Mi piaceva sentire il cuore battere veloce e irregolarmente. Ma quello spettacolo profondamente poetico mi soddisfaceva di più. “Come sei pallido,” aveva detto mia madre. Diedi la colpa ai fuochi di bengala. Mi davano, dissi, quel color verde.
“Ho paura che gli faccia troppa impressione,” disse a mio padre.
“Che!”, rispose, “è proprio insensibile. Può vedere qualunque cosa, tranne che scorticare un coniglio.”
Mio padre diceva questo per farmi restare. Ma sapeva che quello spettacolo mi sconvolgeva. Sentivo che sconvolgeva anche lui. Lo pregai di prendermi sulle spalle per farmi veder meglio. In realtà, stavo per svenire, le gambe non mi reggevano più.
Non c’erano più che poche persone, una ventina. Sentimmo le trombe: la fiaccolata.
Cento torce illuminarono, all’improvviso, la folla, come, dopo la luce dolce della ribalta, il magnesio sfolgora per la fotografia di una nuova “stella”. Allora, agitando le mani in segno d’addio, e credendo alla fine del mondo, o semplicemente che stavano per prenderla, la donna si gettò dal tetto, fracassò, cadendo, la tettoia di vetro, con un rumore spaventoso, per venire a schiacciarsi sui gradini di pietra.
Fino allora avevo cercato di sopportare, benché le orecchie mi scampanassero e il cuore mi venisse meno. Ma, quando sentii gridare:
“Vive ancora,” caddi, senza conoscenza, dalle spalle di mio padre.
Quando fui tornato in me, mi condusse sulla riva della Marna. Vi restammo fino a molto tardi, in silenzio, distesi sull’erba.
Al ritorno, credetti di vedere dietro il cancello una figura bianca: il fantasma della domestica! Era papà Maréchaud in berretto da notte di cotone, che contemplava i danni, la tettoia, le tegole, il prato, i gradini coperti di sangue, il suo prestigio distrutto.
Se insisto sopra questo episodio, è perché mi ha fatto comprendere meglio di ogni altra cosa lo strano periodo della guerra e quanto, più che il pittoresco, mi colpisse la poesia delle cose.
Sentimmo il cannone. Si combatteva presso Meaux. Dicevano anche che, vicino a Lagny, a quindici chilometri da noi, erano stati catturati degli ulani. Mentre mia zia parlava di una sua amica che era fuggita, dopo aver sotterrato in giardino orologi a pendolo e scatole di sardine, chiesi a mio padre di far trasportare i nostri vecchi libri; era quello che più mi sarebbe dispiaciuto di perdere.
Finalmente, nel momento in cui ci preparavamo a fuggire, i giornali ci fecero sapere che era inutile.
Le mie sorelle, ora, andavano a J… a portare cestini di pere ai feriti. Avevano trovato un compenso, mediocre è vero, a tutti i loro bei progetti andati in fumo. Quando arrivavano a J…, i cestini erano quasi vuoti!
Dovevo entrare al liceo “Enrico Quarto”; mio padre però preferì tenermi ancora un anno in campagna.
1 comment