Egli esamina la questione dell’importanza del valore nel sistema di Marx e giunge ai risultati seguenti: il valore non appare nel rapporto di scambio delle merci prodotte secondo il sistema capitalistico; esso non vive nella coscienza degli agenti della produzione capitalistica; non è un fatto empirico, ma un fatto logico, di pensiero; il concetto di valore nella sua determinazione materiale presso Marx non è altro se non l’espressione economica del fenomeno della forza produttiva sociale del lavoro come base della realtà economica; la legge del valore, in un ordine economico capitalistico, domina in ultima istanza i processi economici; ed ha per questo ordine economico in generale il seguente contenuto: il valore delle merci è la forma specifica e storica, nella quale si fa valere in modo determinante la forza produttiva del lavoro, che domina, in ultima istanza, tutti i fenomeni economici. — Fin qui Sombart; non si può dire che questa concezione della importanza della legge del valore nella forma capitalistica di produzione sia inesatta. Mi sembra tuttavia che essa sia formulata con troppa genericità e sia suscettibile di una formulazione più serrata, più precisa: inoltre, secondo il mio punto di vista, non pone in luce in modo esauriente tutta l’importanza della legge del valore per le fasi dello sviluppo economico della società dominata da questa legge.

Anche nel Sozialpolitisches Zentralblatt di Braun, 25 febbraio 1895, fascicolo 22, si trova un articolo eccellente sul III Libro del Capitale, di Conrad Schmidt. Va messa qui in particolare rilievo la dimostrazione che Marx, facendo derivare il profitto medio dal plusvalore, ha risposto per la prima volta ad una questione che l’economia non aveva mai posta: ossia in qual modo questo saggio medio del profitto è determinato e per quale motivo esso è, poniamo, del 10 o del 15%, e non del 50 o del 100%. Da quando sappiamo che il plusvalore, che i capitalisti industriali si appropriano di prima mano, è la fonte unica ed esclusiva da cui defluiscono profitto e rendita fondiaria, questo problema si risolve da sè, Questa parte del lavoro di Schmidt potrebbe essere stato scritto direttamente per gli economisti a la Loria qualora non fosse fatica inutile aprire gli occhi a coloro che non vogliono vedere.

Anche Schmidt ha le sue riserve formali a proposito della legge del valore. Egli la chiama una ipotesi scientifica fatta per spiegare il processo di scambio reale, ipotesi che, come punto di partenza teorico necessario, luminoso, inevitabile, ha dimostrato la sua validità anche per i prezzi di concorrenza, fenomeni che in apparenza sembrano esserne la contraddizione assoluta; senza la legge del valore, secondo il suo punto di vista, cade anche ogni conoscenza teorica del meccanismo economico della realtà capitalistica. Ed in una lettera privata che mi ha permesso di citare, Schmidt definisce la legge del valore, nella forma di produzione capitalistica, addirittura una finzione, anche se teoricamente necessaria. Questa concezione, secondo il mio punto di vista, non è affatto esatta. La legge del valore ha per la produzione capitalistica una importanza molto maggiore e ben più precisa di quella di una semplice ipotesi, senza parlare poi di una finzione, sia pur necessaria.

Sombart e Schmidt — l’illustre Loria mi è servito qui solo come esemplare divertente di economista volgare — non tengono abbastanza in considerazione che non si tratta qui solo di un puro processo logico, ma di un processo storico e del suo riflesso interpretativo nel pensiero, la ricerca logica dei suoi nessi interni.

Il passo decisivo si trova in Marx, Libro III, p. 200: « Tutta la difficoltà consiste nel fatto che le merci non vengono scambiate semplicemente come merci, ma come prodotti di capitali, che in proporzione alla loro grandezza, o parità di grandezza, pretendono una uguale partecipazione alla massa complessiva del plusvalore »

Si supponga, per illustrare questa distinzione, che gli operai siano in possesso dei loro mezzi di produzione, che lavorino in media per periodi di tempo di uguale lunghezza, con una intensità uguale e scambino direttamente fra di loro le loro merci. Due operai, allora, avrebbero in un giorno aggiunto al loro prodotto mediante il loro lavoro, una eguale quantità di valore nuovo, ma il prodotto di ciascuno di essi avrebbe un valore diverso in relazione al lavoro già incorporato precedentemente nei mezzi di produzione. Questa ultima parte di valore rappresenterebbe il capitale costante dell’economia capitalistica, la parte del valore nuovo aggiunto, impiegato sotto forma di mezzi di sussistenza dell’operaio rappresenterebbe il capitale variabile, la parte residua del nuovo valore costituirebbe il plusvalore che in questo caso apparterrebbe all’operaio. Entrambi gli operai riceverebbero dunque, detrazione fatta della sostituzione della parte « costante » del valore, che essi hanno solamente anticipata, valori uguali; il rapporto fra la parte che rappresenta il plusvalore ed il valore dei mezzi di produzione — che corrisponderebbe al saggio di profitto capitalistico — sarebbe però diverso per ciascuno di essi. Ma, poichè ognuno di essi recupera nello scambio il valore dei mezzi di produzione, questa circostanza sarebbe completamente trascurabile. « Lo scambio delle merci ai loro valori, o approssimativamente ai loro valori, richiede dunque un grado di sviluppo assai inferiore che non lo scambio ai prezzi di produzione, per il quale è necessario un determinato livello di sviluppo capitalistico... Anche astraendo dall’azione decisiva della legge del valore sui prezzi e sul movimento dei prezzi, è dunque conforme alla realtà considerare i valori delle merci non solo da un punto di vista teorico, ma anche storico, come il prius dei prezzi di produzione. Quanto si afferma trova riscontro in situazioni nelle quali il lavoratore è proprietario dei mezzi di produzione, e precisamente nel mondo antico come in quello moderno, presso il contadino che possiede la terra che lui stesso lavora, o presso l’artigiano. E si accorda anche con l’opinione da noi precedentemente espressa, che i prodotti si trasformano in merci quando lo scambio non è limitato ai membri di una stessa comunità, ma avviene fra comunità diverse. E ciò che trova applicazione in questi stadi primitivi, trova ugualmente applicazione in stadi posteriori, i quali sono fondati sulla schiavitù e sulla servitù della gleba, come pure nell’organizzazione corporativa degli artigiani, fintanto che i mezzi di produzione investiti in ogni ramo produttivo solo con difficoltà sono trasferibili da una sfera all’altra e perciò le diverse sfere di produzione si trovano, entro certi limiti, l’una rispetto all’altra, nella stessa situazione di paesi stranieri o di collettività comuniste » (Marx, Il Capitale, Libro III p. 202 sgg.).

Qualora Marx avesse potuto elaborare ulteriormente il terzo Libro, egli avrebbe, senza dubbio, dato a questo passo uno sviluppo molto più ampio. Così come è redatto, rappresenta solo un abbozzo di ciò che vi è da dire sulla questione. Approfondiamo dunque la nostra indagine.

Noi tutti sappiamo che agli inizi della società i prodotti erano consumati dai produttori stessi e che questi produttori erano organizzati primitivamente in comunità aventi una struttura più o meno comunista: che lo scambio dell’eccedenza di questi prodotti con gli stranieri, dal quale trae origine la trasformazione dei prodotti in merci, è di data posteriore, avviene dapprima solo fra alcune comunità di stirpe diversa, e si afferma più tardi nell’interno della comunità contribuendo fortemente alla sua dissoluzione in gruppi di famiglie più o meno grandi. Ma anche dopo questa dissoluzione, i capifamiglia che praticano lo scambio fra di loro, restano dei contadini che lavorano, che producono nel proprio podere con l’aiuto della loro famiglia quasi tutto ciò di cui hanno bisogno e che acquistano all’esterno, barattando l’eccedenza dei loro prodotti, solo una piccola parte degli oggetti necessari. La famiglia non si dedica solamente all’agricoltura e all’allevamento del bestiame, essa trasforma i prodotti così ottenuti in articoli di consumo finiti, macina essa stessa ancora in qualche località, con l’aiuto del mulino a mano, cuoce il pane, fila, tinge, tesse lino e lana, concia la pelle, erige e ripara delle costruzioni in legno, fabbrica strumenti di lavoro e utensili, pratica non di rado il mestiere del falegname e del fabbro, di modo che la famiglia o il gruppo familiare è autosufficiente per le cose principali.

Il poco che una tale famiglia doveva barattare o acquistare dagli altri, consisteva in Germania, fino alla metà del XIX sec., soprattutto di oggetti prodotti dagli artigiani, vale a dire oggetti la cui fabbricazione era ben familiare al contadino, e che egli non produceva direttamente, perchè la materia prima non gli era accessibile, o perchè l’articolo acquistato era molto migliore o molto più a buon mercato. Il contadino del Medioevo conosceva dunque abbastanza esattamente il tempo di lavoro richiesto per la fabbricazione degli oggetti che egli acquistava con lo scambio. Il fabbro, il carpentiere del villaggio lavoravano sotto i suoi occhi: del pari il sarto ed il calzolaio che ancora ai tempi della mia giovinezza andavano presso i nostri contadini renani, di casa in casa, trasformavano in vestiti ed in scarpe le materie prime prodotte dai loro stessi clienti. Sia il contadino che coloro da cui egli acquistava erano essi stessi lavoratori [produttori diretti] (le parole fra parentesi sono cancellate nel manoscritto di Engels), gli articoli che essi scambiavano erano i prodotti propri di ciascuno. Che cosa essi avevano speso nella fabbricazione dei prodotti? Lavoro e solamente lavoro: per sostituire gli strumenti d lavoro, produrre la materia prima, per lavorarla, essi non hanno dato che la propria forza-lavoro: come possono essi dunque scambiare questi loro prodotti con quelli di altri produttori lavoratori se non in ragione del lavoro in essi speso? Il tempo di lavoro speso in questi prodotti non era solamente l’unica misura adatta per la determinazione quantitativa delle grandezze da scambiare: era assolutamente l’unica possibile. O forse si pensa che il contadino e l’artigiano siano stati così stupidi da scambiare il prodotto di un tempo di lavoro uguale a dieci ore contro quello di una sola ora di lavoro dell’altro? Per tutto il periodo dell’economia naturale contadina, non vi è altro scambio possibile che quello in cui le quantità di merci scambiate hanno la tendenza a misurarsi sempre più secondo le masse di lavoro in esse incorporate. Dal momento in cui il denaro fa la sua apparizione in questa organizzazione economica, la tendenza a conformarsi alla legge del valore (nella formulazione di Marx, nota bene!) diviene da un lato ancora più evidente, ma d’altro lato, essa è ostacolata dagli interventi del capitale usurario e dalla rapacità fiscale; i periodi necessari perchè i prezzi si avvicinino in media ai valori fino ad una grandezza trascurabile sono già più lunghi.

Lo stesso si può affermare per lo scambio fra i prodotti dei contadini e quelli degli artigiani delle città.