Soltanto l’operaio non è in grado di ottenere un simile supplemento di valore, ma, per effetto della sua posizione sfavorevole di fronte al capitalista, si trova nella necessità di vendere il suo lavoro per il prezzo che gli costa, vale a dire per l’importo dei mezzi di sussistenza indispensabili.., così che le maggiorazioni di prezzo conservano tutta la loro importanza nei confronti dei salariati compratori e determinano il trasferimento alla classe capitalistica di una parte del valore del prodotto complessivo ».
Non occorre un eccessivo sforzo per vedere che tale spiegazione del profitto del capitale svolta in termini di « economia volgare » sfocia praticamente negli stessi risultati della teoria del plusvalore di Marx; che secondo la tesi di Lexis gli operai si trovano esattamente nella stessa « sfavorevole situazione » postulata da Marx; che essi sono altrettanto defraudati, giacché non è dato loro ciò che è concesso al non lavoratore, di vendere al di sopra del prezzo; e che sulla base di siffatta teoria si può costruire un socialismo volgare per Io meno altrettanto plausibile di quello edificato qui in Inghilterra sulla base della teoria del valore d’uso e dell’utilità marginale di Jevons e Menger. Giungo perfino a supporre che se il signor George Bernard Shaw venisse a conoscenza di simile teoria del profitto, sarebbe capace di ghermirla a due mani e, congedando Jevons e Karl Menger, riedificare su quella pietra la chiesa fabiana dell’avvenire.
In realtà la teoria di Lexis non è che una trascrizione di quella marxistica. Da quale fondo sono ricavati tutti questi aumenti sui prezzi? Dal « prodotto complessivo » degli operai. E ciò è dovuto al fatto che la merce « lavoro » o, come Marx dice, la forza-lavoro, deve essere venduta al di sotto del suo prezzo. Infatti, se la proprietà comune a tutte le merci è di avere un prezzo di vendita superiore al loro costo di produzione, e se il lavoro, unico fra le merci a far eccezione alla regola, è venduto sempre e soltanto al suo costo di produzione, allora il suo prezzo di vendita viene ad essere inferiore a quello che è di norma nel mondo dell’economia volgare. L’extra profitto che in conseguenza tocca al capitalista, o alla classe capitalistica, consiste precisamente in ciò, e in ultima analisi non può prodursi che per la circostanza che l’operaio, dopo aver prodotto l’equivalente del prezzo del proprio lavoro, deve produrre un’ulteriore quota di prodotto per la quale non viene pagato, plusprodotto, prodotto di lavoro non retribuito, plusvalore. Lexis è persona molto cauta nella scelta delle sue espressioni. In nessun luogo dice direttamente che la concezione esposta è la sua; se però così fosse, sarebbe evidente che qui non abbiamo a che fare con uno dei soliti economisti volgari che, come egli stesso ricorda, a parere di Marx « sono nella migliore delle ipotesi soltanto imbecilli senza speranza» , ma con un marxista travestito da economista volgare. Se il travestimento si sia prodotto consciamente oppure inconsciamente, è questione psicologica che in questa sede non ci interessa. Chi la volesse approfondire probabilmente ricercherà in pari tempo come sia stato possibile che a un dato momento un uomo di paglia, quale indubbia mente è Lexis, abbia potuto difendere ancor una volta un’assurdità come quella del bimetallismo.
Il primo, che abbia effettivamente tentato di rispondere alla questione, fu il dott. Conrad Schmidt nel volume Die Durchschnitts profitrate auf Grundiage des Marxschen Wertgesetzes, Stoccarda, Dietz, 1889. Schmidt cerca di far concordare i particolari della formazione del prezzo di mercato sia con la legge del valore che con il saggio medio del profitto. Il capitalista industriale riceve nel suo prodotto, in primo luogo l’equivalente del capitale che ha anticipato, in secondo luogo un plusprodotto, per il quale non ha pagato nulla. Per ottenere però questo plusprodotto, egli deve anticipare nella produzione il suo capitale; cioè per appropriarsi il plusprodotto deve impiegare una determinata quantità di lavoro oggettivato. Per il capitalista questo suo capitale anticipato rappresenta dunque la quantità di lavoro oggettivato che è socialmente necessaria per procurargli il plusprodotto. Lo stesso vale per ogni altro capitalista industriale. Ora, dato che i prodotti, in virtù della legge del valore, si scambiano in proporzione del lavoro socialmente necessario per produrli e dato che il lavoro occorrente al capitalista per il conseguimento del plusprodotto è appunto il lavoro passato, accumulato nel suo capitale, ne consegue che i plusprodotti si scambiano in ragione dei capitali occorsi per la loro produzione e non già in proporzione del lavoro in essi effettivamente incorporato. La quota spettante a ciascuna unità di capitale è dunque eguale al totale di tutti i plusvalori prodotti diviso per il totale dei capitali impiegati allo scopo. Conseguentemente eguali capitali fruttano, in identici periodi di tempo, eguali profitti, risultato che si realizza in quanto il prezzo di costo del plusprodotto, cioè il profitto medio, calcolato nel modo suddetto, si cumula con il prezzo di costo del prodotto pagato e tale prezzo maggiorato diventa il prezzo di vendita del prodotto complessivo, pagato e non pagato. Il saggio medio del profitto si forma nonostante che, come ritiene Schmidt, i prezzi medi delle singole merci si determinino secondo la legge del valore.
La costruzione è assai ingegnosa, conforme al metodo hegeliano; però ha in comune con la maggior parte delle costruzioni hegeliane di non essere esatta. Fra plusprodotto e prodotto pagato non c’è alcuna differenza: se la legge del valore dovesse avere immediata applicazione anche per i prezzi medi, il plusprodotto e il prodotto pagato dovrebbero essere venduti in ragione del lavoro socialmente necessario richiesto e consumato per la loro produzione. La legge del valore è a priori in opposizione con la tesi, derivata dalla concezione capitalistica, secondo cui il lavoro passato, accumulato, in cui consiste il capitale, non sarebbe semplicemente una determinata quantità di valore finito ma, in quanto fattore della produzione e del processo produttivo del profitto, anche generatore di valore, cioè fonte di ulteriore valore oltre quello che esso stesso rappresenta; la legge del valore afferma che tale proprietà spetta solo al lavoro vivente. È noto che i capitalisti si attendono profitti direttamente proporzionali alla quantità dei loro capitali e che quindi considerano le loro anticipazioni di capitale come una specie di prezzo di costo del loro profitto. Ma quando Schmidt ricorre a tale tesi per conciliare con la legge del valore i prezzi calcolati secondo il saggio medio del profitto, egli sopprime la legge stessa del valore, in quanto vi incorpora, come uno dei fattori determinanti, una concezione che è con essa in completa contraddizione.
O il lavoro accumulato è creatore di valore al pari del lavoro vivente. E allora la legge del valore cade. Oppure tale proprietà gli manca. E in tale ipotesi la dimostrazione di Schmidt è incompatibile con la legge del valore.
Schmidt fu portato fuori strada quando era già assai vicino alla soluzione, perchè credeva di dover trovare una formula possibilmente matematica che dimostrasse la concordanza del prezzo medio di ogni singola merce con la legge del valore. Se egli proprio in prossimità della meta prese una via sbagliata, altre parti della sua pubblicazione dimostrano peraltro con quale penetrazione egli abbia tratto ulteriori conclusioni dai primi due Libri del Capitale. A lui spetta l’onore di aver trovato per proprio conto l’esatta spiegazione data da Marx nella terza sezione di questo Libro in merito alla finora inesplicabile tendenza alla diminuzione del saggio del profitto; e sua è la derivazione del profitto commerciale dal plusvalore industriale, nonché tutta una serie di considerazioni sull’interesse e sulla rendita fondiaria, in cui sono anticipati argomenti, che Marx sviluppa nella quarta e quinta sezione di questo terzo Libro.
In un successivo lavoro (Neue Zeit, 1892-93, nn. 3 e 4) Schmidt tenta la soluzione per un’altra via. La quale sbocca in questa proposizione: essere la concorrenza quella che determina il saggio medio del profitto, in quanto essa provoca il trasferimento di capitale da settori di produzione superiore con profitto inferiore al medio, a settori con profitto superiore, al medio.
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