Fix s’inchinò. Ma si sentiva come soffocare. Andò a stendersi a prua della goletta, e per tutto il giorno non disse più parola.  Intanto la «Tankadère» filava come se fosse  alle  regate.  Il  premio promesso  da  Phileas  Fogg  aveva  allettato  l’equipaggio  il  quale s’avvicendava alle manovre con il massimo zelo.  A sera il capitano rilevò un cammino percorso di 220 miglia.

Ho buona speranza che giungeremo  a  Shanghai  nel  tempo  voluto  - annunciò contentissimo John Bunsby al signor Fogg.

Faccio  assegnamento  sulla  cosa  -  rispose  questi  con  massima naturalezza.

Durante la notte la «Tankadère»  imboccò  lo  stretto  di  Fokien  che separa  la grande isola di Formosa dalla costa cinese.  La navigazione era  assai  difficile  in  quello  stretto  turbato  da   correnti   e controcorrenti.  Le  onde corte e tumultuose facevano danzare talmente il leggero naviglio, da rendere quasi impossibile tenersi in piedi sul ponte.

Quando si levò il giorno, il vento crebbe ancora di intensità.  Vi era in  cielo  l’aspetto  di  un colpo di vento.  Del resto,  il barometro annunciava un  prossimo  cambiamento  dell’atmosfera;  la  sua  marcia diurna  era  irregolare  e il mercurio oscillava capricciosamente.  Si vedeva pure che il mare si sollevava verso sud-est  con  delle  ondate «che sentivano la tempesta».  La sera prima, il sole era tramontato in una  foschia  rossastra,   in  mezzo  agli  scintillii   fosforescenti dell’oceano.

Il  pilota  esaminò  a lungo questo brutto aspetto del cielo e mormorò tra i denti  qualcosa  di  poco  intelligibile.  Ad  un  certo  punto, trovandosi accanto al suo viaggiatore, gli sussurrò:

Si può dire tutto a vostro onore?

Tutto - rispose Phileas Fogg.

Ebbene, tra un po’ avremo un colpo di vento.

Verrà dal nord o dal sud? - chiese semplicemente il signor Fogg.

Dal sud. Vedete. E’ un tifone quello che si sta preparando!

Che venga pure il tifone dal sud,  dal momento che ci spingerà nella direzione giusta - rispose il signor Fogg.

Se la prendete così, - replicò il pilota,  - io non ho più niente da dire!

I  presentimenti  di  John  Bunsby non lo traevano in inganno.  In una stagione meno avanzata dell’anno, il tifone,  secondo l’espressione di un  celebre meteorologo,  si sarebbe sciolto come una luminosa cascata di fiamme elettriche, ma durante l’equinozio d’inverno c’era da temere che si scatenasse con violenza.

Il pilota prese le sue precauzioni per tempo.  Fece serrare  tutte  le vele  della  goletta e trasportare i pennoni sul ponte.  Gli alberetti furono  smontati.   L’albero  di  fiocco  venne  fatto  rientrare.   I boccaporti  vennero  sigillati con cura.  Di conseguenza,  neppure una goccia d’acqua poteva  più  penetrare  nello  scafo.  Solo  una  vela, triangolare,  un fiocco di cappa di tela forte, venne issato a modo di trinchetto,  in modo da mantenere la goletta col vento in poppa.  E si rimase in attesa.

John  Bunsby  aveva  invitato  i  suoi  passeggeri  a discendere nella cabina;  ma in uno spazio molto ristretto,  quasi privo d’aria,  e  in mezzo  alle scosse dei marosi,  questo imprigionamento non aveva nulla di gradevole. Né il signor Fogg, né la signora Auda,  né lo stesso Fix acconsentirono ad abbandonare il ponte.

Verso  le  otto,  la burrasca di pioggia e di vento impetuoso arrivò a bordo. Pur offrendo la resistenza solo di un piccolo pezzo di tela, la «Tankadère» venne trascinata come una piuma da un vento di cui non  si potrebbe  dare  un’idea  esatta,  quando  soffia  durante la tempesta.  Paragonare la sua  velocità  a  quella  quadrupla  di  una  locomotiva lanciata  a  tutto  vapore,  sarebbe  restare ancora al di sotto della verità.

Per l’intera giornata la goletta fuggì così verso il nord,  sul  dorso di  onde  mostruose,  mantenendo fortunatamente una velocità pari alla loro.  Venti volte fu sul  punto  di  venir  sommersa  dalle  montagne d’acqua che si rizzavano a poppa.  Ma un abile colpo di barra dato dal timoniere evitava la catastrofe.

I passeggeri erano ogni tanto inondati di spuma dalla testa ai  piedi, e dovevano tenersi aggrappati a qualche sostegno per non venir portati via e scaraventati in mare dalle onde che spazzavano la tolda.  Fix imprecava.  La signora Auda, a fianco di Phileas Fogg, si mostrava intrepida e calma non meno di lui fra tanta furia di forze scatenate e ruggenti.

Verso sera, come era da temersi,  il vento piegò di tre quarti e passò nel  sud-ovest.  La  goletta,  obbligata  ora  a ricevere le ondate di fianco,   sobbalzava  da  non   dirsi:   tutte   le   sue   connessure scricchiolavano.  Pareva  che  da  un  momento  all’altro  la  piccola imbarcazione dovesse sfasciarsi sotto la violenza dei colpi  di  mare.  Ma era saldamente costruita, la «Tankadère»! E resistette.  La   forza   del   tifone  intanto  andava  crescendo,   mentre,   con l’avvicinarsi della notte,  si stendeva sul mare una tenebra più fitta ancora  di  quella  che  vi  aveva regnato durante tutto il giorno.  I bagliori frequenti dei lampi scendevano come  una  cascata  di  fiamme elettriche dal cielo alla superficie sconvolta delle onde, accrescendo l’orrore del buio.

John Bunsby cominciò ad essere veramente inquieto. Egli si chiedeva se non  fosse tempo di riparare in porto;  e consultò in proposito i suoi marinai. Tutti si dichiararono del medesimo parere. Allora il capitano prese la decisione di parlare al signor Fogg.

Vorrei dire a vostro onore: credo che faremo bene a ripararci in  un porto, alla costa.

Lo credo anch’io - rispose il “gentleman”.

John Bunsby si sentì sollevato.

Ah!  - fece con soddisfazione.  - Posso adunque mutar rotta e puntar su...

Non conosco che un porto che faccia per me.

Ed è?...

Shanghai.

Il capitano restò alcuni secondi senza parola,  non comprendendo  bene che   cosa  significasse  quella  risposta,   quanto  racchiudesse  di ostinazione e di tenacia. Ma subito si riprese.

Ebbene, sì! - esclamò. - Vostro onore ha ragione: a Shanghai!

E la «Tankadère» continuò la sua rotta verso il nord  filando  a  fari accesi nel buio della notte.

Notte veramente terribile!  Se la goletta non si capovolse, fu un vero miracolo.  Ad un certo punto il tifone la investì con  tale  forza  da parere che dovesse strapparle da bordo financo le alberature.  La  signora Auda era affranta;  tuttavia non le sfuggì una espressione di lamento o di stanchezza.  Parecchie volte il  signor  Fogg  dovette precipitarsi verso di lei per proteggerla dai marosi.  Spuntò il giorno.  La tempesta non accennava a scemare.  Il vento mutò di nuovo direzione e cadde nel sud-est,  provocando  un  violentissimo cozzo  di ondate e contro-ondate da cui la goletta fu sballottata come un guscio.

Più tardi la nebbia diradò un  poco.  Di  quando  in  quando  fra  gli squarci della foschia si poteva scorgere la linea della costa.  Ma non una nave in vista.  La «Tankadère» era sola sul  mare  livido  che  il tifone faceva ribollire come una caldaia.  Con  una  brezza  blanda  che accarezza le onde increspate appena,  la goletta spiegando tutte le sue vele,  fila nel chiaro  mattino,  a  45 miglia da Shanghai.

Si è al terzo giorno di navigazione.  La tempesta è cessata da qualche ora;  ed equipaggio e passeggeri hanno potuto prendere un  tantino  di riposo e ristorare le forze.

A bordo regna tuttavia una strana agitazione,  un timore vivo. Ognuno, tranne Phileas Fogg naturalmente, sente il cuore battere d’ansia.  Non rimangono che sei ore di tempo per giungere a Shanghai prima che parta il piroscafo diretto al Giappone.  Quindi, a coprire la distanza di 45 miglia, occorrerebbe che la goletta si mantenesse almeno alla media di otto miglia all’ora. E il vento cede sempre!  Per fortuna le vele della «Tankadère» raccolgono assai bene  anche  le brezze  più  capricciose;  e  capitano  e marinai,  manovrando,  fanno miracoli.

Alle sei di sera la goletta è a dieci miglia dal porto sospirato. Alle sette, è a tre miglia.

La partenza da Shanghai del piroscafo che va  a  Yokohama  è  prevista circa per quell’ora.

Maledizione!

L’esclamazione  è  uscita  fin  troppo  energica  dalle labbra di John Bunsby,  il quale ha perduto la calma.  Il premio di duecento sterline sta per sfuggirgli!

Il  capitano guarda Phileas Fogg.  Phileas Fogg è rimasto impassibile.

Eppure tutta la sua fortuna è in gioco in quel momento.  Proprio in quel momento,  un tubo nero coronato da  un  pennacchio  di fumo  si delinea tra la bruma,  in lontananza: finché appare profilata distintamente la sagoma di uno “steamer”.  Il piroscafo americano che esce all’ora regolamentare!

Maledizione!!! - ripete John Bunsby,  e con mossa disperata respinge la barra.

Dei segnali! - ordina calmo ma energico Phileas Fogg.

Il  cannoncino  di  prua  viene caricato fino alla bocca.  Il capitano s’avvicina per dar fuoco alla miccia e far partire  il  colpo.  Ma  il “gentleman” impartisce un altro comando:

Un momento! La bandiera in derno.

La bandiera viene ammainata a mezz’albero.  E’ un segnale di pericolo:

si può pensare che il piroscafo americano,  scorgendolo,  modifichi la rotta per accostarsi all’altra imbarcazione.

Ed ora fuoco! - ordina Phileas Fogg.

E la detonazione del cannoncino della «Tankadère» rintrona sul mare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

22.

PASSEPARTOUT  DEVE  RENDERSI  CONTO  CHE  ANCHE  AGLI ANTIPODI E’ PIU’ PRUDENTE AVERE UN PO’ DI DENARO IN SACCOCCIA.

Il «Carnatic»,  intanto,  aveva lasciato Hong Kong il 7 novembre  alle sei  e  mezzo  di sera,  dirigendosi a tutto vapore verso le terre del Giappone.  Portava un carico quasi pieno di  merci  e  di  passeggeri.  Soltanto  due lussuose cabine a poppa rimanevano vuote: si trattava di quelle fissate per il signor Phileas Fogg e per la signora Auda.  La mattina successiva alla partenza,  i marinai del «Carnatic» addetti a  prua avevano potuto vedere,  con loro gran sorpresa,  un passeggero dall’occhio inebetito, l’andatura vacillante e i capelli scomposti, il quale usciva dal boccaporto della seconda classe e andava, barcollando a sedersi su un mucchio di cordami.

Era Passepartout in persona,  che lasciammo profondamente addormentato nella taverna dei fumatori d’oppio.

Ecco cos’era accaduto.

Uscito  Fix  dalla  fumeria,  abbandonandovi  ben  narcotizzato il suo inesperto compagno,  questi era stato subito raccolto da due camerieri e  portato  di peso sul divano dove già molti altri fumatori dormivano della grossa.

Ma Passepartout si era destato tre ore dopo.  Anche nel sonno  un’idea fissa lo aveva assillato incessantemente come un incubo, generando una specie di reazione alla potenza soporifera dell’oppio. Il pensiero del dovere non compiuto aveva riscosso dal sonno il fedele servo.  Egli   lasciò  quel  letto  di  dormienti  ubriachi;   e  traballando, appoggiandosi ai muri,  cadendo,  rialzandosi,  sempre sospinto da una forza istintiva, uscì dalla taverna.

Il «Carnatic»!  Il «Carnatic»!...  - gridava il poveretto come in un vaneggiamento.

Così  raggiunse  il  molo  dove  il  «Carnatic»,   pronto  a  partire, sprigionava dalla ciminiera torrenti di fumo.

Ancora pochi passi, e sono arrivato!...

Passepartout  con un ultimo miracolo di equilibrio si slanciò lungo la passerella,  oltrepassò la murata del bastimento,  e  cadde  privo  di sensi  sul  tavolato  di prua proprio nel momento in cui il «Carnatic» scioglieva gli ormeggi.

Alcuni marinai,  gente abituata a simili scene,  raccolsero il  povero giovane  e  lo  calarono  in  una  cabina  della  seconda classe: dove Passepartout non si svegliò che la  mattina  appresso,  a  150  miglia dalle coste della Cina.

Ecco  perché  quella  mattina  il servo del signor Fogg si trovava sul ponte del «Carnatic» ad aspirare le fresche brezze marine.  L’aria pura finì di disperdere anche gli ultimi fumi dell’oppio  e  il giovane poté cominciare a radunar le idee.  Tutta  la scena svoltasi il giorno innanzi alla fumeria del porto,  le confidenze di Fix,  la sua proposta,  la sua diabolica insistenza  gli tornarono  a  poco a poco alla memoria.  E collegando tra loro fatti e parole, Passepartout finì col concludere:

«E’ chiaro: sono stato perfidamente ubriacato!... Che cosa dirà il mio padrone? Ad ogni modo non ho perduto la partenza del piroscafo, questo è l’essenziale.  Ora la cosa più urgente che mi si impone è di  andare dal  signor  Fogg  e cercare di farmi perdonare la mia inqualificabile condotta. Sarà bene ch’io lo informi anche della parte avuta da Fix in questa faccenda... O forse non sarà meglio aspettare l’arrivo a Londra per dirgli che un poliziotto lo  ha  braccato  fino  a  Hong  Kong,  e riderne insieme?».

Passepartout si sentiva sicuro che Fix, dopo la proposta fattagli, non poteva  aver  osato  seguirlo  sul «Carnatic»;  e perciò si attenne al partito più prudente.

«Sì, per ora è bene non turbare il signor Fogg con la storia di questi ignobili sospetti.  Se ne parlerà a viaggio finito.  Andiamo intanto a fare le nostre scuse».

Passepartout  si  alzò.  Il  mare era agitato,  e il piroscafo rollava fortemente.  Ancora male in gambe,  il giovane faticò un  bel  poco  a giungere a poppa.

  non  vide  nessuno  che  rassomigliasse  né al suo padrone né alla signora Auda.

«Ho capito»,  pensò.  «La signora Auda sarà ancora a  riposare,  e  il signor  Fogg  avrà trovato qualche compagno di “whist” e starà facendo la sua solita partita».

Il servo scese perciò nel salone. Ma il signor Fogg non c’era.  A Passepartout non restò che recarsi  dal  commissario  di  bordo  per sapere quale cabina occupava il signor Phileas Fogg.

Non  conosciamo  nessun  passeggero  con  questo  nome - rispose il commissario.

Ma,  come,  un “gentleman”  alto,  biondo,  elegantissimo,  un  tipo glaciale, poco comunicativo, accompagnato da una giovane signora...

Non  abbiamo  nessuna  giovane  signora  a bordo.  Del resto,  ecco l’elenco dei passeggeri. Potete consultarlo.  Passepartout consultò  l’elenco.  Il  nome  del  suo  padrone  non  vi figurava.

Fu  come  se  il  povero giovane si sentisse colto dal capogiro.  E un atroce dubbio gli attraversò la mente:

O che! Sono o non sono sul «Carnatic»?

Siete sul «Carnatic» - rispose il commissario.

In viaggio verso Yokohama?

Per l’appunto.

Meno male!...

Passepartout,  che  per  un  istante  aveva  avuto  paura  di  essersi sbagliato di vapore, respirò sollevato.

Già:  ma  se  egli  era sul «Carnatic»,  il suo padrone però non vi si trovava!

A questo pensiero il giovanotto si lasciò cadere abbandonato sopra una sedia. E d’un subito la luce si fece nel suo cervello. Egli si ricordò che l’ora della partenza del «Carnatic» era stata  anticipata,  che  a lui  sarebbe spettato avvertire il padrone,  e che invece non lo aveva fatto.

«Colpa mia se il signor Fogg  e  la  signora  Auda  hanno  perduto  la partenza del piroscafo!», ripeteva ora a se stesso il giovane al colmo della disperazione. «Sì, colpa mia... ma colpa anche di quel traditore che  per  separarmi dal mio padrone e per trattenere lui ad Hong Kong, mi ha ubriacato, mi ha narcotizzato con l’oppio!  E ora il signor Fogg è rovinato, la sua scommessa è perduta certissimamente. Forse lo hanno arrestato, messo in carcere!...».

Passepartout  non  poteva  reggere  a tale pensiero,  e si strappava i capelli.  Oh,  se Fix gli fosse ricapitato per caso tra le  mani,  che resa di conti!

Dopo  quella prima crisi di scoraggiamento,  il giovane riprese il suo sangue freddo e con calma esaminò la situazione.  «Mi trovo in viaggio per il Giappone: e va bene.  Che  ci  arriverò  è certo.  Ma come ne tornerò via?  Ho le tasche vuote;  ecco, nemmeno un penny! Meno male che il passaggio e il vitto a bordo sono pagati!... E allora, facciamoci coraggio intanto e mangiamo. Ho cinque o sei giorni davanti a me per riflettere e prendere una decisione».  Quel che Passepartout  mangiò  e  bevve  durante  il  viaggio  fino  a Yokohama,  è  difficile  a  dirsi:  mangiò per il suo padrone,  per la signora Auda e per sé;  mangiò come se il  Giappone,  dove  stava  per giungere,   fosse   un   paese   deserto  privo  di  qualsiasi  genere commestibile.

Il 13 novembre,  con la marea del mattino,  il «Carnatic» entrava  nel porto di Yokohama.

Questa città è uno scalo importante del Pacifico, in cui sostano tutti i  piroscafi  impiegati  per il servizio di posta e di viaggiatori tra l’America Settentrionale,  la Cina,  il  Giappone  e  le  isole  della Malesia.  Yokohama  è situata nella medesima baia di Yeddo (Tokyo),  a poca distanza da questa città smisurata,  seconda capitale dell’impero giapponese,  in altri tempi residenza del Taikun,  nel tempo in cui vi era questo imperatore civile,  e rivale di Meako  (Kyoto),  la  grande città abitata dal Mikado, l’imperatore ecclesiastico discendente degli dei.

Il  «Carnatic»  andò  a  schierarsi al molo di Yokohama,  di fronte ai magazzini della dogana, in mezzo a una folla di navi battenti bandiere di tutte le nazionalità.

Passepartout pose piede  senza  entusiasmo  sulla  curiosa  terra  dei «Figli del Sole». «Il meglio che posso fare», pensò, «è di prendere il caso  per  guida  e  andare  all’avventura,  sempre  avanti.  Qualcosa capiterà».

Si inoltrò nella rumorosa «città europea».  Case e facciate  basse  ed eleganti,  ornate  di  verande  e  di portici;  strade larghe;  piazze grandiose formicolanti anche qui,  come a Hong Kong,  come a Calcutta, d’un miscuglio di gente di tutte le razze: americani, inglesi, cinesi, olandesi, mercanti pronti a comprare di tutto e a vendere di tutto, in mezzo  ai  quali  Passepartout si sentiva tanto estraneo come se fosse nel paese degli ottentotti.

Avrebbe avuto bensì una risorsa: rivolgersi al Console di Francia o al Console d’Inghilterra stabiliti  a  Yokohama.  Ma  gli  sarebbe  stato necessario  andare  a  raccontare  la  propria storia così intimamente collegata con quella del suo padrone.

«Niente, niente!»,  si disse il fido servo.  «Un simile passo potrebbe essere un’imprudenza nei riguardi del signor Fogg. Prima di risolvermi a  tanto,  bisognerebbe  davvero  che  avessi  esaurito tutte le altre speranze».

Dopo avere percorso per intero la «città europea»,  Passepartout entrò nella  vera e propria «città giapponese»,  deciso,  se occorresse,  ad uscire anche da Yokohama e ad andar ramingando in altri centri abitati dell’Impero del Sol Levante, fino a Yeddo.  Nel cuore di Yokohama,  che viene denominata anche Benten dal nome  di una  Dea  del  Mare adorata sulle isole vicine,  Passepartout vagò per alcune ore,  dimenticando quasi le  proprie  sciagure,  tanta  era  la curiosa  varietà  dello  spettacolo  che  si  offriva ai suoi sguardi.  Interminabili viali fiancheggiati da abeti e  da  cedri  secolari;  e, riparati  sotto  la loro melanconica ombra,  templi di un’architettura strana,  monasteri dal fondo dei quali saliva il salmodiare dei bonzi, ponti  nascosti  in  mezzo  a ciuffi di canne,  bazar dove scintillava tutta la  canutiglia  dell’oreficeria  giapponese,  ristoranti  adorni d’insegne  e  di  banderuole  e nei quali a Passepartout purtroppo era vietato entrare.  Dovunque,  poi,  una sfilata di quelle  confortevoli «case  da  tè»  in  cui  si può consumare la deliziosa bevanda calda e aromatica,  ed il “saki”,  altra bevanda assai in uso nel  Giappone  e ottenuta dalla fermentazione del riso.

Nelle  strade,  un  andirivieni,  un  formicolio incessante: bonzi che passavano in processione percotendo  i  loro  tamburelli;  “yakunini”, ossia  ufficiali  doganali  o  di  polizia,  dai  cappelli  a piramide acuminata e incrostati di lacca;  soldati del Mikado  insaccati  nelle giubbe di seta e ognuno con due daghe alla cintola; soldati vestiti di cotone  blu  con righe bianche e armati di fucili a percussione;  e un gran numero di altri militari di ogni condizione,  perché in  Giappone la  professione  di  soldato  è  stimata  appunto  quanto  essa  viene disprezzata in Cina; poi pellegrini questuanti in lunghe vesti;  e poi carrozze,  palanchini,  carriole a vela,  “morimon” a pareti di lacca, “cango” soffici,  veri letti di bambù ambulanti  al  tiro  di  piccoli cavalli.

Si  vedevano  circolare,  col  passo  leggero  dei  piedini calzati in sandali di paglia o in zoccoletti  di  legno  lavorato,  esili  figure femminili   dai  capelli  d’ebano,   le  quali  portavano  con  grazia particolare il “kimono” di seta a tinte vaghe come le ali di farfalla.  Passepartout girovagò per diverse ore nel bel mezzo  di  quella  folla eterogenea,  guardando  inoltre le “boutiques” curiose ed opulente,  i bazar nei  quali  si  accumulano  tutti  gli  orpelli  dell’oreficeria giapponese, i «ristoranti» ornati di bandierine e bandiere nei quali a lui  era  vietato  entrare,  e quelle case del tè nel quale la bevanda dorata e profumata viene bevuta in tazze ricolme,  insieme al  «saki», un  liquore  ricavato  dal riso in fermentazione e quelle confortevoli fumerie in cui viene fumato un tabacco molto fine e  non  l’oppio,  il cui uso è quasi sconosciuto in Giappone.

Poi  Passepartout  si  ritrovò  tra  i campi,  nel bel mezzo di risaie immense.