Il giro del mondo in 80 giorni

 

Jules Verne.

IL GIRO DEL MONDO IN 80 GIORNI.

 

Titolo originale  dell’opera:  « Le  tour  du  monde  en  quatre-vingts jours”.

Traduzione dal francese di P. Roudolph e Luigi Giovannini.

Introduzione di Luigi Giovannini.

 

 

 

INTRODUZIONE.

 

«D’ora in poi viaggerò solo con la fantasia».

Questa fu la solenne promessa - che però non mantenne per intero - che l’undicenne  Jules  Verne fece a suo padre che l’era andato a bloccare mentre stava imbarcandosi come mozzo su una nave che  partiva  per  le lontane Indie.  E’ un episodio da non dimenticare,  se si vuole capire Verne,  perché fa ben comprendere d’un lato i  suoi  sogni  e  il  suo coraggio, dall’altro il suo realismo e la sua rigorosità morale.  Jules  Verne era nato a Nantes l’8 febbraio 1828.  Suo padre,  Pierre, faceva l’avvocato in quella città capoluogo  del  dipartimento  Loire-Atlantique,  ma era originario di Lione;  sua madre, Sophie Allotte de la Fuye,  apparteneva a una famiglia di navigatori e di armatori.  Per completare  il  panorama  delle  ascendenze genealogiche,  spesso così importanti soprattutto nel passato  per  determinare  il  destino  dei ragazzi,  bisogna ricordare che anche il papà e il nonno di Pierre,  e quindi il nonno e il bisnonno di Jules, erano stati magistrati, mentre uno zio, Chaubourg,  di professione pittore,  aveva sposato la sorella più   piccola  del  celeberrimo  Chateaubriand  (e  questo  legame  di parentela avrebbe giovato più tardi a Jules,  durante il suo soggiorno parigino).

All’età  di  cinque  anni,  Jules  era stato alla scuola gestita dalla signora Sambin,  vedova di un capitano di lungo  corso,  scomparso  in mare  ormai  da qualche tempo,  ma che la signora Sambin continuava ad attendere al di là di ogni ragionevole speranza.  Il piccolo Verne aveva proseguito,  poi,  i  suoi  studi  alla  Scuola Saint-Stanislas  e  successivamente  nel  seminario  minore  di Saint-Donatien,  dove aveva avuto sempre fama di allievo  modello  e  veniva proposto come esemplare per il suo fratellino Paul,  più giovane di un anno e che era il «coccolino di mamma».

Arriviamo così all’episodio che dicevamo. Nell’estate del 1839, quando dunque Jules aveva undici anni compiuti da  poco,  la  famiglia  Verne (che  s’era  arricchita  nel  frattempo di tre fanciulline) si recò in vacanza a Chantenay, non lontano da Nantes,  di cui è anzi considerato oggi  il  sobborgo industriale.  Una ventina di chilometri della Loira separavano e separano Chantenay da Paimboeuf, dove la Loira comincia a sposarsi con l’Atlantico in un vasto estuario che ha in  Saint-Nazaire (distrutta  dai  bombardamenti anglo-americani nel 1943) il suo centro principale.  Di tutti questi nomi,  il più importante  per  la  nostra storia  è  quello  di  Paimboeuf,  abitato  oggi  da poco meno di 4000 «paimblotins» (così si chiamano i  suoi  abitanti),  che  si  dedicano principalmente a produzioni chimiche.

Fu  a  Paimboeuf  infatti che si svolse il concitato dialogo tra Jules Verne e suo padre, che si concluse con la solenne promessa che abbiamo ricordato più sopra. A Paimboeuf s’era ancorato,  pronto a spiccare il grande balzo, il transatlantico «Coralie», che aveva come destinazione le Indie.  Il piccolo Jules aveva già ottenuto di essere preso a bordo come mozzo,  quando i suoi si accorsero - giusto in tempo - della  sua scomparsa.

Cosa  aveva  spinto  il  ragazzo  a  prendere  quella grave decisione?  Sarebbe  stato  forse  come  chiedere  al  pastorello  Giotto   perché disegnasse  le  pecore che stava pascolando o a Mozart perché giocasse con le note anziché con i birilli. Era cioè la «spia» di una vocazione all’avventura in mari lontani? Papà Pierre non stette a guardare tanto per il sottile e così riuscì a scoprire che non  era  una  particolare sete  dell’avventura a far partire il piccolo Jules per terre lontane, ma che il ragazzino aveva l’intenzione di andare a prendere sul  posto una collana di corallo esotico per la cuginetta Caroline Tronson,  che gli aveva ferito il cuore e alla quale intendeva  dimostrare  così  il suo  coraggio  e il suo amore.  Amici miei,  non ridete di Jules,  per piacere.  Se siete ragazzi (o ragazzine!) ora,  voi  certo  capite  (o capirete  presto)  che cosa passava in quel cuoricino;  e se non siete più ragazzini (o ragazzine),  siate onesti con voi stessi:  non  avete sognato anche voi?  (E se non lo avete fatto consentitemi di dirvi che vi compiango di cuore!).

Comunque,  Jules accettò di tornare a casa e di  dimostrare  in  altro modo la sua sete di avventure e il suo amore per Caroline. L’episodio, e questo è molto importante,  non guastò affatto la fiducia riposta in lui dai suoi genitori che  s’azzardarono  anzi  a  trasferirsi  l’anno successivo,  nel 1840, nell’isola Feydeau, un quartiere di ex armatori e vicinissimo agli attracchi e al porto.

D’altra parte Jules ricambiò la fiducia  dei  genitori  intraprendendo gli  studi  di  diritto,  ai quali non si sentiva portato,  dopo avere concluso trionfalmente col baccellierato la sua  permanenza  al  Lycée Royal.  Avrebbe  preso  così  la successione del padre nel suo avviato studio di consulenza legale,  mentre il «cocchino» Paul avrebbe potuto diventare ufficiale di marina. Così è la vita...  Ma niente paura. Il nostro Jules non sarebbe stato costretto a passare la  sua  vita tra scartoffie e cavilli giuridici,  e si sarebbe scelto lui stesso una vita  tra  le  carte  (geografiche  e  nautiche)  e  la compagnia  di  eroi  e  grandi  mascalzoni  che difficilmente si fanno vedere nelle aule di un tribunale,  perché devono dimostrare  il  loro valore  e raccogliere il fio delle loro colpe in ben altri «ambienti», ossia in cielo, in terra e in mare aperto.  Jules ottenne d’altra parte il contentino di  andare  a  proseguire  i suoi  studi legali a Parigi,  dove si recò una prima volta nell’aprile del 1847 superando brillantemente gli esami del primo anno e  dove  si stabilì a partire dal 1848. Tra i motivi dell’allontanamento da Nantes vi  era  ancora  una  volta  quella benedetta cugina Caroline Tronson: insensibile all’adorazione  di  Jules,  questa  aveva  fatto  un’altra irrevocabile scelta. Scrivendo a un amico musicista, Verne manifestava allora  la  sua  intenzione  di vendicarsi a modo suo: «Parto,  perché (Caroline) non mi ha voluto,  ma vedranno un giorno  di  che  legno  è fatto questo povero giovanotto che si chiama Jules Verne».  Avrebbe avuto ragione, anche se avrebbe dovuto attendere qualche anno.  Conclusi  gli  studi  con  la  licenza nel 1849,  e rifiutando di fare ritorno a Nantes, Jules decise di dedicarsi all’attività letteraria, e più precisamente teatrale.  Non ebbe un gran successo in questo campo, anche  se  non  gli  mancarono  appoggi  potentissimi,  come quelli di Alexandre Dumas padre, di Alexandre Dumas figlio e di Edouard Seveste.  Ma un’amicizia giusta fu pure quella di un musicista  originario  come lui di Nantes,  Hignard: poco più di un modesto artigiano, questi ebbe tuttavia nel 1859 il merito di condurre con sé Verne in un viaggio  in Scozia  finanziato da suo padre,  e quel viaggio sarebbe stato un vero «colpo di fulmine» per Jules,  che due  anni  dopo,  sempre  grazie  a Hignard   e   insieme  a  lui,   avrebbe  visitato  anche  Norvegia  e Scandinavia.

«Il merito è, in gran parte, di un editore».

Il libro,  lo si sa,  è anzitutto opera di  uno  «scrittore»  (che  si chiama  così  appunto  perché  «scrive»),  e  per  questo,  quando  ne prendiamo in mano uno,  subito dopo o  insieme  al  titolo,  guardiamo immediatamente  chi  sia  l’”autore”,   lo  scrittore.  Ma  un  libro, soprattutto un libro che arriva nelle mani  di  tante  persone,  è  in realtà  frutto dell’opera di molti altri oltre che dello scrittore.  E tra questi altri,  consentitemi di ricordare la  figura  dell’editore, cioè  del  responsabile della conduzione di una casa editrice,  il più importante mediatore o tramite fra autore e lettore.  Chi è l’editore? E’ un uomo di cultura che,  ordinariamente,  prima di mettersi  a  stampare libri,  ne ha letti parecchi e forse ne ha anche scritti; ma è anche un industriale,  un imprenditore,  cioè uno che sa organizzare  il  lavoro  culturale  e  tecnico  di  numerose  persone, investendo in questo lavoro dei capitali che solitamente riesce a fare rientrare in cassa con un  pareggio  di  bilancio  o  addirittura  con qualche  guadagno.  (In  caso  diverso,  deve  avere  qualcuno  che lo «finanzi» e che certo non concede gratis il suo denaro...).  Perché tutta questa  digressione  sulla  figura  dell’editore?  Perché ritengo  che  in  gran  parte  il merito dei libri di Jules Verne vada appunto attribuito a un editore, Pierre-Jules Hetzel.  Questi era nato 14  anni prima di Verne,  nel 1814,  e aveva cominciato come Verne gli studi di diritto, ma era stato meno costante di lui.  Aveva intrapreso anche   l’attività  diplomatica,   assumendo  l’incarico  di  Capo  di Gabinetto per il Ministero degli Esteri nel 1848,  quando  il  Governo era  presieduto  da  Louis  Eugène Cavaignac,  l’ex generale che aveva mostrato una grande energia nel reprimere  l’insurrezione  democratica del 23-26 giugno 1848. Il 2 dicembre 1851, però, Carlo Luigi Napoleone Bonaparte,  figlio  di  Luigi Bonaparte re d’Olanda e quindi nipote di Napoleone Bonaparte,  attuò il suo colpo di Stato che avrebbe fatto di lui  l’imperatore  Napoleone  Terzo e Pierre-Jules Hetzel,  che era di fede repubblicana, dovette prendere la via dell’esilio.  Hetzel rientrò in Francia solo nel 1859  e  decise  di  dedicarsi  per intero  all’attività  editoriale.  Era  un  ritorno  al  primo  amore.  L’attività editoriale,  infatti,  l’aveva intrapresa a  22  anni,  nel 1836,  quando si era impiegato come semplice commesso presso l’editore parigino Paulin,  e in essa aveva fatto una rapida carriera: appena un anno  dopo,  nel 1837,  il Paulin avendo intuito le grandi capacità di quel giovanotto,  lo aveva voluto come socio.  Hetzel inoltre nel 1843 aveva  cominciato  a pubblicare in proprio e s’era subito creato degli importanti contatti così da riuscire a mettere in catalogo gli  autori più  celebri  del  momento  (e  alcuni dei quali sono molto noti anche oggi, come Balzac, Musset, Charles Nodier, George Sand e Victor Hugo), che egli contribuiva a rendere ancora più popolari con edizioni a buon mercato.  Rientrato dunque in Francia nel 1859,  tre anni dopo rifondò la  sua  casa editrice decidendo di rivolgersi quasi esclusivamente ai giovani e ai ragazzi.

E proprio in quel 1862, prima che cominciasse ad uscire la rivista per i giovani « Magasin  illustré  d’éducation  et  de  récréation »,  Verne s’incontrò  con Hetzel.  Trentaquattrenne ormai,  Verne aveva concluso con ottimi risultati i suoi studi di  diritto,  aveva  scritto  benché senza  grande  successo diverse commedie e novelle,  aveva visitato la Scozia e i paesi nordici e si era anche sposato.  Quest’ultimo  evento si  era verificato nel 1857,  quando Jules aveva impalmato Honorine de Viane,  una giovane vedova che aveva già due figli e  che  egli  aveva conosciuta  al  matrimonio di un amico ad Amiens.  Verne era anche già diventato  padre:  era  tuttavia  lontano  da  casa,   in  viaggio  in Scandinavia,  quando Honorine affrontò i travagli del parto dando alla luce l’unico loro figlio, Michel Verne.

Jules Verne,  insomma,  in quel 1862 era proprio un uomo fatto ed  era già  riuscito  a  dare  a Caroline qualche prova per giudicare «di che legno è fatto questo povero giovanotto che  si  chiama  Jules  Verne».  Sappiamo però che in realtà, per usare un’immagine dei nostri giorni e che gli sarebbe stata cara,  il suo aereo era appena appena decollato, ma era destinato a ben altre trasvolate.

Manco a farlo apposta,  si riferiva appunto al «volo» il  primo  libro che  Verne  propose a Jean-Pierre Hetzel,  quando gli venne presentato dal romanziere Brichet,  dietro raccomandazione del  ben  più  celebre Alexandre Dumas figlio.

Questi  sembra  essere stato anzi il primo a leggere il manoscritto di “Voyage en ballon” (conosciuto da noi col titolo: “Cinque settimane in pallone”).   Hetzel,   un  editore  sicuro  del   fatto   suo,   diede immediatamente  qualche  suggerimento  al giovane autore e lo invitò a riportare il manoscritto dopo una quindicina di giorni. E quando Jules tornò,  Hetzel aveva già pronto un bel contratto:  in  base  ad  esso, Verne  s’impegnava  a  consegnare all’editore tre volumi ogni anno (si tenga presente che qualche romanzo poteva essere costituito da più  di un volume) e per ogni volume Hetzel avrebbe pagato una bella cifretta:

1925 franchi.

Una  fortunata  coincidenza  nell’attualità  rese  il romanzo di Verne molto interessante anche per gli adulti: il 3 ottobre 1863, poco tempo dopo  che  “Voyage  en  ballon”  era  comparso  in   libreria,   Félix Tournachon,  detto  Nadar,  celebre  per  avere realizzato nel 1858 la prima fotografia  aerea  a  bordo  di  un  pallone,  compiva  un  volo inaugurale  con il suo «Le Géant»,  ossia «Il Gigante».  Il romanzo di Verne e l’«exploit» di Nadar si  inserivano  in  una  polemica  allora vivissima  relativa  al  problema del volo: per volare,  sarebbe stato meglio  un  oggetto  più  leggero  o  uno   più   pesante   dell’aria?  Rispettivamente,  per intenderci, il dirigibile e l’aereo. Ora, mentre il pallone aerostatico, diretto antenato del dirigibile,  esisteva già (e  il  colosso,  il  «Gigante»  di  Nadar  ne  era  una  prova  molto eloquente), l’aereo era ancora di là da venire: il primo volo umano su un aereo a motore sarebbe stato quello dei fratelli Orville  e  Wilbur Wright,  a Kitty Hawk, negli U.S.A., nel 1903. (A onor del vero, però, bisogna  ricordare  che  già  nel  1877  l’ingegnere  italiano  Enrico Forlanini  aveva costruito e fatto innalzare nell’aria un modellino di elicottero,  il primo mezzo più pesante dell’aria che s’innalzasse con mezzi  propri).  Lo stesso Verne,  comunque,  era divenuto uno dei due censori della «Société d’encouragement pour la locomotion aérienne  au moyen  d’appareils  plus  lourds  que  l’air»,  che  aveva la sua sede proprio in casa di Nadar.

Verne si era subito rivelato  per  Hetzel,  come  si  usa  dire,  «una gallina  dalle  uova  d’oro».  Ma  Hetzel  non era soltanto un editore abile; era anche un gentiluomo.  Perciò di fronte al costante successo di Verne accettò di ritoccare ripetutamente il contratto già stilato e per  lui  più  vantaggioso.  Lo fece già per il secondo romanzo uscito prima in due volumi (intitolati rispettivamente “Les Anglais  au  pole nord” e “Le Désert de glace” e poi in volume unico intitolato “Voyages et  aventures  du  capitaine Hatteras » (in italiano: « Le avventure del capitano Hatteras”).  E lo fece di nuovo nel  1865,  quando  portò  il compenso per ogni singolo volume a 3000 franchi.  Nel  frattempo  erano usciti “Le Comte de Chanteleine”,  “Le Voyage au centre de la Terre” (italiano: “Viaggio al centro della  Terra”),  “De la  Terre  à  la  Lune”  (italiano:  Dalla  Terra alla Luna,  Edizioni Paoline,  in questa  medesima  collana),  “Les  Forceurs  du  Blocus”.  Seguirono  poi  la  continuazione  della  “Géographie  illustrée de la France”  (che  era  stata  iniziata  da  Lavallée),  “Les  Enfants  du capitaine Grant” (italiano: “I figli del capitano Grant”),  “Autour de la Lune” (italiano: “Attorno alla Luna”), “Vingt mille lieues sous les mers” (italiano: “Ventimila leghe sotto i mari”),  “Découverte  de  la Terre »,  « Une ville flottante », « Aventures de trois Russes et de trois Anglais”.

Intanto le cose si erano  dunque  messe  molto  bene  per  Verne,  che prendeva  sempre  maggiore  familiarità  anche col mare: prima si recò appunto per mare a Bordeaux a trovare suo fratello Paul, che vi si era ritirato dopo avere dato le  dimissioni  da  ufficiale  di  marina  ed essersi  sposato.  Poi  fece  un  lungo  viaggio-crociera  sul  «Great Eastern»  (durante  questo  viaggio,   il  mare  ebbe  la  «bontà»  di mostrarglisi  un  po’  agitato).  Nel 1868 addirittura acquistò un suo proprio battello. Il «Saint-Michel Primo».  Meno bene andavano invece le cose per Hetzel,  che tuttavia continuò a largheggiare  col  Verne  al  punto  di  stilare  con  lui nel 1871 un contratto col quale lo scrittore si impegnava a  consegnare  due  soli romanzi  all’anno  e  insieme  riceveva  uno  stipendio  fisso di 1000 franchi al mese.

Quasi a ripagarlo, l’anno dopo, 1872, Verne cominciò a pubblicare,  su « Le  Temps »,  « Le Tour du monde en quatre-vingts jours » (italiano: « Il giro del mondo in ottanta giorni,” che  qui  presentiamo  in  edizione integrale),  che  suscitò  un vero entusiasmo,  di cui benificiò anche l’edizione in volume: ne vennero vendute  infatti  immediatamente  ben 108000 copie.  Il successo di Verne continuò intatto anche dopo la sua morte, che avvenne nel 1905 ad Amiens.

 

«Phileas Fogg imitato (e superato) dalle donne».

Phileas Fogg, come sanno certamente tutti,  anche quelli che non hanno ancora  letto  questo giustamente celeberrimo romanzo,  è il gelido ma preciso e metodico protagonista de  “Il  giro  del  mondo  in  ottanta giorni”.  E’ nato dalla fantasia di Verne, anche se la francese Simone Vierne collega il cognome Fogg al termine inglese «fog», che significa «nebbia», e il nome Phileas a un peraltro poco noto geografo greco del quinto  secolo  avanti  Cristo,   autore  per  l’appunto  di  un’opera intitolata  “Periplo”  (con  un  po’  di...  presunzione questo titolo potrebbe anche essere interpretato come  «giro  del  mondo»),  di  cui restano pochissimi frammenti.  In realtà,  a parte una sua eccessiva e persino macchiettistica «rigidità» anche esteriore,  ritenuta adeguata alla  sua  estrazione  inglese,  Phileas  Fogg  si  presenta  come  un personaggio in carne ed ossa che tenta un’impresa  davvero  singolare: compiere  un intero giro intorno al mondo in soli ottanta giorni.  Per noi che siamo abituati a velocità molto superiori a quella  del  suono (che  talvolta  diviene anzi una specie di unità di misura,  il «mach» che varia secondo la densità dell’aria e va perciò da 1220  chilometri orari  a  1700  circa) non sembra un’impresa eccessivamente difficile.  Potrà forse interessare tuttavia sapere che il  più  veloce  giro  del mondo  sembra sia ancora quello compiuto senza scalo da tre apparecchi USAF B-52 capitanati dal generale Archie  J.  Old  Junior  e  che  nei giorni  16-18 gennaio 1957,  facendo capo alla March Air Force Base di Riverside in California  e  viaggiando  verso  est,  percorsero  39147 chilometri in 45 ore e 19 minuti, ricorrendo a quattro rifornimenti in volo  da  aerocisterne  e  raggiungendo  una  velocità  media  di  845 chilometri orari.

Ben diversa fu invece la  reazione  dei  contemporanei.  Nella  realtà infatti avvenne ciò che Verne stesso racconta nel suo romanzo.  Poiché  il romanzo uscì a puntate come appendice su “Le Temps”,  dal 6 novembre al 22 dicembre 1872,  i lettori,  che ignoravano come sarebbe andato  a finire,  cominciarono a prendere vivamente parte essi stessi alle vicende di Phileas Fogg, giungendo persino a fare delle scommesse sul successo o meno dell’impresa.  Il che naturalmente faceva crescere l’attesa  per  le nuove puntate del romanzo,  peraltro già ultimato da Verne prima di passarlo in tipografia.  Verne infatti aveva scritto in poco più di sette mesi,  da marzo a ottobre del 1872,  questo che è il suo romanzo forse più celebre e popolare,  e aveva realizzato  in  tal modo  con  la  consueta rapidità il progetto che gli si era presentato l’anno precedente.

Ci fu ben presto chi non si accontentò di leggere sul “Temps” prima  e in  volume  poi  le  traversie  e  le  ingegnose  trovate di Fogg e di Passepartout,  ma decise di  partire  per  verificare  strada  facendo l’esattezza  e  la  realizzabilità  dei  piani di marcia di Verne.  In un’epoca come la nostra in cui le femministe,  e non solo,  vanno alla ricerca  di  memorie storiche su imprese memorabili compiute da donne, sarà  certamente  interessante  sapere  che  fu  proprio  una   donna, l’inglese  Signora  Bisland,  che ripercorse per prima l’itinerario di Phileas Fogg impiegando anche  lei,  manco  a  dirlo,  esattamente  79 giorni:  Verne venne a conoscenza del tentativo e ne diede notizia nel suo romanzo “Claudius Bombarnac” del 1892.  Ma ci fu chi fece meglio di Phileas Fogg e della Signora  Bisland:  fu un’altra donna,  Nellie Bly,  la quale nel 1889, partendo da New York, riuscì a farvi ritorno dopo avere  fatto  il  giro  del  mondo  in  72 giorni,  6  ore,  11  minuti  e  14  secondi.  La Bly vinceva così una scommessa pattuita  con  il  direttore  del  giornale  americano  “The World”.   Non   ancora   soddisfatta,   dopo   che  ebbe  ricevuto  le congratulazioni dello stesso Verne, la Bly qualche anno dopo riuscì ad abbassare il suo record a 66 giorni.

Non possiamo attardarci ora a ricordare tutti gli altri tentativi  che si susseguirono.  E’ opportuno tuttavia accennare che taluni di questi vennero anche narrati per scritto: così quello  di  Stigler  nel  1901 (che  durò  63  giorni) e quello di un ragazzo danese quindicenne (che durò 44 giorni,  ma viaggiando in senso contrario a Phileas Fogg).  Il tentativo  più recente di cui si ha notizia è quello di un giornalista francese,  Jean-Marie Audibert,  che ha impiegato,  utilizzando  anche l’aereo,  quattro giorni,  19 ore e 38 secondi: l’Audibert ne fece una puntuale narrazione nel libro intitolato per  l’appunto  “Le  Tour  du monde en 4 jours” (italiano: “Il giro del mondo in 4 giorni”).  La   vicenda   di  questo  Audibert  è  interessante,   perché  lascia intravvedere che cosa succede a uno che legge con un po’  di  fantasia “Il  giro  del mondo in ottanta giorni” di Verne.  Dobbiamo cominciare col ricordare che  Jean-Marie  Audibert  è  un  simpatico  giornalista francese alla testa di un’altrettanto simpatica famiglia costituita da lui,  sua moglie Marie e i loro figli Claudette, Jean-Pierre e Michel.  Redattore del giornale marsigliese  “Provençal”,  in  occasione  della Fiera di Marsiglia del 1952,  Jean-Marie Audibert venne incaricato dal suo  direttore  di  tirar  fuori  un’«idea»  che  servisse  al  lancio pubblicitario  sia  della  Fiera che del “Provençal”.  E come talvolta succede nella vita,  l’idea gli  venne  da  uno  dei  suoi  figli,  il dodicenne Jean-Pierre. Questi, che aveva finito proprio in quei giorni di  leggere  “Il  giro del mondo in ottanta giorni”,  assediava il suo informatissimo papà di domande, la principale delle quali era: «Senti, papà,  se Phileas Fogg avesse usato esclusivamente l’aereo,  in quanto tempo avrebbe fatto il giro del mondo?».  Jean-Pierre non era il primo ad avere questa idea: il maggiore americano Thomas Lamphier Junior nel 1949 aveva stabilito con questo mezzo il record di 4 giorni,  23 ore e 47  minuti.  Ma  Jean-Pierre  non si accontentò di quest’informazione:

«Senti,  papà - disse a suo padre:  -  non  credi  che  sia  possibile superare il pilota americano?».  Ed ecco perciò padre e figlio passare di Compagnia aerea in Compagnia  aerea  per  chiedere  gli  orari  più aggiornati e redigere una tabella di marcia che consenta di battere il record.   Non  ci  sono  solo  problemi  di  orologio,   ma  anche  di finanziamento (l’Audibert non ha il  sacco  di  banconote  di  Phileas Fogg)  e  gli  inevitabili  contrattempi.  Fallita l’impresa una prima volta, la seconda riesce.  Insomma,  la fantasia di Verne continuava a far sognare...

Interessante  potrà  essere ancora ricordare che la vicenda di Phileas Fogg e del suo irruente ma  fedelissimo  Passepartout  oltre  che  del testardo  Fix,  nonché della dolcissima Auda,  venne portata anche sui palcoscenici e sugli schermi. Si sa anzi che persino prima di farne la stesura come romanzo Verne  aveva  raccontato  la  vicenda  a  Edouard Cadol,  perché questi ne curasse una trasposizione scenica.  Il Cadol, che più tardi avanzerà anche delle pretese sulla priorità dell’idea, e in particolare sull’invenzione del personaggio di Auda,  in realtà non riuscì  a  fare  un  buon  lavoro e perciò Verne dovette affidare a un altro l’incarico.  Lo fece rivolgendosi al più abile Adolphe d’Ennery, notissimo  allora  per  essere  autore  di  un celebre drammone: “Deux orphelines...”. Verne stesso, che,  come si ricorderà,  s’era dedicato anch’egli  all’attività teatrale,  seguì molto da vicino il lavoro del d’Ennery e forse anche per questo il dramma in cinque atti,  messo  in scena  al teatro della Porte Saint-Martin,  realizzò una somma enorme:

Stéphane Mallarmé parlò di almeno 150000 franchi.  La rappresentazione scenica comportava dei  piccoli  ma  significativi mutamenti rispetto alla vicenda narrata nel romanzo: vi sono,  accanto ad Auda,  altri due personaggi femminili: sua sorella,  che verrà  poi impalmata  da  un  secondo  avversario  di  Phileas Fogg,  l’americano Archibald Corsican, accompagnata da una serva;  si parlerà anche di un duplice  naufragio: quello finale dinanzi a Liverpool,  per aggiungere tensione  quando  finalmente  Fogg  sembra  sia  ormai  in  vista  del traguardo,  e soprattutto quello che costringe Fogg ad attraversare il Borneo,  dove vengono ambientate altre  due  interessanti  innovazioni sceniche  rispetto al romanzo: una scena terrificante nella cosiddetta grotta dei serpenti e, per compenso, un bel balletto,  il “clou” della festa delle incantatrici.

Insomma, degli interessanti arricchimenti di personaggi e di vicende e di  esotismo.  Tre  elementi  interessanti  per  una  rappresentazione teatrale.  Ma non sembra che bisogna cercare in  questa  direzione  il pregio  più  vero  e  profondo  di questo romanzo.  Rinunciando a fare «filosofeggiare» il buon Jules Verne,  come fa qualche critico  troppo acuto,  bisogna riconoscere che vi sono nel “Giro del mondo in ottanta giorni” delle pagine semplici e spigliate, il cui unico interesse è di presentare un momento gaio o offrire qualche informazione curiosa  sui luoghi  nei  quali  Phileas  Fogg  arriva e che lui in realtà tuttavia sembra non vedere neppure e di cui comunque non si interessa. Ma nella conclusione del romanzo il Verne un po’ sapidamente  dichiara:  «Così, dunque,  Phileas Fogg aveva vinto la sua scommessa.  Aveva compiuto in ottanta giorni un giro completo del  mondo!  Per  portarlo  a  termine aveva  utilizzato  tutti  i  mezzi di trasporto: piroscafi,  ferrovie, carrozze, “yachts”,  navi da carico,  slitte,  elefanti.  L’eccentrico “gentleman” aveva svelato in questo affare le sue meravigliose qualità di  sangue  freddo  e  di  precisione.  Ma in seguito?  Che cosa aveva guadagnato con tutto quel movimento?  Che cosa si era portato indietro da quel lungo viaggio?  “Niente”,  forse dirà qualcuno. Sì, niente, al di fuori di una donna attraente la quale - per quanto  la  cosa  possa sembrare  inverosimile  - lo rendeva il più felice degli uomini!  E in verità,  non si farebbe volentieri anche per meno di  questo  l’intero giro del mondo?».

Sono osservazioni che in fondo ci sollecitano a non rinunciare neppure noi  al  nostro  «Giro  del  mondo».  Ma,  e  questo ci permettiamo di aggiungerlo noi,  è forse più opportuno stare attenti a  non  «girare» invano per le nostre contrade,  perché non è necessario andare lontano per trovare chi ci voglia bene e soprattutto trovare (o ritrovare) noi stessi.

1.

PHILEAS FOGG E PASSEPARTOUT SI ACCETTANO RECIPROCAMENTE, IL PRIMO COME PADRONE E L’ALTRO COME DOMESTICO.

Nell’anno 1872,  la casa contraddistinta con il numero  7  in  Saville Row,  a  Burlington  Gardens  -  casa  nella  quale nel 1814 era morto Sheridan (1) - era abitata dall’egregio signor Phileas Fogg,  uno  dei membri  più  singolari  e più notati del Club della Riforma di Londra, quantunque egli si studiasse di  non  fare  cosa  alcuna  che  potesse attirare l’attenzione su di lui.

Questo  Phileas  Fogg,  che  prendeva  il  posto di uno dei più grandi oratori  che  sono  l’onore  dell’Inghilterra,   era  un   personaggio enigmatico,  di  cui non si sapeva nulla,  se non che egli appariva un fior di galantuomo e uno fra  i  più  bei  “gentlemen”  (2)  dell’alta società inglese.

Si  diceva  che  egli  somigliasse  a Byron (3) - nella testa,  perché quanto ai piedi non era possibile metterglielo a confronto -,  ma  era un  Byron  con  i  mustacchi e i favoriti,  un Byron impassibile,  che avrebbe potuto vivere mill’anni senza invecchiare.  Inglese per certo, Phileas Fogg non era forse londinese. Non lo si era mai visto né alla Borsa né alla Banca né in alcun altro ufficio  della gran finanza della City londinese.  Le darsene del porto di Londra non avevano mai ospitato una nave che avesse per  armatore  Phileas  Fogg.  Questo “gentleman” non figurava in alcun consiglio di amministrazione.  Il suo nome non era mai risuonato in un collegio di avvocatura,  né al Tempio né a Lincoln’s Inn né a Gray’s Inn. Non aveva mai esercitato né alla Corte del Cancelliere,  né al Banco della Regina né all’Echiquier né  alla  Corte  ecclesiastica.  Non  era industriale né negoziante né mercante né agricoltore.  Non faceva parte né  dell’Istituzione  Reale della   Gran   Bretagna,       dell’Istituzione   di   Londra,    né dell’Istituzione degli  Artigiani,    dell’Istituzione  Russell,  né dell’Istituzione   Letteraria  dell’Ovest,     dell’Istituzione  del Diritto,  né di quell’Istituzione delle Arti e delle Scienze  riunite, che  è  posta  sotto  il  diretto  patrocinio  di Sua Graziosa Maestà.  Insomma egli non apparteneva a  nessuna  delle  numerose  società  che pullulano  nella  capitale  inglese,  dalla Società dell’Armonica fino alla Società  Entomologica,  sorta  principalmente  con  lo  scopo  di distruggere gli insetti nocivi.

Phileas Fogg era membro del Club della Riforma, ecco tutto.  Può  stupire  che un individuo tanto misterioso figurasse tra i membri di quell’onorevole circolo. Ma va considerato che vi era stato ammesso dietro raccomandazione dei banchieri Fratelli Baring  presso  i  quali aveva  un  notevolissimo  conto  aperto:  un conto in cui Phileas Fogg risultava  invariabilmente   creditore,   quantunque   spiccasse   con frequenza  grossi  mandati  a  vista  che  i banchieri Baring pagavano puntualmente.  Quest’insieme di  cose,  come  è  naturale,  gli  aveva procurato una profonda stima.

Phileas  Fogg  era dunque ricco?  Senza dubbio.  Ma in che modo si era arricchito?  Ecco ciò che nemmeno i meglio informati potevano dire;  e il  signor  Fogg  era proprio l’ultimo a cui convenisse rivolgersi per saperlo.

Comunque, egli non si mostrava minimamente prodigo;  ma neanche avaro.  Ogni volta che gli fosse chiesto denaro per un’opera nobile,  giusta e generosa,  lo dava,  senza  strombazzamenti  o  celandosi  addirittura dietro l’anonimato.

Nessuno era meno comunicativo di quel “gentleman”.  Non parlava che lo stretto necessario; e ciò accresceva attorno a lui il mistero.  Eppure la sua vita si svolgeva,  come suol dirsi,  alla luce del sole; ma era così matematicamente  uniforme,  che  le  immaginazioni  insoddisfatte fantasticavano, cercando al di là delle apparenze.  Aveva viaggiato, Sir Phileas Fogg? C’era ragione di supporlo, dato che nessuno  meglio  di  lui conosceva la carta geografica del mondo.  Non esisteva paese, per quanto remoto,  di cui egli non mostrasse di avere profonda  nozione.  Talora con poche parole brevi e chiare rettificava le mille dicerie che circolavano al Club  a  riguardo  di  viaggiatori ritenuti  periti  o  dispersi.  Indicava  le varie probabilità;  e gli avvenimenti finivano sempre per  dargli  ragione,  tanto  che  le  sue parole venivano ritenute come ispirate da un sesto senso.  Certo,  Sir Phileas Fogg era un uomo che doveva aver viaggiato  il  mondo  intero, almeno in spirito.

Stava  peraltro  fuor  di  dubbio  che  da  molti anni egli non si era allontanato da Londra.  Le persone che avevano l’onore  di  conoscerlo più  da  vicino  testimoniavano  che nessuno poteva pretendere di aver visto quel  “gentleman”  altrove  che  nella  strada  diritta  ch’egli percorreva ogni giorno per recarsi da casa al Club.  Suoi  soli  passatempi  erano leggere i giornali e giocare al “whist”.  Questo gioco di carte,  che è preferito dagli Inglesi e  il  cui  nome significa  «silenzio»,  era adattissimo al temperamento di Sir Phileas Fogg.  Egli vinceva sovente,  ma quei guadagni non entravano mai nella sua  borsa: figuravano invece per una somma rilevante nel suo bilancio di carità. Del resto il signor Fogg giocava soltanto per giocare,  non per vincere.  Il gioco era per lui un combattimento,  una lotta contro una difficoltà,  ma una lotta senza  spostamento,  senza  moto,  senza fatica; e ciò aderiva al suo carattere.

Nessuno gli conosceva né moglie né figli - cosa che può accadere anche alle  migliori persone -,  né parenti né amici - cosa invero assai più rara.

Phileas Fogg viveva solitario nella sua casa di Saville  Row,  il  cui interno era per tutti un mistero.  Teneva un unico domestico, il quale sbrigava da solo tutto il servizio,  dato che il  signore  pranzava  e cenava al Club,  ad ore cronometricamente fisse, sempre nella medesima sala,  alla stessa tavola,  senza  la  compagnia  di  colleghi,  senza invitare  mai  un  estraneo.   Rincasava  soltanto  per  coricarsi,  a mezzanotte in punto,  senza approfittare in nessuna circostanza  delle confortevoli  stanze  che  il  Club  metteva  a  disposizione dei suoi membri.

Su ventiquattr’ore ne passava dieci al suo domicilio, ripartite fra il dormire e la cura della toeletta personale. Se passeggiava,  lo faceva invariabilmente  al  Club,   sempre  con  passo  eguale,   nel  salone d’ingresso  dal  pavimento  intarsiato  o  sulla  galleria   circolare sorretta da venti colonne di porfido rosso e dominata da una cupola di vetri azzurri.

Fornivano  succulente vivande alla sua tavola le cucine,  la dispensa, la pescheria e la latteria del Club.  Camerieri del  Club,  compassati personaggi  in  abito  nero,  calzati  con scarpe a suola felpata,  lo servivano in porcellane rarissime e su stupende tovaglie  di  tela  di Sassonia;  bicchieri  della più fine cristalleria del Club contenevano il suo “sherry”, il suo porto,  il suo claretto corretti con cannella, capelvenere e cinnamomo;  e infine il ghiaccio del Club,  fatto venire con ingente spesa dai laghi d’America,  manteneva i suoi cibi e le sue bevande in soddisfacente stato di freschezza.  Se  vivere  in queste condizioni significa essere eccentrici,  bisogna ammettere che c’è del buono nell’eccentricità!  La casa di Saville Row,  senza  essere  sontuosa,  era  dotata  d’ogni comodità  in  modo  superlativo.  D’altra  parte il servizio,  date le invariabili abitudini del padrone di casa, si riduceva a ben poco.  Ma Sir  Phileas  Fogg  esigeva  dal  suo unico servo una puntualità e una esattezza straordinarie.

Quel giorno appunto - 2 ottobre - Phileas Fogg aveva licenziato  James Forster,  il servitore, poiché questi si era reso colpevole di avergli portato l’acqua occorrente per  radersi  riscaldata  a  ottantaquattro gradi  Fahrenheit  anziché  a  ottantasei  (4).  Ed ora il “gentleman” aspettava il successore di James, che doveva presentarsi tra le undici e le undici e mezzo.

Phileas Fogg,  comodamente seduto nella sua bella poltrona in salotto, con  i  piedi  ravvicinati  come quelli di un soldato alla parata,  le palme delle mani sulle ginocchia,  il busto  eretto,  la  testa  alta, guardava   camminare   le   lancette   della  pendola,   una  macchina complicatissima che indicava le ore, i minuti, i secondi, i giorni,  i mesi  e  l’anno.  Allo  scoccare  delle  undici e mezzo il signor Fogg doveva, come era sua quotidiana abitudine,  lasciare la casa e recarsi al Club.

Mancavano  dieci  minuti.  In  quel punto si udì bussare all’uscio del salotto.

James Forster, il servo licenziato, comparve.

Il nuovo domestico - annunciò.

     Un giovanotto  d’una  trentina  d’anni  si  fece  avanti  e  s’inchinò salutando.

Siete francese, e vi chiamate John? - gli domandò Phileas Fogg.

Jean,  se  così vi piace,  signore - rispose il nuovo venuto.  Jean Passepartout: soprannome che mi è  stato  dato  in  grazia  della  mia naturale  attitudine  a  trarmi d’impaccio.  Credo di essere un onesto figliolo;  ma,  per dir tutto sinceramente,  debbo confessare  che  ho fatto   parecchi   mestieri.   Sono   stato  cantante  girovago;   poi cavallerizzo in un circo;  ho emulato Léotard nei  voli  acrobatici  e Blondin nel ballare sulla corda;  poi,  per utilizzare in pieno i miei talenti,  sono diventato professore di ginnastica;  e infine  sergente dei  pompieri  di  Parigi.  Ho  anzi nel mio stato di servizio diversi incendi notevoli.  Ma ora già da cinque anni ho lasciato la Francia e, desideroso  di  gustare  la  vita di famiglia,  faccio il cameriere in Inghilterra.  Trovandomi senza posto,  e avendo saputo che  il  signor Phileas  Fogg  è  l’uomo più esatto e più sedentario di tutto il Regno Unito,  mi presento in casa del signore,  con la speranza  di  viverci tranquillo e di dimenticare persino questo soprannome di Passepartout.

Passepartout  mi  piace - rispose il “gentleman”.  - Mi siete stato raccomandato.  Ho buone informazioni sul vostro  conto.  Conoscete  le condizioni che vi offro?

Sì, signore.

Bene. Che ora fate?

Le  undici  e  ventidue  minuti  - rispose Passepartout,  dopo aver estratto dalle profondità del suo taschino uno  spropositato  orologio d’argento.

Il vostro orologio è indietro - disse Phileas Fogg.

Mi sia permesso: la cosa è impossibile!

Il  vostro orologio ritarda di quattro minuti.  Non importa.  Basta conoscere l’errore.  Dunque da questo momento,  ore undici e  ventisei minuti  e mezzo del mattino,  di questo mercoledì 2 ottobre 1872,  voi siete al mio servizio. Ciò detto Phileas  Fogg  si  alzò,  prese  con  la  mano  sinistra  il cappello,  se  lo  posò in testa con un  movimento da automa e disparve senza aggiungere parola Il francese sentì il portone chiudersi una prima  volta:  era  il  suo nuovo  padrone  che  usciva;   poi  una  seconda  volta:  era  il  suo predecessore James Forster che se ne andava.  Passepartout rimase solo nella casa di Saville Row.

NOTE.

NOTA 1: Richard Brinsley, Butler Sheridan, uomo politico e drammaturgo irlandese, in realtà morì nel 1861, a 65 anni di età. Le sue commedie, tra le quali “I rivali” e “La scuola della maldicenza”,  sono  tra  le più brillanti del secolo diciottesimo.

NOTA  2:  “Gentleman” (e il suo plurale “gentlemen”) è termine inglese che significa «gentiluomo, persona distinta,  signore» e ben si adatta perciò alla figura di Mister Phileas Fogg.  NOTA  3:  George  Gordon  Byron  (1788-1824),  poeta inglese,  celebre soprattutto per “Il pellegrinaggio del giovane Aroldo” e  l’incompiuto “Don  Giovanni”.  L’accenno che il Verne fa ai piedi di Byron richiama una delle maggiori sofferenze  del  giovane  Byron,  che  infatti  era afflitto da una congenita deformità.

NOTA 4: La scala termometrica Fahrenheit,  preferita a lungo nei paesi anglosassoni a quella centigrada (o Celsius),  fissa  a  32  gradi  la temperatura  a  cui il ghiaccio si scioglie e a 212 gradi quella a cui l’acqua bolle ed evapora (nella scala centigrada sono  rispettivamente 0  gradi  e  100  gradi): 84 gradi Fahrenheit corrispondono pertanto a 28,88 gradi centigradi e 86 gradi Fahrenheit corrispondono a 30  gradi centigradi.

2.

PASSEPARTOUT E’ CONVINTO DI AVERE FINALMENTE TROVATO IL SUO IDEALE.

In fede mia,  - commentò tra sé il giovanotto,  a tutta prima un po’ sbalordito,  - questo signor Phileas Fogg somiglia in qualche modo  ai fantocci di Madame Tussaud.

I  fantocci  di  Madame Tussaud sono figure di cera che a Londra tutti vanno ad ammirare, e a cui non manca davvero che la parola.  Durante  il  breve  colloquio,   Passepartout  aveva  rapidamente   ma diligentemente esaminato il suo futuro padrone.