Mi ammonì in cortile, sotto la pioggia.
Quel che imbrogliò molto le mie nozioni di morale, fu che egli considerava altrettanto grave da parte mia aver compromesso la giovinetta (i cui genitori gli avevano fatto leggere la mia dichiarazione) quanto aver rubato un foglio di carta da lettere.
Minacciò di mandare la lettera a casa. Lo supplicai di non farlo.
Cedé; mi disse però che avrebbe conservato la lettera, e che, alla prima recidiva, non avrebbe più potuto nascondere la mia cattiva condotta.
C’era in me un miscuglio di sfacciataggine e timidezza che disorientava i miei e li ingannava, così come, a scuola, la mia facilità d’imparare - vera e propria pigrizia - mi faceva passare per un buon alunno.
Tornai in classe. Il professore, ironico, mi chiamò Don Giovanni. Ne fui molto lusingato, specialmente perché mi citava il titolo di un’opera che io conoscevo e i miei compagni no. Il suo “Buongiorno, Don Giovanni” e il mio sorriso d’intelligenza trasformarono la classe a mio riguardo. Forse avevano già saputo che avevo incaricato un bambino delle inferiori di portare una lettera a una “femmina”, come dicono gli scolari, nel loro duro linguaggio. Il bambino si chiamava Messaggero; non lo avevo scelto pel suo nome, ma, pure, il nome mi aveva ispirato fiducia.
All’una, avevo supplicato il direttore di non dir nulla a mio padre; alle quattro, ardevo dal desiderio di raccontargli tutto. Niente mi ci costringeva. Potrei gabellare la mia confessione come ispirata da lealtà. Ma, siccome sapevo che mio padre non sarebbe andato in collera, ero, tutto sommato, felice di fargli sapere la mia prodezza.
Confessai, dunque, aggiungendo con orgoglio che il direttore mi aveva promesso una discrezione assoluta (come a una persona grande). Mio padre, che voleva sapere se non avevo inventato di sana pianta quel romanzo d’amore, andò dal direttore. Nel corso della visita, parlò di sfuggita di quel che credeva essere una mia invenzione. “Come?”, disse allora il direttore sorpreso e molto seccato, “ve lo ha raccontato? Mi aveva supplicato di tacere, dicendo che lo avreste massacrato.”
Questa menzogna del direttore, che doveva servirgli di scusa, contribuì alla mia ebbrezza d’uomo. Ci guadagnai a un tratto la stima dei compagni e le occhiate d’intelligenza del professore. Il direttore dissimulava il suo rancore. Il disgraziato ignorava quello che io invece sapevo già: mio padre, urtato da come si era condotto, aveva deciso di farmi finire l’anno scolastico, e togliermi poi dalla sua scuola. Eravamo allora al principio di giugno. Mia madre, che non voleva mettere in pericolo medaglie e corone, si riservava di dire la sua dopo la distribuzione dei premi. Venuto quel giorno, grazie a un’ingiustizia del direttore che temeva confusamente le conseguenze della sua menzogna, unico della classe ebbi la corona d’oro, la quale sarebbe toccata anch’essa all’alunno che aveva riportato il “premio d’eccellenza”. Calcolo sbagliato: la scuola perdé i due migliori alunni, perché anche il padre del “premio d’eccellenza” ritirò il figlio.
Alunni come noi servivano di richiamo per attirarne altri.
Mia madre mi trovava troppo piccolo per andare al liceo “Enrico Quarto”; voleva dire: per prendere il treno. Restai due anni a casa e studiai da solo.
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