L’ideale del poeta è quel vecchiettino Cilice, trapiantato dalla sua patria nei dintorni di Taranto. Aveva avuto pochi iugeri di terra non buona né a grano né a prato né a vigna: una grillaia, uno scopiccio. Ebbene il bravo vecchiettino ne aveva fatto un orto, con non solo i suoi cavoli, ma anche gigli e rose, e alberi da frutta, e bugni d’api, e vivai di piante (20) .

Sì: il poco e il piccolo era il sogno dei due grandi fraterni poeti.

Virgilio diceva: Loda la campagna grande, e tienti alla piccina (21).

E Orazio: Questo era il mio voto: un campicello non tanto grande, con l’orto, con una fonte, e per giunta un po’ di selvetta (22). Chi non dovrebbe preferire la campagna grande alla piccola, quando non toccasse di coltivarla a lui? Ma ai due poeti, quando erano poeti, non si presentava al pensiero questa considerazione così semplice. A dir meglio, il fanciullo che era in loro, preferiva, come tutti i fanciulli, ciò che è piccolo: il cavallino, la carrozzina, l’aiolina. Oh! c’è chi ha rimproverato a Orazio quest’amor della mediocrità! Ma esser poeta della mediocrità, non vuol dire davvero essere poeta mediocre. Il contrario, anzi, è vero. Non ama, chi dice di amare un serraglio di donne. Non è poeta, chi non si fissa in una visione che i suoi occhi possano misurare.

E le cose grandi, le cose ricche, le cose sublimi non riescono poetiche, se non sono sentite e dette in persona di chi stupisce avanti loro, perché appunto esso è piccolo, è povero, è umile. Il poeta è il poverello dell’umanità, spesso anche cieco e vecchio. E se tale non sembra, se anzi è gran signore e giovane e felice, ebbene vuol dire che se è ricco lui, è pauperculus però il fanciullino che è in lui; cioè si è conservato povero, come a dire fanciullo. Perché poverino è sempre il bimbo, sia pur nato in una culla d’oro, e tende sempre la mano a tutto e a tutti, come non avesse niente e desidera il boccon di pan duro del suo compagno trito, e vorresse fare il duro lavoro del suo compagno tribolato. Per questo non Virgilio proprio, ma il fanciullo che egli aveva in cuore, non voleva gli schiavi nei campi. Diremo noi che Virgilio attingesse dai libri di qualche filosofo o di qualche profeta questa legge di libertà? No: egli stesso ne era forse inconsapevole, di questa libertà che proclamava. Era la sua poesia che aboliva la servitù, perché la servitù non era poetica.

Non era poetica, e il divino fanciullo che non vede se non ciò che è poetico, non la vedeva. Tanto che noi, se non avessimo dei tempi di Virgilio altro testimone che Virgilio, dovremmo credere che non esistesse allora più questa miseria e vergogna che non è cessata nemmeno ai nostri, di tempi.

Oh! Dovremmo credere che il Cristo non anco nato ispirasse al poeta contadino dell’Esperia, come il vaticinio del suo avvento, così il presentimento della grande fratellanza umana! Non c’è la schiavitù nell’Italia Virgiliana: nemmeno c’è il salariato, nemmeno il mezzadro!

X.

Così il poeta vero, senza farlo apposta e senza andarsene, portando, per dirla con Dante, il lume dietro, anzi no, dentro, dentro la cara anima portando lo splendore e ardore della lampada che è la poesia; è, come si Giovanni Pascoli

dice oggi, socialista, o come si avrebbe a dire, umano. Così la poesia, non ad altro intonata che a poesia, è quella che migliora e rigenera l’umanità, escludendone, non di proposito il male, ma naturalmente l’impoetico. Ora si trova a mano a mano che impoetico è ciò che la morale riconosce cattivo e ciò che l’estetica proclama brutto. Ma di ciò che è cattivo e brutto non giudica, nel nostro caso, il barbato filosofo. È il fanciullo interiore che ne ha schifo. Il quale come narrando le imprese dei suoi eroi, e dicendo tutto di loro, e, oltre le battaglie e i discorsi, anche i pasti e i sonni, e figurando a noi, per esempio, i loro cavalli, e ridicendo che brucavano e sudavano e spumavano, pur non dice mai (tu vedi che procuro quanto posso, che tu non torca il niffolo) non dice mai che stallavano; così della nostra anima non racconta che il buono e della nostra visione non ricorda che il bello. Ché per cantare il male bisogna fare uno sforzo continuo su se stesso, a meno che non si tratti di pazzia. E in questo caso, la pazzia sta appunto in questo, di pensar da buoni e cantar da cattivi.