Faceva fresco, quasi freddo.
Ci alzammo e risalimmo verso il centro. Io rimuginavo la strana abilità di Pieretto a mettersi sempre con le spalle al sicuro, e farci dire che eravamo degli ingenui. Né Oreste né io, per esempio, perdevamo troppi sonni pensando alle donne. Mi chiesi un’ennesima volta che vita poteva avere fatto Pieretto prima di venire a Torino.
Sulle panchine dell’aiuola della Stazione, sotto l’ombra scarsa di quegli alberelli, dormivano a bocca aperta due pezzenti. Scamiciati, capelli e barba ricciuti, sembravano zingari. Ci sono i cessi a pochi passi, e per quanto la notte sapesse di fresco e d’estate, regnava in quel luogo un tanfo, un fortore, che sentiva della lunga giornata di sole e movimento e frastuono, di sudore e di asfalto consunto, di folla senza pace. Verso sera su quelle panchine - oasi magra nel cuore di Torino - si siedono sempre donnette, solitari, venditori ambulanti, spiantati, e si annoiano, aspettano, invecchiano. Che cosa aspettano? Pieretto diceva che aspettano qualcosa di grosso, il crollo della città, l’apocalissi. Qualche volta un temporale d’estate li scaccia e lava ogni cosa.
I due di quella notte dormivano come morti sgozzati. Sulla piazza deserta qualche insegna luminosa parlava ancora al cielo vuoto, gettando riflessi sui due morti. - Gente a posto, - disse Oreste. - Ci insegnano come si fa.
Si staccò per andarsene.
- Vieni con noi, - disse Pieretto, - a casa non ti aspetta nessuno.
- Nemmeno dove andate voi, - disse Oreste, ma rimase.
Prendemmo per i portici nuovi. - Quei due, - dissi piano. - Dev’essere bello svegliarsi al primo sole in piazza.
Pieretto non disse la sua.
- Dove andiamo? - feci, fermandomi.
Pieretto andò avanti qualche passo, e si fermò.
- Capisco andare in qualche posto, - dissi. - Invece è chiuso dappertutto. Non c’è un’anima. Mi domando a cosa serve questa gran luminaria.
Pieretto non disse al suo solito «E tu, servi a qualcosa?» ma brontolò: - Vuoi che andiamo in collina?
- È lontano, - dissi.
- È lontano ma sa quell’odore, - disse lui.
Ridiscendemmo il grande corso; sul ponte ebbi freddo; poi attaccammo la salita a passo svelto, per uscire dai paraggi noti. Era umido, buio, senza luna; balenavano lucciole. Dopo un po’ rallentammo, in sudore. Mentre andavamo, parlavamo di noi. Ne parlavamo con calore, tiravamo anche Oreste nel discorso; quelle strade le avevamo percorse altre volte scaldati dal vino o dalla compagnia; ma tutto questo non contava, era un pretesto per andare, salire, avere il grosso della collina sotto i piedi. Passavamo fra i campi, i recinti, i cancelli di ville, fiutavamo l’asfalto e il bosco.
- Per me non c’è differenza da un fiore in un vaso, - disse Pieretto.
Per strano che paia, non eravamo mai saliti fino in cima, almeno per quella strada. Ci doveva essere un punto, un valico, dove la strada pianeggiava, il balzo estremo della costa, ch’io immaginavo come un’ultima siepe, un balcone aperto sul mondo esterno delle pianure. Da altri punti delle colline, da Superga, dal Pino, avevamo già guardato di là, in pieno giorno. Oreste ci aveva additato all’orizzonte di quel mare di bricchi ombre vaghe e selvose, i suoi paesi.
- È proprio tardi, - disse Oreste. - Qui una volta era pieno di locali.
- Chiudono a una cert’ora, - disse Pieretto. - Ma chi è dentro continua a far baldoria.
- Val la pena di venire in collina, d’estate, - dissi, - per divertirsi a porte e persiane chiuse.
- Avranno un giardino, - disse Oreste, - dei prati. Dormiranno nel parco.
- Viene il momento che anche i parchi finiscono, -dissi. - Viene il bosco e la vigna.
Oreste grugnì. Dissi a Pieretto: - Tu non conosci la campagna.
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