Alla fine, e non senza difficoltà, la buona donna capì ciò che volevo, per cui, presomi di nuovo in mano, mi portò in giardino deponendomi di nuovo per terra. Corsi a duecento metri di distanza, le feci segno di non seguirmi e di non guardare dalla mia parte, poi, nascostomi fra due foglie d’acetosa, mi liberai dei miei bisogni.
Spero che il benevolo lettore vorrà scusarmi se mi soffermo su simili particolari i quali, per quanto insignificanti possano apparire ad una mente meschina e volgare, saranno certamente di valido aiuto per il filosofo che voglia allargare l’orizzonte dei suoi pensieri e della sua immaginazione e renderli utili al bene sia pubblico che privato. Nel presentare infatti questa ed altre relazioni dei miei viaggi, nelle quali raccontato la verità, senza fare ricorso agli ornamenti della lingua, dello stile e della cultura, è stato questo il mio unico scopo. Ma proprio questo viaggio mi ha, nel suo complesso, talmente colpito l’immaginazione e mi è rimasto così impresso nella memoria, che, trasferendolo nella scrittura, non ho omesso il minimo dettaglio. E’ stato solo ad una rilettura del mio scritto che ho cancellato alcuni passi di scarsa importanza, per non essere accusato di raccontare cose noiose e insignificanti, che spesso si imputano, e non a torto, ai racconti dei viaggiatori.
2 -LA FIGLIA DELL’AGRICOLTORE. L’AUTORE E’ PORTATO AL MERCATO E POI NELLA CAPITALE. I PARTICOLARI DEL VIAGGIO.
La mia padrona aveva una figlia di nove anni, una bambina saggia per la sua età, che sapeva cucire benissimo e con grazia i vestiti per la bambola. Lei e sua madre sistemarono la culla della bambola facendone il giaciglio dove potessi trascorrere la notte, poi misero la culla nel cassetto di una credenza e questo fu appeso ad uno scaffale a muro per paura dei topi. E per tutto il tempo che rimasi con questa gente fu questo il mio letto che, man mano che riuscivo a farmi capire, resi più comodo.
Questa ragazzina era così brava, che era bastato che mi spogliassi un paio di volte in sua presenza, perché imparasse subito a vestirmi e a spogliarmi, anche se evitavo sempre di darle questo fastidio, appena mi lasciava fare da solo. Mi confezionò sette camice ed altri capi di biancheria con la stoffa più fine che fu possibile trovare, sebbene fosse più ruvida della tela di sacco. Ed era lei che mi lavava i panni con le sue stesse mani. Inoltre mi faceva da maestra per insegnarmi la loro lingua. Bastava che indicassi un oggetto, che lei me ne diceva il nome e in pochi giorni fui capace di chiedere qualsiasi cosa volessi. Era di animo buono e, per la sua età, non molto cresciuta, poiché arrivava appena a tredici metri. Prima la famiglia, poi l’intero reame mi chiamarono Grildrig, nome che lei mi aveva dato per prima e simile al latino “nanunculus”, all’italiano “omino” e all’inglese “mannikin”. Devo a lei la mia sopravvivenza e non ci separammo mai finché restai in quel paese. La chiamavo Glumdalclitch, o piccola bambinaia, e sarei un ingrato se non ricordassi l’attenzione e l’affetto che mi dimostrò sempre, e inoltre vorrei essere in grado di ricompensarla come si merita, invece di essere stato, come temo, causa involontaria della sua disgrazia.
E nel frattempo si era diffusa in giro la notizia che il mio padrone aveva trovato nei campi uno strano animale, piccolo come uno “splaknuck”, ma fatto in tutto e per tutto come un uomo, capace di imitarlo in ogni azione, che parlava una lingua tutta sua, che pure aveva imparato diverse parole della loro, che camminava su due gambe, si comportava in modo amabile e mansueto, rispondeva ai richiami, faceva quello che gli veniva detto, aveva membra ben proporzionate e una carnagione più tenera di una bambina di tre anni di nobile nascita. Fu così che un altro agricoltore che abitava vicino al mio padrone ed era suo amico, venne a farci visita per verificare quanto si diceva in giro. Mi misero subito in mostra posandomi sulla tavola dove camminai ai loro comandi, sguainai e rinfoderai la spada, feci l’inchino all’ospite del padrone, mi rivolsi a lui nella sua lingua per chiedergli come stava e dargli il benvenuto, seguendo in tutto i suggerimenti della mia piccola bambinaia. L’ospite, un vecchio dalla vista corta, inforcò un paio d’occhiali per vedermi meglio ed io non potei trattenermi dal ridere di cuore, perché i suoi occhi sembravano come una luna piena che splende da due finestre contemporaneamente. Gli altri risero con me appena capirono la causa della mia ilarità, sebbene il vecchio fosse abbastanza stupido da prendersela e arrabbiarcisi sopra. Era un dannato spilorcio e dovetti constatarlo amaramente, quando mise in testa al mio padrone la maledetta idea di mettermi in mostra come un portento alla fiera del villaggio, distante una mezz’ora di cammino e a circa ventidue miglia dalla casa. Capii subito che stavano architettando qualcosa di losco nei miei confronti, quando vidi il mio padrone e il suo amico che parlottavano, indicando di tanto in tanto dalla mia parte. In quel clima di paura mi sembrò addirittura di avere capito il senso di alcune loro parole, ma la mattina seguente fu la mia piccola bambinaia Glumdalclitch a riferirmi il loro piano, dopo che era riuscita abilmente a far parlare sua madre. La povera bambina mi pose in grembo, poi cominciò a piangere di vergogna e di disperazione. Aveva paura che quella gente rozza potesse farmi del male; avrebbero potuto stringermi fino a procurarmi la morte o fracassarmi le ossa nel maneggiarmi. Lei aveva avuto modo di notare la mia natura ritrosa e quanto fossi suscettibile nell’onore; capiva con quale indignazione avrei affrontato l’idea di essere esibito alla plebaglia, per denaro, come un mostricciattolo da baraccone. Disse che papà e mamma le avevano promesso che sarei stato di sua proprietà, ma ormai sapeva bene che sarebbe successo come con quell’agnellino dell’anno scorso che, una volta ingrassato, fu venduto al macellaio. Da parte mia, devo dire di essere rimasto molto meno rattristato della mia bambinaia, perché avevo ben radicata in me la speranza che un giorno avrei recuperato la libertà. Per quanto poi concerneva la vergogna di essere mostrato come un prodigio, in quel paese mi sentivo totalmente un estraneo; e chi mai avrebbe potuto rinfacciarmi quelle sciagure al mio ritorno in Inghilterra, quando il Re in persona, se fosse stato al mio posto, avrebbe dovuto subire lo stesso trattamento? Seguendo il consiglio dell’amico, il padrone mi portò al mercato nella città vicina rinchiuso in una scatola, portando con sé anche la bambina, la mia piccola amica, che fece salire davanti a sé sul cavallo. La scatola era chiusa, eccetto una porticina dalla quale potevo entrare e uscire e alcuni fori fatti col succhiello per permettermi di respirare. La bimba aveva avuto l’accortezza di metterci dentro il materassino della bambola perché potessi sdraiarmi, ma nonostante la brevità del percorso, fui sbatacchiato qua e là per tutto il viaggio. Non bisogna infatti dimenticare che il cavallo percorreva ad ogni passo la bellezza di dodici metri, provocando dei sobbalzi paragonabili al beccheggio di una nave in preda alla più furiosa delle tempeste, con una frequenza anche maggiore. Si trattava di un viaggio poco più lungo che andare da Londra a Sant’Albano. Il mio padrone prese alloggio alla locanda solita e, dopo aver parlato per un po’ con il locandiere e avere sistemato le cose, prese a nolo un banditore, o “grultrud”, perché desse notizia per tutta la città che alla locanda dell’”Aquila Verde” era in mostra una creatura portentosa, più piccola di un “splacnuck” (un animaletto di quei luoghi assai minuto e lungo un metro e ottanta), simile in ogni parte del corpo ad un essere umano, fornito di parola e capace di fare mille mossettine.
Scelta la stanza più vasta della taverna, mi misero sulla tavola di un trenta metri quadri. La mia piccola bambinaia si mise accanto alla tavola, seduta su uno sgabello per proteggermi e dirmi cosa avrei dovuto fare. Per evitare un sovraffollamento, il padrone fece entrare solo trenta persone alla volta per assistere allo spettacolo. Seguivo i comandi della bimba che ora mi diceva di camminare avanti e indietro sul tavolo, ora mi faceva domande entro i limiti delle parole che conoscevo e alle quali rispondevo più forte che potevo. Mi giravo più volte verso gli spettatori, li ossequiavo, davo loro il benvenuto e facevo loro altri discorsetti che avevo imparato. Poi alzavo un ditale pieno di vino e, come fosse il mio calice, bevevo alla loro salute, snudavo la spada mulinandola secondo le mosse della scherma inglese, poi, preso un frammento di stoppia dalla bambina, facevo il lancio del giavellotto imparato in gioventù.
Insomma in tutta la giornata feci dodici repliche, costretto a ripetere sempre le stesse sciocchezze, finché fui mezzo morto di fatica e di rabbia. Quelli che avevano assistito allo spettacolo, riferivano tali meraviglie, e la gente premeva contro la porta della locanda per entrare. Era nell’interesse del padrone che nessuno mi toccasse, ad eccezione della bambina, e per questo aveva disposto tutt’intorno al tavolo una fila di panche che mi tenevano fuori della portata degli spettatori. Ci fu comunque uno screanzato di scolaro che mi tirò una nocciolina in testa mancandomi per un pelo. Questa ricadde con tale violenza che, se mi avesse colpito, mi avrebbe fatto saltare il cervello, perché era grossa quasi come una zucca. Non mi dispiacque certo vedere quel mascalzoncello preso a pedate e buttato fuori dalla stanza.
Alla fine della giornata il mio padrone dichiarò pubblicamente che mi avrebbe messo in mostra il prossimo giorno di mercato. Intanto, seguendo le sue cure interessate, il padrone mi costruì un veicolo più confortevole. Infatti ero così stanco dopo il viaggio e dopo aver dato spettacolo per otto ore filate, che mi reggevo a mala pena in piedi, senza avere la forza di pronunciare una parola. Mi ci vollero almeno tre giorni per riprendermi, e dire che a casa non mi aspettava di certo una vita tranquilla, perché tutti i signorotti del vicinato, sentita la novità, vennero a vedermi a casa dell’agricoltore. Entravano almeno una trentina alla volta, con mogli e figli (quel paese è infatti assai popoloso) e per mostrarmi il padrone esigeva il prezzo della sala al completo, anche se si trattava di una sola famiglia. Per diverso tempo non ebbi un momento di pace per tutti i giorni della settimana, ad eccezione del mercoledì, che è il loro giorno di festa.
Il padrone, che cominciava a rendersi conto di quali guadagni gli avrei procurato, decise di portarmi a fare il giro delle città più importanti del regno. Sistemato il podere, procuratosi quanto era necessario per un lungo viaggio, preso commiato dalla moglie, il 17 agosto 1703, a un due mesi dal mio arrivo su quella terra, il padrone ed io ci mettemmo in cammino per la capitale, situata al centro del regno e a circa tremila miglia dalla nostra casa. Sua figlia Glumdalclitch salì sul cavallo dietro di lui, portando in grembo una cassettina, nella quale ero rinchiuso, che si era legata alla vita. La bambina l’aveva imbottita in ogni lato con la stoffa più fine che aveva potuto trovare, poi ci aveva messo dentro il lettino della bambola, coperte e tutto, rendendo l’ambiente il più possibile comodo. Dietro di noi cavalcava, unica nostra compagnia, un ragazzo di fatica che portava i bagagli.
Il padrone avea l’intenzione di presentarsi in tutte le città lungo il
cammino, disposto anche a deviare dalla via maestra di cinquanta miglia o del doppio, per raggiungere quei villaggi o quelle dimore dei signorotti, dai quali si aspettava qualche guadagno. Il viaggio non fu poi tanto faticoso, perché percorrevamo dalle centoquaranta alle centosessanta miglia giornaliere; la buona Glumdalclitch, infatti, ogni tanto diceva di essere sfinita, allo scopo di risparmiarmi. Di quando in quando, su mia richiesta, lei mi faceva uscire dalla scatola per prendere una boccata d’aria e ammirare il paesaggio, pur tenendomi sempre ben stretto al guinzaglio. Passammo sopra cinque o sei fiumi più larghi e più profondi del Nilo o del Gange; in quella terra anche un ruscello ha la portata del Tamigi al Ponte di Londra. Il nostro viaggio durò dieci settimane e organizzammo spettacoli in diciotto città, senza contare i villaggi e le case private. Il 26 ottobre arrivammo nella capitale che, nella loro lingua, è chiamata Lorbrulgrud, o “Orgoglio dell’Universo”. Il mio padrone alloggiò nella strada principale, non lontano dal palazzo reale. Poi cominciò a fare avvisi del solito tipo, con la descrizione della mia persona e del mio ingegno; prese in affitto un salone immenso, ci fece mettere un tavolodel diametro di diciotto metri, sul quale avrei tenuto le mie rappresentazioni, facendolo circondare da una palizzata, tiporinghiera alta due metri, perché non cadessi di sotto. Detti spettacolo dieci volte al giorno fra l’ammirazione generale. Parlavo ormai la loro lingua decentemente e capivo benissimo quando mi rivolgevano la parola, inoltre avevo imparato l’alfabeto e riuscivo a tradurre anche qualche frase scritta; infatti Glumdalclitch mi aveva insegnato a leggere quando eravamo a casa e nelle ore libere durante il viaggio. Aveva sempre in tasca un libriccino, non molto più grande di un atlante, che era un manuale di catechismo per bambine, sul quale mi insegnò a riconoscere le lettere e quindi ad interpretare le parole.
3 - LA CORTE MANDA A PRENDERE L’AUTORE. LA REGINA LO COMPRA DALL’AGRICOLTORE E LO PRESENTA AL RE. DISPUTA CON I DOTTORI Dl CORTE. GLI SI PREPARA UN APPARTAMENTO. GODE DEI FAVORI DELLA REGINA. DIFENDE L’ONORE DELLA PATRIA. SUE SCHERMAGLIE CON IL NANO DELLA REGINA.
Il padrone diventava tanto più ingordo, quanto più aumentavano i guadagni fatti a spese della mia salute la quale, sottoposta a tutti quegli strapazzi, cominciava a risentirne seriamente. Avevo perso l’appetito ed ero ridotto pelle e ossa, tanto che lui, convinto che ci avrei lasciato la pelle in pochi giorni, era deciso a spremermi come un limone. Mentre rimuginava fra sé questi propositi, si presentò un gran ciambellano, o “slardral”, con l’ordine di portarmi subito a corte per divertire la regina e le dame di compagnia alcune delle quali, che mi avevano già visto, avevano raccontato grandi cose della mia bellezza, del mio comportamento e del mio buon senso. Sua Maestà, insieme alle altre dame, rimase incantata oltre ogni dire delle mie maniere cortesi. Mi inginocchiai e chiesi l’onore di potere baciare il piede di Sua Maestà, ma Sua Grazia volle porgermi il mignolo (mentre nel frattempo ero stato messo sopra un tavolo) che presi fra le braccia portandolo, col più grande rispetto, alle labbra. Lei mi fece alcune domande sul mio paese e sui viaggi che avevo fatto, ed io le risposi quanto più succintamente mi fu possibile. Allora mi chiese se avessi vissuto volentieri a corte. Mi prostrai fino a toccare il piano del tavolo replicando con umili parole che ero lo schiavo del mio padrone, ma che, se fosse dipeso da me, sarei stato orgoglioso di dedicare la mia vita al servizio di Sua Maestà. Lei chiese al padrone se era disposto a vendermi ad un prezzo ragionevole e questi, convinto che avessi i giorni contati, non ci pensò due volte chiedendo mille monete d’oro. Gli furono pagate immediatamente. Ogni moneta era grossa come ottocento “moydores” portoghesi, ma se teniamo presente la differenza di proporzioni fra quella terra e l’Europa, e l’alto costo dell’oro in quel paese, quel prezzo non corrispondeva nemmeno a mille ghinee inglesi.
Allora mi permisi di chiedere alla regina, ora che ero divenuto il suo umile servitore e vassallo, il favore di far entrare al suo servizio anche Glumdalclitch, che era stata sempre così dolce e premurosa con me, in modo che potesse continuare ad essere la mia insegnante e la mia nutrice. Sua Maestà accolse la richiesta e ottenne il consenso del padre, felicissimo di avere una figlia a corte. La bambina non nascondeva la sua gioia. Il mio padrone di un tempo si ritirò e mi salutò dicendo che mi lasciava in buone mani; non dissi una parola e mi limitai ad un lieve inchino del capo.
La freddezza del mio saluto non era sfuggita alla regina la quale, uscito l’uomo, me ne chiese la ragione. Risposi a Sua Maestà in tutta franchezza che ero riconoscente verso quell’uomo per non avermi schiacciato sotto i piedi, quando per caso mi trovò nel suo campo, ma che gli avevo lautamente ripagato ogni obbligo con i guadagni che aveva fatto mostrandomi alle fiere paesane e, in ultimo, col ricavato della mia vendita; che fino dal primo momento che avevo passato con lui ero stato sottoposto ad una vita così massacrante, che avrebbe ucciso un animale dieci volte più robusto di me, che la mia salute era seriamente minata per lo strapazzo di dover divertire la gentaglia ad ogni ora del giorno e che infine, se il mio padrone non avesse intuito il mio deperimento, Sua Maestà non mi avrebbe certo comprato tanto a poco. Ma aggiunsi anche che ora non avevo più nessun timore di essere maltrattato, essendo sotto la protezione di una così grande e buona imperatrice, ornamento della natura, diletto del mondo, delizia dei sudditi, fenice della creazione, e che i timori del mio vecchio padrone si sarebbero dimostrati infondati, perché mi sentivo già rifiorire per influsso della augustissima presenza di Sua Maestà. Fu questo in breve il mio discorso, pronunciato con grandi improprietà ed incertezze, la cui ultima parte era stata formulata nello stile e secondo l’etichetta di quel popolo, alcuni particolari della quale mi erano stati insegnati da Glumdalclitch durante il nostro viaggio a corte.
La regina, che si era dimostrata più che comprensiva nei confronti del modo di esprimermi, rimase stupita nel trovare tanto spirito e buon senso in un animaletto così minuscolo. Mi prese sul palmo della sua mano e mi portò dal re che si era ritirato nei suoi appartamenti. Sua Maestà il re, uomo di aspetto grave ed austero, mi dette appena uno sguardo e chiese alla regina in maniera assai fredda, da quanto tempo le era saltato in mente di invaghirsi degli “splacknuck”. E non c’è dubbio che, disteso com’ero sul palmo della mano della regina, lui mi aveva preso per uno di quegli animaletti. Ma la sovrana, una donna di spirito, dotata di un sottile senso dell’umorismo, mi mise in piedi sullo scrittoio, pregandomi di raccontare al re le mie peripezie. Lo feci con un breve discorsetto mentre Glumdalclitch, che fu fatta entrare dopo essere stata impalata sulla soglia dello studiolo per l’impazienza di starmi vicino, confermò tutto quanto era accaduto, dal momento in cui ero stato portato a casa di suo padre.
Sebbene il re fosse una persona colta quanto altri mai in quel regno, portato soprattutto alla filosofia e agli studi di matematica, dopo avermi osservato con attenzione e avermi visto camminare eretto, prima ancora che avessi parlato mi prese per un automa (un’arte che aveva fatto grandi progressi in quel paese) costruito da qualche abilissimo artefice. Ma quando mi sentì parlare e constatò che quanto dicevo era proprio di un essere umano e razionale, non nascose il suo sbalordimento. Tuttavia non volle credere a quanto gli avevo raccontato riguardo al mio arrivo su quella terra, anzi lui pensava che fosse tutta una bugia inventata da Glumdalclitch e suo padre, e che quest’ultimo mi avesse messo in bocca quelle parole con l’unico scopo di vendermi ad un prezzo più alto. Fisso su questa sua idea, mi fece altre domande, alle quali risposi adeguatamente con il solo difetto di un accento straniero e di una conoscenza limitata della lingua, e magari con qualche espressione rozza imparata dal contadino e certo non adeguata al raffinato codice della corte. Il re mandò subito a chiamare tre sommi dottori che, secondo il sistema di quella terra, erano di turno. Questi Signori, dopo avermi esaminato con estrema attenzione, espressero pareri diversi, pur concordando che non potevo essere nato secondo le normali leggi naturali, perché nulla in me garantiva una capacità di conservazione della specie; non avevo agilità, non sapevo arrampicarmi sugli alberi, né scavare tane sotto terra. Dopo avermi passato in rassegna i denti, con cura estrema, trassero la conclusione che ero un carnivoro, anche se non riuscivano a capire in che modo potevo nutrirmi, visto che i quadrupedi di quella terra erano troppo grossi per me, e i topi ed altri animali consimili, troppo voraci, a meno che mi cibassi di lumache o di altri insetti; ma con dottissimi argomenti finirono per escludere anche questa ultima ipotesi.
Uno di loro sembrava convinto che fossi un embrione o un aborto; ma gli altri due confutarono questa supposizione, dimostrando che tutte le mie membra erano ben fatte e completamente sviluppate, rilevando inoltre dai peli della barba, che poterono vedere con una lente d’ingrandimento, che avevo un’età adulta. Impossibile poi considerarmi un nano, perché la mia costituzione era minuta al di là di ogni paragone, tanto è vero che lo stesso nano della regina, l’esserino più piccolo del regno, era pur sempre alto nove metri. Dopo un lungo dibattito vennero alla conclusione unanime che dovevo essere un “relplum scalcath”, che alla lettera vuol dire “lusus naturae”, una definizione che sarebbe piaciuta ai moderni filosofi europei, le cui scuole disdegnano di ricorrere alla vecchia scappatoia delle cause occulte, con le quali i seguaci di Aristotele cercano di mascherare la loro ignoranza, a tutto vantaggio delle magnifiche sorti progressive della umana conoscenza.
Giunti a questa conclusione decisiva, chiesi di avere umilmente la parola. Rivolgendomi al re, lo informai che venivo da una terra dove vivevano milioni di esseri, maschi e femmine, delle mie stesse dimensioni; una terra dove animali, alberi e case erano tutti in proporzione con gli uomini, dove di conseguenza ero in grado di difendermi e di sostentarmi allo stesso modo in cui avveniva per i sudditi di Sua Maestà. Credevo di aver dato una risposta esauriente a quei signori, i quali tuttavia risposero con un sorrisetto sprezzante, riconoscendo che magari avevo imparato bene la lezione del contadino. Il re, che aveva molto più sale in zucca, congedò quei saggi e mandò a chiamare il contadino il quale, per fortuna, non aveva ancora lasciato la città. Prima di tutto il re parlò con lui in sede privata, poi lo mise a confronto con me e con la bambina; dopo di che cominciò a pensare che quanto gli avevamo raccontato potesse essere vero. Volle dunque che la regina desse ordine che mi trattassero con ogni riguardo e che Glumdalclitch continuasse a prendersi cura di me, perché aveva visto quanto affetto ci univa.
Le fu destinato un comodo appartamento a corte, inoltre ebbe una governante che si sarebbe occupata della sua educazione, una cameriera per vestirla ed altre due inservienti per faccende più umili; ma prendersi cura di me sarebbe stato suo unico privilegio. La regina ordinò al suo ebanista che mi costruisse una cassettina come camera da letto, secondo i desideri miei e di Glumdalclitch. Questo uomo era un artigiano ingegnosissimo e, nel tempo di tre settimane, mi preparò una cameretta lignea di venticinque metri quadrati, alta tre, con finestre scorrevoli, una porta e due spogliatoi, che non aveva nulla da invidiare ad una camera londinese. Il ripiano che faceva da soffitto si alzava, girando su due cardini, per poterci calare dentro il letto preparatomi dal tappezziere del re. Tutte le mattine Glumdalclitch lo tirava fuori per dargli aria, me lo rifaceva con le sue stesse mani, poi la sera lo rimetteva dentro, avendo cura di chiudere a chiave il coperchio dopo che ero entrato. Un valente costruttore, famoso per certi suoi modelli in miniatura, si mise al lavoro per farmi due sedie, fornite di schienale e pioli, con un materiale simile all’avorio, ed inoltre due tavoli e un armadio nel quale avrei potuto tenere le mie cosucce. La stanza era imbottita da ogni lato, compreso il pavimento e il soffitto, per prevenire eventuali sbadataggini di quanti avrebbero trasportato la cassettina, e soprattutto per attutire le scosse quando sarei andato in carrozza. Volli che mi mettessero una serratura alla porta per difendermi dai topi e il fabbro, prova e riprova, mi costruì la più piccola serratura che si fosse mai vista in quel paese, mentre io ne ho vista una più grande solo alla porta di un signorotto inglese. Temendo che Glumdalclitch potesse perderla, tenni la chiave in una delle mie tasche. La regina ordinò le sete più fini sul mercato per farmi fare degli abiti; fu trovata una stoffa molto più spessa di quella per i lenzuoli e, finché non mi ci abituai, mi ci sentii molto impacciato. Mi vestirono dunque secondo la moda di quel regno, tra il persiano e il cinese, ma in ogni caso in maniera più che seria e decorosa.
La regina amava tanto la mia compagnia che non si sedeva a tavola senza di me. Avevo un tavolino ed una sedia che venivano sistemati sul tavolo della regina, accanto al suo braccio sinistro. Glumdalclitch stava seduta su di un banchetto vicino alla tavola per assistermi e prendersi cura di me. Avevo un servizio completo di piatti, scodelle e posate d’argento che, in confronto a quelli della regina, non erano più grandi di quelli che ho visto una volta a Londra, in un negozio di giocattoli, per arredare una casa da bambola.
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