Il diavolo sulle colline
Cesare Pavese
Il diavolo sulle colline
Giulio Einaudi Editore, Torino
> Digitalizzazione a cura di Yorikarus @ forum.tntvillage.scambioetico.org <
I.
Eravamo molto giovani. Credo che in quell’anno non dormissi mai. Ma avevo un amico che dormiva meno ancora di me, e certe mattine lo si vedeva già passeggiare davanti alla Stazione nell’ora che arrivano e partono i primi treni. L’avevamo lasciato a notte alta, sul portone; Pieretto aveva fatto un altro giro, e visto l’alba addirittura, bevuto il caffè. Adesso studiava le facce assonnate di spazzini e di ciclisti. Nemmeno lui ricordava i discorsi della notte: vegliandoci sopra, li aveva smaltiti, e diceva tranquillo: - Si fa tardi. Vado a letto.
Qualcuno degli altri, che ci trottava dietro, non capiva che cosa facessimo a una cert’ora, finito il cinema, finite le risorse, le osterie, i discorsi. Si sedeva con noi tre sulle panchine, ci ascoltava brontolare o sghignazzare, s’infiammava all’idea di andare a svegliare le ragazze o aspettare l’aurora sulle colline, poi a un nostro cambiamento di umore tentennava e trovava il coraggio di tornarsene a casa. L’indomani costui ci chiedeva: - Che cos’avete poi fatto? - Non era facile rispondergli. Avevamo ascoltato un ubriaco, guardato attaccare i manifesti, fatto il giro dei Mercati, visto passare delle pecore sui corsi. Allora Pieretto diceva: - Abbiamo fatto conoscenza con una donna.
L’altro non ci credeva ma restava interdetto.
- Ci vuole perseveranza, - diceva Pieretto. - Si passa e ripassa sotto il balcone. Tutta la notte: lei lo sa, se ne accorge. Non c’è bisogno di conoscerla, se lo sente nel sangue. Viene il momento che non ne può più, salta dal letto, e ti spalanca le persiane. Tu appoggi la scala...
Ma fra noi tre non si parlava volentieri di donne. Non, almeno, sul serio. Né Pieretto né Oreste mi dicevano tutto di sé. Per questo mi piacevano. Le donne, quelle che separano, sarebbero venute più tardi. Per adesso parlavamo soltanto di questo mondo, della pioggia e del sole, e tanto ci piaceva che andare a dormire ci pareva di perdere davvero tempo.
Una notte di quell’anno eravamo in riva a Po, sulla panchina del viale. Oreste aveva borbottato: - Andiamo a letto.
- Accucciati lì, - gli avevamo detto, - perché vuoi sprecare l’estate? Non puoi dormire con un occhio solo?
Oreste, appoggiato sulla guancia alla spalliera della panchina, ci guardò di sottecchi.
Io dicevo che in città non si sarebbe mai dovuto dormire. - È sempre acceso, sempre giorno. Bisognerebbe far qualcosa ogni notte.
- È che siete ragazzi, - disse Pieretto, - siete ragazzi e siete ingordi.
- Tu cosa sei? - dissi, - un vecchio?
Oreste saltò su d’improvviso: - I vecchi, dicono, non dormono mai. Noi giriamo di notte. Vorrei sapere chi è che dorme.
Pieretto ghignava.
- Cosa c’è? - dissi cauto.
- Per dormire ci vuol prima la donna, - disse Pieretto. - Ecco perché né voi né i vecchi non dormite.
- Sarà, - borbottò Oreste, - ma casco dal sonno lo stesso.
- Tu non sei di città, - disse Pieretto. - Per la gente come te la notte ha ancora un senso, quello di una volta. Sei come i cani da pagliaio o le galline.
Erano le due passate. La collina, oltre Po, scintillava.
1 comment