Quel “gentleman” sulla quarantina,  elegante di figura e bellissimo di volto, sguardo chiaro, palpebra immobile,  dimostrava di  possedere  al  più  alto  grado  il cosiddetto  «riposo  nell’azione»,  ossia la pregevole dote di far più fatti che rumore.  Passepartout il quale,  da fisionomista acuto  qual era,  non  aveva  trascurato  di osservare financo l’«espressione» dei suoi piedi e delle sue mani,  lo  giudicava  senz’altro  un  individuo equilibratissimo,  ponderato al massimo, esatto come un cronometro: la precisione personificata.

Non si sbagliava.  Phileas Fogg  era  infatti  uno  di  quegli  uomini matematicamente  precisi  che non hanno mai fretta e si trovano sempre pronti, parchi di parole e di movimenti.  Seguendo in ogni caso la via più corta, non faceva un passo soverchio. Non sprecava mai uno sguardo in  aria;   non  si  permetteva  un  gesto  superfluo.   Commozione  e turbamento,  non sapeva che fossero.  Era l’uomo  meno  frettoloso  di questo mondo: però arrivava sempre in tempo.  Viveva solo,  e per così dire al di fuori di qualunque cerchia sociale, per la semplice ragione che nella vita di contatto con il prossimo non si può far  a  meno  di incontrare  attriti,   e  siccome  gli  attriti  fanno  indugiare,   è consigliabile perciò evitare ogni contatto.  Jean, detto Passepartout, autentico parigino di Parigi, da cinque anni risiedeva in Inghilterra e faceva a Londra il mestiere  di  domestico, ma aveva cercato invano un padrone di cui mettersi al servizio.  Passepartout  non  aveva  peraltro  nulla  di  comune  con  quei tipi, frequentissimi tra i suoi concittadini e nella sua categoria,  i quali - spalle alte, naso al vento, occhio spavaldo e duro - non sono in fin dei conti che degli impudenti cialtroni. No! Passepartout era un bravo giovane,  di fisionomia amabile, dalle labbra un po’ sporgenti, sempre pronte a gustare una  leccornia  o  a  dire  una  parola  carezzevole; un’indole servizievole e buona,  con una di quelle belle teste rotonde che piace vedere sulle spalle di un amico. Aveva gli occhi azzurri, il colorito acceso,  la faccia grassa al punto che abbassando  gli  occhi poteva  vedersi i pomelli delle gote;  il petto largo,  la muscolatura vigorosa.  Possedeva una  forza  erculea,  che  gli  esercizi  ginnici avevano  sviluppata  mirabilmente.  I  suoi capelli bruni erano sempre arruffati. Se gli scultori dell’antichità conoscevano diciotto maniere d’acconciare la capigliatura della dea Minerva,  Passepartout  non  ne conosceva  che  una  per ravviare la propria: tre colpi di pettine,  e tutto era fatto.

La più elementare prudenza non ci permette di  decidere  se  e  quanto avrebbe  potuto  accordarsi  con  il carattere del signor Phileas Fogg quello espansivo del suo nuovo servitore.  Sarebbe stato  egli  dunque quel  domestico  impeccabilmente  esatto  che  occorreva a Sir Phileas Fogg? Il tempo avrebbe dato la risposta.

Certo è che Passepartout,  dopo una  giovinezza  pressoché  vagabonda, aspirava finalmente al riposo.  Avendo sentito decantare la metodicità e la flemma proverbiale dei “gentlemen” inglesi,  era venuto a  cercar fortuna  in Inghilterra.  Ma finora la sorte lo aveva malservito.  Non aveva potuto piantare radici in nessun luogo. Era stato in dieci case: in tutte c’era il bislacco,  il volubile,  il cacciatore d’avventure o il   curioso   giramondo.   Non  era  questo  ciò  che  interessava  a Passepartout.  Il suo ultimo  padrone,  il  giovane  lord  Longsferry, membro  del Parlamento,  troppo sovente tornava a casa sulle spalle di qualche vigile dell’ordine,  dopo aver  passato  la  notte  a  gustare ostriche e birra nelle modeste trattorie di Hay Narket.  Passepartout, ritenendo tutto ciò non confacente alla dignità di  un  lord,  azzardò qualche  osservazione,  che fu accolta assai male.  Allora ruppe anche con il decimo padrone e lasciò la casa del giovane lord impenitente.  Proprio in quel tempo venne  a  sapere  che  il  signor  Phileas  Fogg cercava un domestico.  Prese le sue brave informazioni. Un personaggio che conduceva una vita tanto regolare, che non dormiva fuori casa, che non  viaggiava,   che  non  si  allontanava  mai  da  Londra,   doveva convenirgli a puntino.

Passepartout  si presentò e fu accettato nelle circostanze che abbiamo riferite.

Scoccate le undici e mezzo,  Passepartout si trovava dunque solo nella casa  di Saville Row.  Senz’altro ne cominciò l’ispezione: la percorse dalle cantine al solaio.  Quella casa pulita,  ordinata,  severa,  ben organizzata in ogni servizio,  gli piacque. «Mi fa l’impressione di un bel guscio di lumaca: ma di un guscio rischiarato e scaldato a  gas!».  L’idrogeno  carburato  alimentava infatti tutti gli impianti di luce e di calore.  Passepartout trovò senza  fatica,  al  secondo  piano,  la camera  che  gli  era  destinata.  E  anche  questa  gli andò a genio.  Campanelli elettrici e tubi acustici la mettevano in comunicazione con gli appartamenti degli altri piani.  Sul caminetto c’era  una  pendola elettrica  collegata  con  la pendola della camera da letto del signor Fogg; e i due congegni segnavano il medesimo minuto secondo.  «La mi va, la mi va d’incanto!», disse fra sé Passepartout.  Egli notò pure,  nella sua camera,  una tabellina affissa al  muro  al disopra  della  pendola.  Era  il  programma del servizio giornaliero.  Contemplava ogni particolare: otto del mattino,  ora regolamentare  in cui  il  signor  Fogg  si  alzava;  alle  otto  e ventitré,  il tè e i crostini;  alle nove e trantasette,  l’acqua per la barba;  alle dieci meno venti,  la toeletta;  e così via fino alle undici e mezzo, ora in cui il signor Fogg usciva di casa per  recarsi  a  pranzare  al  Club.  Anche  dalle  undici e mezzo del mattino fino alla mezzanotte,  ora in cui il metodico “gentleman” si coricava,  tutto era  notato,  fissato, previsto.  Passepartout  meditò  con  gioia  quel  programma,  e se lo impresse nella memoria.

Passò  quindi  al  guardaroba  del  signore.   Era   ben   fornito   e meravigliosamente  ordinato.  Ogni  paio  di pantaloni,  ogni giacca o panciotto portava un numero d’ordine,  riprodotto sopra un registro di entrata e di uscita indicante la data in cui,  secondo la stagione,  i vari vestiti dovevano essere di volta in volta  indossati.  Lo  stesso per le calzature.

Insomma,  quella  casa di Saville Row - a diversità di quanto avveniva all’epoca  dell’illustre  ma  dissipato  Sheridan  -  era  il   tempio dell’ordine,  e  il  suo arredamento denotava agiatezza e signorilità.  Non vi era una biblioteca e neppure alcun libro  che  sarebbero  stati perfettamente  inutili  al signor Fogg,  dal momento che il Club della Riforma metteva a sua disposizione  due  biblioteche,  una  consacrata alle  lettere  e  l’altra al diritto e alla politica.  Nella camera da letto del signor Phileas Fogg c’era una cassaforte di media grandezza, di una costruzione talmente ingegnosa da riuscire  garantita  in  pari tempo  sia  contro l’incendio che contro i ladri.  Non c’erano armi in casa,  e nemmeno utensili da caccia.  Tutto vi attestava le  abitudini più pacifiche.

Terminata la minuziosa ispezione, Passepartout si soffregò le mani. La sua   larga   faccia   si  spianò  in  un  sorriso;   ed  egli  ripeté giocondamente:

«La  mi  va,  la  mi  va  d’incanto!  E’  proprio  quel  che  cercavo.  C’intenderemo a perfezione,  il signor Fogg e io!  Un uomo casalingo e metodico: una vera macchina. Ebbene,  sissignori,  sono felicissimo di servire una macchina!».

 

3.

VIENE AVVIATA UNA CONVERSAZIONE CHE COSTERA’ CARA A PHILEAS FOGG.

Phileas  Fogg  aveva  lasciato  la  sua abitazione di Saville Row alle undici e mezzo;  e dopo aver posto cinquecentosettantacinque volte  il piede destro davanti al piede sinistro, e cinquecentosettantasei volte il piede sinistro davanti al piede destro, giunse al magnifico palazzo del  Club  della Riforma,  in Pall Mall,  la cui costruzione è costata almeno tre milioni.

Si recò subito nella sala da pranzo,  dalle cui finestre aperte su  un bel giardino si vedevano gli alberi indorati dal sole d’autunno.  Phileas Fogg prese posto alla solita tavola già apparecchiata per lui.  Il suo pasto si componeva di un antipasto, un pesce lessato e messo in salsa  di  prima  qualità,  un  bel “roast beef” roseo e acidulato con funghi,  un pasticcio farcito con lamponi verdi e cime  di  rapontico, una  porzione  di finissimo formaggio;  il tutto innaffiato di qualche tazza d’un tè proveniente da una speciale raccolta  riservata  per  il consumo del Club.

    A  mezzogiorno  e quarantasette minuti il puntualissimo “gentleman” si

alzò, e passò nel salone adorno di dipinti in artistiche cornici.  Qui un  cameriere  gli  porse il “Times” con le pagine ancora da tagliare.  Fogg lo spiegò con una sicurezza di mano che  denotava  la  sua  lunga abitudine in così complicata operazione.

La  lettura del “Times” tenne assorbito il “gentleman” fino alle tre e quarantacinque;  e quella dello “Standard”,  a cui egli  passò  subito dopo, durò fino all’ora della cena.

Questo  pasto  si  svolse  nelle identiche condizioni del pranzo,  con l’aggiunta della “royal british sauce”.

Alle sei meno venti minuti, Sir Phileas Fogg comparve nel salone; e vi rimase sprofondato nella lettura nel “Morning Chronicle”.  Intanto il salone del Club andava popolandosi.  Numerosi frequentatori facevano via via il loro ingresso,  e sedevano avvicinando le poltrone al caminetto in cui ardeva un bel fuoco di  carbon  fossile.  Erano  i compagni  abituali  del  signor  Phileas Fogg,  al par di lui ostinati giocatori di “whist”,  tutti personaggi di cospicua  ricchezza,  pezzi grossi  dell’industria  e della finanza: l’ingegnere Andrew Stuart,  i banchieri John Sullivan e Samuel Fallentin, il signor Thomas Flanagan, proprietario delle più grandi fabbriche londinesi di birra,  e  Walter Ralph, uno degli amministratori della Banca d’Inghilterra.

Ebbene,  signor  Ralph,  - domandò Thomas Flanagan,  - avete novità sull’affare del furto?

Eh!  - intervenne Andrew Stuart.  -  Anche  questa  volta  la  Banca d’Inghilterra può dire addio al suo denaro!

Io spero invece - dichiarò Walter Ralph,  - che metteremo le grinfie addosso al ladro.  Abilissimi agenti di polizia sono stati inviati  in America  e  in  Europa,  in  tutti  i  principali porti d’imbarco e di sbarco;  e sarà ben difficile che quel  galantuomo  sfugga  alla  loro caccia.

Si conoscono dunque i connotati del ladro? - chiese Andrew Stuart.

Anzitutto, non è un ladro - rispose con serietà Walter Ralph.

Come?!   non   è   un   ladro   l’individuo   che   ha   sottratto cinquantacinquemila sterline di banconote?

No - confermò Ralph.

E’ dunque un industriale? - chiese John Sullivan.

Il “Morning Chronicle” assicura che è un “gentleman”. Colui che aveva pronunciato questa frase  era  Phileas  Fogg.  La  sua testa emergeva solo allora dall’onda di carta che gli si era ammassata intorno.

In pari tempo Phileas Fogg salutò i colleghi, i quali gli restituirono il saluto.

Il  fatto  di cui si discuteva quella sera al Club della Riforma e che appariva riportato all’ordine del giorno su tutta la stampa quotidiana d’Inghilterra,  era accaduto tre giorni prima,  il  29  settembre.  Un fascio    di    banconote,    rappresentante    l’enorme    somma   di cinquantacinquemila sterline, era scomparso in pieno giorno sul tavolo del cassiere-capo della Banca d’Inghilterra in Londra.  A chi si stupiva che un simile furto avesse potuto compiersi con tanta facilità,  il vice-amministratore generale  Walter  Ralph  rispondeva:

«Che diamine!  non si può avere gli occhi dappertutto! Il cassiere era occupato in quel momento a registrare un incasso di tre scellini e sei “pence”».

A rendere il fatto ancor più spiegabile concorreva del resto  un’altra circostanza:  l’ammirabile  amministrazione  che  risponde  al nome di Banca d’Inghilterra pareva preoccuparsi estremamente, a quel tempo, di rispettare la dignità del pubblico. Non una guardia,  non un piantone, non  un  cancello.  L’oro,  l’argento,  le banconote giacevano esposti apertamente e, per così dire, in balia di qualsivoglia avventore.  Non si  poteva mettere in dubbio l’onorabilità di un passante,  qualsiasi.  Uno straniero che ha osservato da vicino  gli  usi  inglesi  narra  un fatto di questo genere.  In una sala della Banca, dove egli si trovava un giorno,  ebbe la curiosità di esaminare una verga d’oro del peso di sette od otto libbre che stava esposta sul tavolo del cassiere.  Prese quella verga, la esaminò, la porse al suo vicino,  questi ad un altro; di  modo  che la verga,  passando di mano in mano,  se ne andò sino in fondo al corridoio oscuro;  e non ritornò  al  proprio  posto  se  non mezz’ora dopo, senza che il cassiere avesse nemmeno alzato la testa.  Ma  il  29  settembre le cose non andarono esattamente così: il fascio delle banconote  non  ritornò.  E  quando  alle  cinque  il  magnifico orologio  collocato  all’ingresso  degli uffici suonò la chiusura,  la Banca  d’Inghilterra  doveva  registrare  sul   conto   «Perdite»   la bagattella di cinquantacinquemila sterline.  Appena   avvenuta   la   regolare   costatazione  del  furto,   agenti investigatori scelti fra i più abili  erano  stati  sguinzagliati  nei principali  porti d’Europa e d’America: a Liverpool,  a Glasgow,  a Le Havre, a Suez, a Brindisi, a New York, eccetera.  Premio per chi fosse riuscito  a  catturare  il ladro: duemila sterline,  più il cinque per cento della somma ricuperata.

In attesa degli elementi che l’inchiesta immediatamente aperta avrebbe forniti,  quei poliziotti avevano intanto il  compito  di  sorvegliare scrupolosamente tutti i viaggiatori in arrivo e in partenza.  Ora,  per l’appunto, stando a quanto diceva il “Morning Chronicle”, si aveva motivo di ritenere che l’autore del furto non facesse  parte  di alcuna  delle  società  dei  ladri  d’Inghilterra.  Durante  la famosa giornata del 29 settembre, un “gentleman” ben vestito, di bei modi, di aspetto più che  distinto,  era  stato  visto  passeggiare  innanzi  e indietro  nella  sala  dei  pagamenti  dove  era avvenuto il furto.  I connotati di quel signore,  scrupolosamente particolareggiati,  furono subito  trasmessi  a  tutto  il  plotone  degli  agenti  investigatori sparpagliati nel Regno Unito e sul continente.  Perciò le anime più candide e ottimiste  -  e  Walter  Ralph  era  del numero  -  ritenevano di poter sperare con fondamento che il ladro non se la sarebbe scampata.

Com’è facile comprendere,  questo fatto era all’ordine  del  giorno  a Londra  e in tutta l’Inghilterra.  Si discuteva,  ci si appassionava a favore  o  contro   le   probabilità   di   successo   della   polizia metropolitana.  Non  ci  si stupirà perciò di sentire che i membri del Club della Riforma discutevano della medesima questione, tanto più che tra di loro si trovava uno dei vice-governatori della Banca.  Il buon Walter Ralph non aveva intenzione di  dubitare  dei  risultati delle ricerche, ritenendo che la taglia promessa avrebbe singolarmente acutizzato  lo  zelo  e  l’intelligenza  degli agenti.  Il suo collega Andrew Stuart era invece ben lungi dal condividere questa fiducia.  La disputa continuò fra i due che ora avevano  preso  posto,  con  gli altri,   alla  tavola  del  “whist”:  Stuart  dirimpetto  a  Flanagan, Fallentin di faccia  a  Phileas  Fogg.  Mentre  ferveva  il  gioco,  i giocatori  non  parlavano;  ma  negli  intervalli  fra  un passaggio e l’altro di carte la conversazione interrotta si riaccendeva sempre più animata.

Io ritengo - diceva Andrew Stuart,  - che  le  probabilità  sono  in favore del ladro, il quale dev’essere certamente un uomo abilissimo.

Evvia!  -  rispose  Ralph.  -  Ormai non c’è più paese in cui possa nascondersi.

Questo poi...

Dove volete che vada?

Non ne so nulla - rispose Andrew Stuart.  - Ma,  alla fin  fine,  il mondo è grande!

Lo era una volta - disse a mezza voce Phileas Fogg;  quindi porgendo le carte a Thomas Flanagan: - Tocca a voi alzare.  La discussione venne sospesa per tutta la durata  della  partita.  Ma, chiusa questa, Andrew Stuart riprese:

Come sarebbe a dire: una volta? E’ forse rimpicciolita la terra?

Senza dubbio - rispose Walter Ralph. - Io sono del parere del signor Fogg: la terra è rimpicciolita, giacché ora la si percorre dieci volte più  rapidamente che non la si percorresse cento anni fa.  Ed ecco ciò che nel nostro caso renderà le nostre ricerche più facili.

Ma renderà anche più facile la fuga del ladro!

Tocca a voi giocare, signor Stuart - avvertì Phileas Fogg.

La disputa si smorzò un’altra volta nel silenzioso ritmo del gioco. Ma l’incredulo Stuart  non  era  ancora  convinto,  e  a  partita  finita ripigliò:

Bisogna  confessare,  signor  Ralph,  che  avete fatto una scoperta curiosa dicendo che la terra è rimpicciolita!  Così,  poiché adesso se ne compie il giro in tre mesi...

In ottanta giorni soltanto - rettificò Phileas Fogg.

Esattamente,  signori!  - incalzò John Sullivan.  - Ottanta giorni, dacché il percorso fra Rothal e  Allahabad  è  aperto  con  la  Grande Ferrovia  Peninsulare  Indiana.  Ed  ecco  il  calcolo  stabilito  dal “Morning Chronicle”:

Da Londra a Suez,  passando  per  il  Moncenisio  e  Brindisi  -  in ferrovia e in piroscafo: 7 giorni

a Suez a Bombay - in piroscafo: 13 giorni;

da Bombay a Calcutta - in ferrovia: 3 giorni;

da Calcutta a Hong Kong (Cina) - in piroscafo: 13 giorni;

da Hong Kong a Yokohama (Giappone) - in piroscafo: 6 giorni;

da Yokohama a San Francisco - in piroscafo: 22 giorni;

da San Francisco a New York - in ferrovia: 7 giorni;

da New York a Londra - in piroscafo e in ferrovia: 9 giorni;

Totale 80 giorni.

Già,  ottanta giorni!  - esclamò Andrew Stuart che nell’eccitazione tagliò per sbaglio una carta reale. - Ma senza tener conto del cattivo tempo, dei venti contrari, dei naufragi, dei deragliamenti, eccetera.

Tutto compreso - rispose Phileas Fogg continuando  a  giocare,  dato che ormai la discussione non rispettava più il “whist”!

Anche  se  gli Indii,  o Indiani che dir si voglia,  portano via le rotaie,  fermano i treni,  saccheggiano i vagoni e pelano il cranio ai viaggiatori?

Tutto  compreso  -  ribadì Phileas Fogg,  il quale scoprì le carte, avendo vinto.

Andrew Stuart,  a cui toccava il turno di fare il mazzo,  raccolse  le carte e disse:

Teoricamente avrete ragione, signor Fogg: ma in pratica...

In pratica pure, signor Stuart.

Vorrei proprio vederlo!

Non dipende che da voi. Partiamo insieme.

Il  cielo  me  ne  guardi!  Ma  scommetterei volentieri quattromila sterline,  che un  simile  viaggio,  fatto  in  queste  condizioni,  è impossibile.

Possibilissimo invece - riconfermò il signor Fogg.

Ebbene: fatelo, allora!

Il giro del mondo in ottanta giorni?

Sì.

Lo farò volentieri.

Quando?

Subito.

Che pazzia!  - esclamò Andrew Stuart il quale cominciava a seccarsi dell’insistenza del suo collega. - Via, è meglio giocare.

Rimischiate,  allora,  - rispose Phileas Fogg,  - giacché avete dato male.

Andrew Stuart ripigliò le carte con mano febbrile. Ma tutt’a un tratto posandole sulla tavola gridò:

Ebbene sì, signor Fogg; scommetto quattromila sterline!

Fallentin intervenne.

Calmatevi, signor Stuart. Ciò non è serio.

Quand’io  dico  «scommetto»,  è sempre sul serio!  - replicò Andrew Stuart.

E sia - disse  il  signor  Fogg;  quindi  volgendosi  verso  i  suoi colleghi: - Ho ventimila sterline depositate presso i Fratelli Baring.  Le rischierò volentieri.

Ventimila  sterline!!!...  -  esclamò  John  Sullivan.  - Ventimila sterline che un ritardo imprevisto può farvi perdere!

L’imprevisto  non  esiste  -  rispose  con  pacatezza   l’originale “gentleman”.

Ma,  signor  Fogg,  questo  spazio  di  tempo  di  ottanta giorni è calcolato come un “minimum”!

Un “minimum” ben impiegato basta a tutto.

Per non oltrepassarlo,  però,  bisognerebbe saltare  matematicamente dai treni sui piroscafi, e dai piroscafi sui treni.

Salterò matematicamente.

Via, è uno scherzo!

Un  buon inglese non scherza mai quando si tratta di una cosa seria come una scommessa - replicò Phileas Fogg.  - Io  scommetto  ventimila sterline,  contro  chicchessia,  che farò il giro del mondo in ottanta giorni, se non meno, ossia in millenovecentoventi ore,  vale a dire in centoquindicimila e duecento minuti. Accettate?

Accettiamo - risposero Stuart, Fallentin, Sullivan, Flanagan e Ralph dopo essersi consultati.

Bene  -  disse Phileas Fogg.  - C’è un treno per Dover alle 8 e 45.

Partirò con quello.

Stasera stessa? - domandò Stuart.

Stasera stessa.  Perciò,  - soggiunse il signor Fogg consultando  un calendario  tascabile,  -  dato che oggi è mercoledì 2 ottobre,  dovrò essere di ritorno a Londra,  in questo stesso  salotto  del  Club,  il sabato  21  dicembre  alle  8  e  45 di sera.  In mancanza di che,  le ventimila sterline depositate  attualmente  a  mio  credito  presso  i Fratelli  Baring  vi  apparterranno  di  diritto e di fatto.  Signori, eccovi un assegno per tale somma.

Fu  steso  l’atto   scritto   della   scommessa,   e   venne   firmato immediatamente dai sei cointeressati.

Phileas  Fogg era rimasto impassibile.  Egli non aveva certo scommesso

per guadagnare;  ed aveva impegnato soltanto quelle ventimila sterline

metà  dei  suoi  capitali  - poiché prevedeva che forse gli sarebbe stato necessario spendere l’altra metà  a  fine  di  condurre  a  buon termine quel difficile, per non dire inattuabile progetto.  I  suoi  avversari  invece  apparivano  commossi,  non  già  a cagione dell’enorme valore della posta,  ma poiché provavano un certo scrupolo a mettersi in scommessa contro l’impossibile.  Suonarono  in  quel  punto  le  sette.  Fu  offerto  al signor Fogg di sospendere il “whist” al fine di poter  fare  i  suoi  preparativi  di partenza.

Io  sono  sempre  pronto - rispose l’imperturbabile “gentleman”,  e distribuendo le carte: - Volto quadri.  Tocca a voi tirare per  primo, signor Stuart.

 

4.

PHILEAS FOGG STUPISCE PASSEPARTOUT, IL SUO DOMESTICO.

Alle  sette  e  25 Phileas Fogg,  dopo avere guadagnato al “whist” una ventina di ghinee (1),  prese commiato dai colleghi e lasciò  il  Club della  Riforma.  Alle  sette  e  cinquanta  apriva la porta di casa ed entrava nei suoi appartamenti.

Passepartout,   che  aveva  coscienziosamente  mandato  a  memoria  il programma giornaliero, fu non poco sorpreso nel vedere il signor Fogg, colpevole di inesattezza,  comparire a quell’ora.  Secondo la tabella, il padrone di Saville Row avrebbe dovuto rincasare solo  a  mezzanotte in punto.

Phileas  Fogg era salito direttamente nella propria camera,  e dopo un istante chiamò:

Passepartout.

Passepartout non rispose.  Quella chiamata non poteva essere diretta a lui. Non era l’ora.

Passepartout! - ripeté il signor Fogg senza alzare la voce. Il servo si presentò.

E’ la seconda volta che vi chiamo - disse il “gentleman”.

Ma  non è mezzanotte!  - rispose il domestico,  con il suo orologio alla mano.

Lo so.  E non vi rimprovero.  Partiamo fra dieci minuti per Dover  e Calais.

Una  specie  di  smorfia  si  delineò sulla tonda faccia del francese.

Evidentemente egli non aveva capito bene.

Il signore cambia casa? - domandò.

Sì. Andiamo a fare il giro del mondo.

Passepartout,  con gli occhi smisuratamente dilatati,  le palpebre e i sopraccigli tirati in su,  le braccia penzoloni, il corpo afflosciato, presentava in quel momento tutti i  sintomi  della  meraviglia  spinta fino allo stupore.

Il giro del mondo! - mormorò.

In ottanta giorni - completò il signor Fogg. - Perciò non abbiamo un solo istante da perdere.

Ma,  le  valigie?  -  osò  chiedere  il  servo,  il quale dondolava inconsciamente il capo a destra e a sinistra.

Niente valigie.  Basta un sacco da viaggio.  Dentro,  due camicie di lana  e  tre  paia  di calze per me;  altrettanto per voi.  Compreremo strada facendo.  Prendete il mio “mackintosh” (2) e  la  mia  coperta.  Provvedetevi  di buone scarpe.  Del resto,  cammineremo poco o niente.

Andate.

Passepartout avrebbe voluto rispondere. Non ne fu in grado.  Lasciò la camera  del signor Fogg,  salì nella sua e s’abbandonò sopra una sedia balbettando:

Questa è forte, questa!... Io che volevo starmene tranquillo!...

Si rialzò macchinalmente e fece i preparativi di viaggio.  Nella mente gli turbinava una ridda di pensieri.

Il  giro  del  mondo  in ottanta giorni!  Che si fosse imbattuto in un pazzo? No... Che si trattasse di uno scherzo? S’andava a Dover,  e sta bene;  a  Calais,  e  sia pure.  In fin dei conti tutto ciò non poteva mettere di malumore il buon figliolo che già da cinque anni non  aveva più  calpestato il suolo della patria.  Fors’anche si sarebbe andati a Parigi: oh,  senza dubbio Passepartout avrebbe rivisto con piacere  la grande  capitale.  E  poi?  C’era  da sperare che un “gentleman” tanto economo dei propri passi si sarebbe fermato lì... Sì, certamente.  Con tutto  ciò  non  era  men  vero che adesso partiva,  traslocava,  quel signore fino allora tanto casalingo!

Alle otto,  Passepartout aveva terminato di preparare il modesto sacco contenente il guardaroba del padrone e il proprio;  e, con il cervello ancora sossopra, lasciò la camera,  ne chiuse diligentemente la porta, e raggiunse il signor Fogg.

Il  signor  Fogg  era  pronto.  Aveva  sotto  il braccio un voluminoso “Orario Bradshaw - Guida generale delle ferrovie  continentali  e  dei battelli  a  vapore”,   che  doveva  fornirgli  tutte  le  indicazioni necessarie al suo viaggio.

Prese il sacco dalle mani di Passepartout,  l’aprì e vi cacciò  dentro un  vistoso pacco di quelle belle banconote che hanno corso in tutti i paesi del mondo.

Non avete dimenticato nulla? - chiese al domestico.

Nulla signore.

Il mio “mackintosh” e la mia coperta da viaggio?

Eccoli.

Il signor Fogg riconsegnò il sacco al domestico.

Custoditelo bene - aggiunse. - Ci sono dentro ventimila sterline.

Mancò poco che il sacco sgusciasse dalle mani di  Passepartout,  quasi che  vi  fossero ventimila sterline tutte in oro e perciò ben pesanti.  Poi padrone e servo scesero in strada;  e la porta di casa fu chiusa a doppia mandata.  In fondo a Saville Row c’era un posteggio di vetture.  Il signor Fogg e il suo servo salirono in una carrozza, che si diresse di buon trotto verso la stazione di Charing-Cross che è  raggiunta  da una tratta della ferrovia di sud-est.

Alle  otto  e  venti  la  carrozza  si  fermava  davanti  ai cancelli.

Passepartout saltò a terra. Il padrone lo seguì,  e pagò il cocchiere.  In  quel momento una mendicante che teneva per mano un fanciullo,  con uno scialle a brandelli  gettato  su  poveri  cenci,  si  avvicinò  al signore e gli chiese l’elemosina.

Phileas  Fogg  trasse  di tasca le venti ghinee guadagnate poc’anzi al “whist” e porgendole alla mendicante:

Prendete buona donna! - disse, - Sono contento di avervi incontrata.

Poi tirò dritto.

Passepartout sentì inumidirsi gli occhi.  Il nuovo padrone aveva fatto un passo nel suo cuore.

Tosto,  padrone  e  servo entrarono nella biglietteria affollatissima.  Phileas Fogg diede a Passepartout l’ordine di acquistare due biglietti di prima classe per Parigi;  e rimase ad attendere.  In quel  momento, voltandosi, scorse i suoi cinque colleghi del Club.

Signori,  io parto - disse.  - E le vidimazioni che farò apporre sul passaporto  vi  permetteranno,   al   mio   ritorno,   di   verificare l’itinerario da me seguito.

Oh,  signor  Fogg  -  rispose  compitamente  Walter Ralph;  - è una formalità superflua! Siamo garantiti dal vostro onore di “gentleman”.

Lo sarete meglio così - soggiunse il signor Fogg.

Andrew Stuart si fece avanti e disse:

Non dimenticate che dovrete essere di ritorno...

Fra ottanta giorni,  - completò Phileas Fogg - il sabato 21 dicembre 1872, alle 8 e 45 della sera.