Il Diavolo In Corpo

Raymond Radiguet

IL DIAVOLO IN CORPO

Traduzioni telematiche a cura di:

Rosaria Biondi, Nadia Ponti, Giulio Cacciotti, Vincenzo Guagliardo.

(Casa di reclusione - Opera)

Sarò molto biasimato. Ma che farci? Non è colpa mia se compii dodici anni qualche mese prima della dichiarazione di guerra.

Certo la crisi prodotta in me dall’eccezionale periodo che attraversavamo non fu di quelle che in generale si verificano a dodici anni; ma siccome, anche se pare il contrario, non c’è forza al mondo che possa invecchiarci oltre l’età, era fatale che mi conducessi da fanciullo in una avventura in cui anche un uomo si sarebbe trovato imbarazzato. E il mio non è un caso eccezionale. Anche i miei coetanei devono conservare di quel periodo un ricordo che non è quello dei loro fratelli maggiori.

Coloro che già mi guardano in cagnesco ricordino quello che fu la guerra per tanti giovanissimi: quattro anni di continue vacanze.

Abitavamo a F…, sulla Marna.

I miei genitori inclinavano piuttosto a riprovare che si facesse comunella tra fanciulli e ragazzette. La sensualità, che nasce con noi e si manifesta ancora cieca, se ne accrebbe piuttosto che diminuire.

Non sono mai stato un sognatore. Quel che ad altri, più creduli, sembra sogno, pareva a me altrettanto reale quanto il formaggio al gatto, a dispetto della campana di vetro. Pure la campana esiste.

Se la campana va in pezzi, tanto meglio pel gatto anche se sono i suoi padroni a romperla, e se si feriscono le mani.

Fino a dodici anni, non ricordo di aver avuto nessun amoretto, tranne che per una bambina che si chiamava Carmen, a cui feci consegnare, da un ragazzo più giovane di me, una lettera in cui le esprimevo il mio amore. Forte di esso sollecitavo un appuntamento. La mia lettera le era stata consegnata la mattina, prima dell’ora di scuola. Avevo isolato nella massa la sola bambina che mi somigliasse, perché era molto perbene, e veniva a scuola accompagnata da una sorellina, come io dal mio fratellino. Perché questi due testimoni tacessero, pensai, per così dire, di sposarli tra loro. Alla mia lettera, ne aggiunsi un’altra, da parte di mio fratello, che non sapeva scrivere, per la signorina Capinera. Spiegai a mio fratello la cosa, quale fortuna fosse la nostra di trovar proprio due sorelle della nostra età e dotate di nomi di battesimo così eccezionali. Ebbi la tristezza di vedere che non m’ero ingannato sul perbenismo di Carmen, quando, dopo aver fatto colazione coi miei genitori che mi viziavano e non mi sgridavano mai, tornai a scuola.

I miei compagni erano appena seduti ai loro posti - io in fondo alla classe, chino a prendere da un armadio, nella mia qualità di primo della classe, i volumi per la lettura ad alta voce - quando entrò il direttore. Gli alunni si alzarono. Teneva in mano una lettera. Mi mancarono le gambe, i volumi caddero, e io li raccattai, mentre il direttore discorreva col maestro. Già gli alunni del primo banco si volgevano verso di me, che stavo, scarlatto, in fondo alla classe, perché sentivo sussurrare il mio nome. Finalmente il direttore mi chiamò e per punirmi con finezza, senza - credeva lui - destar sospetti negli alunni, si rallegrò con me, perché avevo scritto una lettera di dodici righe senza nessun errore. Mi chiese se l’avevo scritta proprio senz’aiuto di nessuno, poi mi pregò di seguirlo nel suo ufficio. Non ci andammo.