Pertanto, a capitale variabile immutato e a capitale costante in aumento, il plusvalore deve aumentare conforme all’insegnamento di Marx. Tale era il problema a noi dato da risolvere».
Veramente in cento passi del primo Libro Marx dice proprio il contrario, e l’affermazione che, secondo Marx, il plusvalore relativo cresca, in caso di capitale variabile decrescente, nella proporzione in cui si accresce il capitale costante, è così strabiliante che riesce impossibile con un’espressione parlamentare. In ogni riga il sig. Julius Wolf mostra di non avere la minima nozione, né relativa né assoluta, di ciò che sia il plusvalore, sia assoluto, che relativo; egli stesso del resto confessa: « Si ha qui a prima vista l’impressione di trovarsi in un groviglio di assurdità », ciò che, incidentalmente, è l’unica osservazione veritiera di tutto il suo scritto.
Ma che importa tutto questo? Il signor Julius Wolf è così fiero della sua geniale scoperta che non può tralasciare di tributare per ciò postuma lode a Marx e di esaltare questa sua personale imperscrutabile sciocchezza come « una nuova prova dell’acutezza e profondità, con cui Marx ha concepito la sua critica dell’economia capitalistica ».
Ma c’è ancora di meglio: il signor Wolf aggiunge: «Ricardo ha affermato sia: a eguale impiego di capitale, eguale plusvalore (profitto), che: a eguale impiego di lavoro, eguale plusvalore (nel totale). Di qui era sorto il problema: come si concilia l’una con l’altra proposizione? Marx non accettò il problema in quella forma. Indubbiamente egli ha dimostrato (nel. terzo volume) che il secondo enunciato non è un corollario incondizionato della legge del valore ma che anzi è con questa in contraddizione e perciò... è da ripudiare ». E qui egli indaga chi di noi due — io o Marx — abbia sbagliato, non pensando affatto, naturalmente, di esser lui a vagare in pieno errore.
Farei torto ai miei lettori e disconoscerei del tutto il comico della situazione, se volessi sciupare una sola parola su questo stupefacente passo. Soltanto aggiungo: con la stessa sfrontatezza con cui già a quel tempo sapeva annunciare ciò che « Marx aveva indubbiamente dimostrato nel terzo Libro », egli coglie l’occasione per riferire un preteso pettegolezzo da professori, secondo il quale il citato studio di Conrad Schmidt « sarebbe ispirato direttamente. da Engels ». Signor Julius Wolf! Può essere consuetudine nel mondo in cui Lei vive e si agita, che una persona che abbia posto ad altri pubblicamente un problema ne comunichi in segreto la soluzione ai propri amici. Che Lei ne sia capace, posso facilmente crederlo. Ma che nel mondo in cui io mi muovo non occorra abbassarsi a simili miserie, glielo dimostra la presente prefazione.
Marx era appena morto, che subito il signor Achille Loria pubblicava un articolo su di lui nella Nuova Antologia (aprile 1883): innanzitutto una biografia infarcita di dati inesatti, quindi una critica della sua attività pubblica, politica e letteraria. La concezione materialistica della storia di Marx è ivi falsata e deformata con una sicurezza che fa sospettare un ambizioso disegno. E questo disegno fu realizzato nel 1886, quando lo stesso signor Loria pubblicò un volume, La teoria economica della costituzione politica, in cui annunciava ai suoi sbalorditi contemporanei come sua personale scoperta la teoria marxista della storia così radicalmente e premeditatamente sfigurata nel 1883. La teoria marxista è ivi abbassata a un livello di notevole filisteismo; e le citazioni ed esemplificazioni storiche abbondano di spropositi, che non si lascerebbero passare ad uno scolaro di quarta; ma che importa tutto ciò? La scoperta che in ogni luogo e tempo le situazioni e gli eventi politici trovano la loro spiegazione nelle corrispondenti condizioni economiche, fu opera — ivi si dimostra — per nulla affatto di Marx nell’anno 1845, ma del signor Loria nel 1886. Questo, almeno egli è felicemente riuscito a dar ad intendere ai suoi compatrioti e anche — poiché il suo libro apparve in francese — a taluni francesi; sicché ora in Italia egli può andar tronfio come autore di una nuova teoria storica che fa epoca, finché i socialisti italiani non trovino il tempo di strappare all’illustre Loria le penne di pavone rubate.
Ma questo non è che un piccolo esempio della maniera del signor Loria. Egli ci assicura che tutte le teorie di Marx poggiano su un consaputo sofisma che Marx non recede davanti a paralogismi, pur sapendoli tali e così via. E dopo che con tutta una sequela di simili grossolane barzellette ha fornito ai suoi lettori il necessario per considerare Marx come un arrivista alla Loria che mette in scena le sue medesime trovate con gli stessi scorretti mezzucci da ciarlatano del professore padovano, egli può confidar loro un importante segreto; ed eccoci così ricondotti al saggio del profitto.
Il signor Loria dice: secondo Marx, la massa del plusvalore (che Loria qui identifica con il profitto) prodotta in un’impresa capitalistica industriale, dipende dal capitale variabile ivi impiegato, non producendo il capitale costante alcun profitto. Ma ciò è in contrasto con la realtà: giacché in pratica il profitto è in ragione non del capitale variabile, ma del capitale complessivo. E Marx stesso se ne avvede (I, cap. XI) e ammette che in apparenza i fatti contraddicono la sua teoria. Ma come risolve la contraddizione? Rinviando i suoi lettori ad un successivo volume non ancora apparso. A proposito del qual volume già in precedenza Loria aveva detto ai suoi lettori che non riteneva che Marx avesse mai pensato un solo istante di scriverlo; ed eccolo ora gridare trionfalmente: « Non a torto io ho affermato che questo secondo volume con cui Marx minaccia continuamente i suoi avversari senza che esso appaia, questo volume può essere un ingegnoso espediente ideato dal Marx a sostituzione degli argomenti scientifici ». E chi non si è ancora convinto che Marx si trova sullo stesso piano di ciarlatanismo scientifico dell’illustre Loria, è davvero un incorreggibile senza rimedio.
Questo dunque abbiamo imparato: secondo il signor Loria la teoria marxista del plusvalore è assolutamente inconciliabile con la realtà di un saggio generale ed uniforme del profitto. Apparve allora il secondo Libro, e con esso la questione da me pubblicamente posta proprio su questo stesso punto. Se il signor Loria fosse stato uno di noi timidi tedeschi, si sarebbe trovato in imbarazzo. Ma egli è un meridionale ardito, originario di un paese caldo, dove — come egli può testimoniare — la sfrontatezza è in un certo senso una condizione naturale. Il problema del saggio del profitto è pubblicamente posto.
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