entro i  limiti  delle  parole  che conoscevo e alle quali rispondevo più forte che potevo.  Mi giravo più volte verso gli spettatori,  li ossequiavo,  davo loro il benvenuto  e facevo loro altri discorsetti che avevo imparato. Poi alzavo un ditale pieno  di vino e,  come fosse il mio calice,  bevevo alla loro salute, snudavo la spada mulinandola secondo le mosse della  scherma  inglese, poi, preso un frammento di stoppia dalla bambina, facevo il lancio del giavellotto imparato in gioventù.

Insomma  in  tutta  la  giornata  feci  dodici  repliche,  costretto a ripetere sempre le stesse  sciocchezze,  finché  fui  mezzo  morto  di fatica  e  di  rabbia.  Quelli  che avevano assistito allo spettacolo, riferivano tali meraviglie,  e la gente premeva contro la porta  della locanda  per  entrare.  Era  nell’interesse del padrone che nessuno mi toccasse,  ad eccezione della bambina,  e per  questo  aveva  disposto tutt’intorno  al tavolo una fila di panche che mi tenevano fuori della portata degli spettatori. Ci fu comunque uno screanzato di scolaro che mi tirò una nocciolina in testa mancandomi per un pelo. Questa ricadde con tale violenza che, se mi avesse colpito,  mi avrebbe fatto saltare il cervello, perché era grossa quasi come una zucca. Non mi dispiacque certo  vedere quel mascalzoncello preso a pedate e buttato fuori dalla stanza.

Alla fine della giornata il mio padrone dichiarò pubblicamente che  mi avrebbe  messo  in  mostra  il  prossimo  giorno di mercato.  Intanto, seguendo le sue cure interessate, il padrone mi costruì un veicolo più confortevole. Infatti ero così stanco dopo il viaggio e dopo aver dato spettacolo per otto ore filate,  che mi reggevo a mala pena in  piedi, senza  avere la forza di pronunciare una parola.  Mi ci vollero almeno tre giorni per riprendermi,  e dire che a casa  non  mi  aspettava  di certo  una  vita  tranquilla,  perché tutti i signorotti del vicinato, sentita  la  novità,   vennero  a  vedermi  a  casa  dell’agricoltore.  Entravano  almeno  una  trentina  alla volta,  con mogli e figli (quel paese è infatti assai popoloso) e per mostrarmi il padrone esigeva  il prezzo  della  sala  al  completo,  anche  se  si trattava di una sola famiglia.  Per diverso tempo non ebbi un momento di pace per  tutti  i giorni  della  settimana,  ad  eccezione del mercoledì,  che è il loro giorno di festa.

Il padrone,  che cominciava a rendersi conto  di  quali  guadagni  gli avrei  procurato,  decise  di  portarmi a fare il giro delle città più importanti del regno.  Sistemato il  podere,  procuratosi  quanto  era necessario  per un lungo viaggio,  preso commiato dalla moglie,  il 17 agosto 1703, a un due mesi dal mio arrivo su quella terra,  il padrone ed  io  ci mettemmo in cammino per la capitale,  situata al centro del regno  e  a  circa  tremila  miglia  dalla  nostra  casa.  Sua  figlia Glumdalclitch  salì sul cavallo dietro di lui,  portando in grembo una cassettina, nella quale ero rinchiuso, che si era legata alla vita. La bambina l’aveva imbottita in ogni lato con  la  stoffa  più  fine  che aveva  potuto  trovare,  poi  ci  aveva  messo dentro il lettino della bambola, coperte e tutto, rendendo l’ambiente il più possibile comodo.  Dietro di noi cavalcava, unica nostra compagnia,  un ragazzo di fatica che portava i bagagli.

Il padrone avea l’intenzione di presentarsi in tutte le città lungo il

cammino,  disposto  anche  a  deviare  dalla  via maestra di cinquanta miglia o del doppio,  per raggiungere quei villaggi o quelle dimore dei signorotti, dai quali si aspettava qualche guadagno. Il viaggio non fu poi  tanto  faticoso,  perché  percorrevamo  dalle  centoquaranta alle centosessanta miglia giornaliere;  la  buona  Glumdalclitch,  infatti, ogni  tanto diceva di essere sfinita,  allo scopo di risparmiarmi.  Di quando in quando, su mia richiesta, lei mi faceva uscire dalla scatola per prendere una boccata d’aria e ammirare il paesaggio, pur tenendomi sempre ben stretto al guinzaglio.  Passammo sopra cinque o  sei  fiumi più larghi e più profondi del Nilo o del Gange;  in quella terra anche un ruscello ha la portata del Tamigi al Ponte  di  Londra.  Il  nostro viaggio  durò  dieci  settimane  e organizzammo spettacoli in diciotto città,  senza contare i villaggi e le  case  private.  Il  26  ottobre arrivammo   nella  capitale  che,   nella  loro  lingua,   è  chiamata Lorbrulgrud, o “Orgoglio dell’Universo”. Il mio padrone alloggiò nella strada principale, non lontano dal palazzo reale.  Poi cominciò a fare avvisi del solito tipo, con la descrizione della mia persona e del mio ingegno; prese in affitto un salone immenso, ci fece mettere un tavolodel  diametro  di  diciotto  metri,  sul  quale  avrei  tenuto  le mie rappresentazioni,   facendolo  circondare  da  una   palizzata,   tiporinghiera  alta  due  metri,   perché  non  cadessi  di  sotto.  Detti spettacolo dieci volte al giorno fra l’ammirazione  generale.  Parlavo ormai  la  loro  lingua  decentemente  e  capivo  benissimo  quando mi rivolgevano la parola,  inoltre avevo imparato l’alfabeto e riuscivo a tradurre  anche qualche frase scritta;  infatti Glumdalclitch mi aveva insegnato a leggere quando eravamo a casa e nelle ore  libere  durante il viaggio.  Aveva sempre in tasca un libriccino, non molto più grande di un atlante, che era un manuale di catechismo per bambine, sul quale mi insegnò a riconoscere  le  lettere  e  quindi  ad  interpretare  le parole.

 

 

3  -    LA  CORTE  MANDA  A  PRENDERE  L’AUTORE.  LA  REGINA LO COMPRA DALL’AGRICOLTORE E LO PRESENTA AL RE.  DISPUTA CON I DOTTORI Dl CORTE.  GLI SI PREPARA UN APPARTAMENTO.  GODE DEI FAVORI DELLA REGINA. DIFENDE L’ONORE DELLA PATRIA. SUE SCHERMAGLIE CON IL NANO DELLA REGINA.

Il padrone diventava tanto  più  ingordo,  quanto  più  aumentavano  i guadagni  fatti a spese della mia salute la quale,  sottoposta a tutti quegli strapazzi,  cominciava a  risentirne  seriamente.  Avevo  perso l’appetito ed ero ridotto pelle e ossa, tanto che lui, convinto che ci avrei  lasciato la pelle in pochi giorni,  era deciso a spremermi come un limone.  Mentre rimuginava fra sé questi propositi,  si presentò un gran  ciambellano,  o  “slardral”,  con  l’ordine di portarmi subito a corte per divertire la regina e le  dame  di  compagnia  alcune  delle quali,  che mi avevano già visto, avevano raccontato grandi cose della mia bellezza, del mio comportamento e del mio buon senso.  Sua Maestà, insieme alle altre dame,  rimase incantata oltre ogni dire delle mie maniere cortesi.  Mi inginocchiai e chiesi l’onore di potere baciare il piede di Sua  Maestà,  ma  Sua  Grazia  volle  porgermi  il mignolo  (mentre  nel  frattempo  ero stato messo sopra un tavolo) che presi fra le braccia portandolo, col più grande rispetto, alle labbra.  Lei mi fece alcune domande sul mio paese e sui viaggi che avevo fatto, ed io le risposi quanto più succintamente mi fu possibile.  Allora  mi chiese  se  avessi  vissuto  volentieri  a  corte.  Mi prostrai fino a toccare il piano del tavolo replicando con umili  parole  che  ero  lo schiavo del mio padrone,  ma che,  se fosse dipeso da me,  sarei stato orgoglioso di dedicare la mia vita al  servizio  di  Sua  Maestà.  Lei chiese  al padrone se era disposto a vendermi ad un prezzo ragionevole e questi, convinto che avessi i giorni contati, non ci pensò due volte chiedendo mille monete d’oro.  Gli furono pagate immediatamente.  Ogni moneta era grossa come ottocento “moydores” portoghesi,  ma se teniamo presente la differenza di proporzioni fra quella terra e  l’Europa,  e l’alto  costo  dell’oro  in quel paese,  quel prezzo non corrispondeva nemmeno a mille ghinee inglesi.

Allora mi permisi di chiedere alla regina, ora che ero divenuto il suo umile servitore e vassallo,  il favore di far entrare al suo  servizio anche  Glumdalclitch,  che era stata sempre così dolce e premurosa con me,  in modo che potesse continuare ad essere la mia insegnante  e  la mia nutrice. Sua Maestà accolse la richiesta e ottenne il consenso del padre,  felicissimo  di  avere  una  figlia  a  corte.  La bambina non nascondeva la sua gioia.  Il mio padrone di un tempo si  ritirò  e  mi salutò  dicendo che mi lasciava in buone mani;  non dissi una parola e mi limitai ad un lieve inchino del capo.

La freddezza del mio saluto non era sfuggita  alla  regina  la  quale, uscito l’uomo,  me ne chiese la ragione. Risposi a Sua Maestà in tutta franchezza che  ero  riconoscente  verso  quell’uomo  per  non  avermi schiacciato sotto i piedi,  quando per caso mi trovò nel suo campo, ma che gli avevo lautamente ripagato ogni  obbligo  con  i  guadagni  che aveva fatto mostrandomi alle fiere paesane e,  in ultimo, col ricavato della mia vendita;  che fino dal primo momento che avevo  passato  con lui  ero  stato  sottoposto ad una vita così massacrante,  che avrebbe ucciso un animale dieci volte più robusto di me, che la mia salute era seriamente minata per lo strapazzo di dover divertire la gentaglia  ad ogni ora del giorno e che infine, se il mio padrone non avesse intuito il  mio deperimento,  Sua Maestà non mi avrebbe certo comprato tanto a poco.  Ma aggiunsi anche che ora non avevo più nessun timore di essere maltrattato,  essendo  sotto  la protezione di una così grande e buona imperatrice,  ornamento della natura,  diletto del mondo,  delizia dei sudditi,  fenice  della  creazione,  e  che  i  timori del mio vecchio padrone si sarebbero  dimostrati  infondati,  perché  mi  sentivo  già rifiorire per influsso della augustissima presenza di Sua Maestà.  Fu questo in breve il mio discorso, pronunciato con grandi improprietà ed  incertezze,  la cui ultima parte era stata formulata nello stile e secondo l’etichetta di quel popolo,  alcuni particolari della quale mi erano  stati  insegnati  da  Glumdalclitch durante il nostro viaggio a corte.

La regina, che si era dimostrata più che comprensiva nei confronti del modo di esprimermi,  rimase stupita nel trovare tanto spirito  e  buon senso  in  un animaletto così minuscolo.  Mi prese sul palmo della sua mano e mi portò dal re che si era ritirato nei suoi appartamenti.  Sua Maestà  il re,  uomo di aspetto grave ed austero,  mi dette appena uno sguardo e chiese alla regina in maniera assai fredda,  da quanto tempo le  era  saltato in mente di invaghirsi degli “splacknuck”.  E non c’è dubbio che, disteso com’ero sul palmo della mano della regina,  lui mi aveva preso per uno di quegli animaletti.  Ma la sovrana, una donna di spirito,  dotata di un sottile senso dell’umorismo,  mi mise in  piedi sullo scrittoio,  pregandomi di raccontare al re le mie peripezie.  Lo feci con un breve  discorsetto  mentre  Glumdalclitch,  che  fu  fatta entrare  dopo  essere  stata  impalata sulla soglia dello studiolo per l’impazienza di starmi vicino, confermò tutto quanto era accaduto, dal momento in cui ero stato portato a casa di suo padre.

Sebbene il re fosse una persona colta quanto altri mai in quel  regno, portato  soprattutto  alla filosofia e agli studi di matematica,  dopo avermi osservato con attenzione e avermi visto camminare eretto, prima ancora che avessi parlato mi prese per un automa  (un’arte  che  aveva fatto  grandi progressi in quel paese) costruito da qualche abilissimo artefice.  Ma quando mi sentì parlare e constatò che quanto dicevo era proprio   di  un  essere  umano  e  razionale,   non  nascose  il  suo sbalordimento.   Tuttavia  non  volle  credere  a  quanto  gli   avevo raccontato  riguardo  al mio arrivo su quella terra,  anzi lui pensava che fosse tutta una bugia inventata da Glumdalclitch e  suo  padre,  e che  quest’ultimo  mi  avesse messo in bocca quelle parole con l’unico scopo di vendermi ad un prezzo più alto. Fisso su questa sua idea,  mi fece  altre  domande,  alle  quali  risposi  adeguatamente con il solo difetto di un accento straniero e di  una  conoscenza  limitata  della lingua,  e magari con qualche espressione rozza imparata dal contadino e certo non adeguata al raffinato codice della corte.  Il re mandò subito a  chiamare  tre  sommi  dottori  che,  secondo  il sistema di quella terra,  erano di turno.  Questi Signori, dopo avermi esaminato con  estrema  attenzione,  espressero  pareri  diversi,  pur concordando  che  non  potevo  essere  nato  secondo  le normali leggi naturali,  perché nulla in me garantiva una capacità di  conservazione della specie; non avevo agilità, non sapevo arrampicarmi sugli alberi, né scavare tane sotto terra.  Dopo avermi passato in rassegna i denti, con cura estrema, trassero la conclusione che ero un carnivoro,  anche se  non  riuscivano a capire in che modo potevo nutrirmi,  visto che i quadrupedi di quella terra erano troppo grossi per me,  e  i  topi  ed altri  animali  consimili,  troppo  voraci,  a  meno che mi cibassi di lumache o di altri insetti;  ma con dottissimi argomenti finirono  per escludere anche questa ultima ipotesi.

Uno  di  loro sembrava convinto che fossi un embrione o un aborto;  ma gli altri due confutarono questa supposizione,  dimostrando che  tutte le  mie  membra erano ben fatte e completamente sviluppate,  rilevando inoltre dai peli della  barba,  che  poterono  vedere  con  una  lente d’ingrandimento, che avevo un’età adulta. Impossibile poi considerarmi un  nano,  perché  la  mia  costituzione  era  minuta al di là di ogni paragone, tanto è vero che lo stesso nano della regina, l’esserino più piccolo del regno,  era pur sempre alto  nove  metri.  Dopo  un  lungo dibattito  vennero  alla  conclusione  unanime  che  dovevo  essere un “relplum scalcath”,  che alla lettera vuol dire “lusus  naturae”,  una definizione  che sarebbe piaciuta ai moderni filosofi europei,  le cui scuole disdegnano di ricorrere alla  vecchia  scappatoia  delle  cause occulte, con le quali i seguaci di Aristotele cercano di mascherare la loro  ignoranza,  a tutto vantaggio delle magnifiche sorti progressive della umana conoscenza.

Giunti a questa conclusione decisiva,  chiesi di  avere  umilmente  la parola.  Rivolgendomi al re,  lo informai che venivo da una terra dove vivevano milioni  di  esseri,  maschi  e  femmine,  delle  mie  stesse dimensioni;  una  terra  dove  animali,  alberi  e case erano tutti in proporzione con gli uomini,  dove  di  conseguenza  ero  in  grado  di difendermi  e  di  sostentarmi  allo stesso modo in cui avveniva per i sudditi di Sua Maestà.  Credevo di aver dato una risposta esauriente a quei signori, i quali tuttavia risposero con un sorrisetto sprezzante, riconoscendo  che magari avevo imparato bene la lezione del contadino.  Il re, che aveva molto più sale in zucca, congedò quei saggi e mandò a chiamare il contadino il quale, per fortuna, non aveva ancora lasciato la città.  Prima di tutto il re parlò con lui in sede privata,  poi lo mise  a  confronto  con  me  e con la bambina;  dopo di che cominciò a pensare che quanto gli avevamo raccontato potesse essere  vero.  Volle dunque che la regina desse ordine che mi trattassero con ogni riguardo e  che Glumdalclitch continuasse a prendersi cura di me,  perché aveva visto quanto affetto ci univa.

Le fu destinato un comodo  appartamento  a  corte,  inoltre  ebbe  una governante che si sarebbe occupata della sua educazione, una cameriera per  vestirla  ed  altre  due  inservienti per faccende più umili;  ma prendersi cura di me sarebbe stato suo  unico  privilegio.  La  regina ordinò al suo ebanista che mi costruisse una cassettina come camera da letto,  secondo i desideri miei e di Glumdalclitch. Questo uomo era un artigiano ingegnosissimo e, nel tempo di tre settimane, mi preparò una cameretta lignea di venticinque metri quadrati, alta tre, con finestre scorrevoli,  una porta e  due  spogliatoi,  che  non  aveva  nulla  da invidiare  ad una camera londinese.  Il ripiano che faceva da soffitto si alzava, girando su due cardini,  per poterci calare dentro il letto preparatomi dal tappezziere del re.  Tutte le mattine Glumdalclitch lo tirava fuori per dargli aria,  me lo rifaceva con le sue stesse  mani, poi  la sera lo rimetteva dentro,  avendo cura di chiudere a chiave il coperchio dopo che ero entrato.  Un valente  costruttore,  famoso  per certi  suoi  modelli  in  miniatura,  si  mise al lavoro per farmi due sedie,  fornite  di  schienale  e  pioli,   con  un  materiale  simile all’avorio,  ed inoltre due tavoli e un armadio nel quale avrei potuto tenere le mie cosucce. La stanza era imbottita da ogni lato,  compreso il  pavimento  e il soffitto,  per prevenire eventuali sbadataggini di quanti avrebbero trasportato la cassettina, e soprattutto per attutire le scosse quando sarei andato in carrozza. Volli che mi mettessero una serratura alla porta per difendermi dai topi  e  il  fabbro,  prova  e riprova, mi costruì la più piccola serratura che si fosse mai vista in quel paese, mentre io ne ho vista una più grande solo alla porta di un signorotto inglese.  Temendo che Glumdalclitch potesse perderla, tenni la chiave in una delle mie tasche.  La regina ordinò le sete più  fini sul  mercato  per farmi fare degli abiti;  fu trovata una stoffa molto più spessa di quella per i lenzuoli e, finché non mi ci abituai, mi ci sentii molto impacciato.  Mi vestirono dunque secondo la moda di  quel regno, tra il persiano e il cinese, ma in ogni caso in maniera più che seria e decorosa.

La  regina  amava  tanto  la  mia compagnia che non si sedeva a tavola senza di me. Avevo un tavolino ed una sedia che venivano sistemati sul tavolo della regina,  accanto al suo braccio  sinistro.  Glumdalclitch stava  seduta  su  di un banchetto vicino alla tavola per assistermi e prendersi cura di me. Avevo un servizio completo di piatti, scodelle e posate d’argento che,  in confronto a quelli della regina,  non  erano più grandi di quelli che ho visto una volta a Londra, in un negozio di giocattoli, per arredare una casa da bambola.