Vi si schiudevano, insieme con dei fiori che gettavano i loro ultimi colori e i loro ultimi profumi, delle meravigliose camelie, che s’appoggiavano non su dei cespugli, ma su degli alberi e poi, dietro recinti di bambù, degli alberi di ciliegio, dei susini, dei meli, che gli indigeni coltivano più per i fiori che per i frutti, e che degli orribili spaventapasseri e dei rumorosi aggeggi difendono dal becco dei passeri, dei colombi, dei corvi e di altri voraci volatili. Nessun cedro maestoso che non offrisse riparo a qualche grossa aquila; nessun salice piangente che non nascondesse tra il suo fogliame qualche airone, malinconicamente ripiegato su una zampa; e infine da ogni parte delle cornacchie, delle anatre, degli sparvieri, delle oche selvatiche e un gran numero di quelle gru che i Giapponesi chiamano rispettosamente «signore» e che sono per loro simbolo di longevità e di felicità.
Andando a spasso in quel modo, Passepartout intravide nell’erba qualche violetta. «Bene», si disse; «ecco la mia cena!». Ma dopo averle annusate, non sentì alcun profumo.
«Non ho fortuna!», pensò.
Indubbiamente, il giovanotto, prevedendo come sarebbero andate le cose, prima di lasciare il «Carnatic» aveva ingurgitato quanto più cibo aveva potuto; ma dopo aver camminato per un’intera giornata, adesso si sentiva lo stomaco svuotato. Aveva notato che pecore, capre o porci erano del tutto assenti dai banconi dei macellai indigeni, e dal momento che sapeva che era un sacrilegio uccidere le mucche, destinate unicamente alle necessità dell’agricoltura, ne aveva concluso che la carne era rara in Giappone. Non si ingannava. Ma in mancanza di carne da macelleria, il suo stomaco si sarebbe detto soddisfatto di qualche quarto di cinghiale o di daino, di pernice o di quaglia, di volatili o di pesci, di cui i Giapponesi si cibano quasi esclusivamente insieme con il ricavato delle risaie. Ma dovette rassegnarsi alla sua sfortuna e rimandare all’indomani la cura di provvedere al suo cibo.
Scendeva intanto la notte. Passepartout rientrò nella «città indigena» e prese ad errare per le vie rischiarate da lanterne multicolori, soffermandosi ogni tanto a guardare gruppi di funamboli i quali eseguivano le loro prodigiose acrobazie e gli astrologi all’aperto che richiamavano la folla attorno a lunghi cannocchiali puntati verso il cielo. Se ne andò poi verso la rada, costellata dei fuochi dei pescatori, che attiravano il pesce alla luce di torce fumose. Piano piano le strade si fecero deserte. Il posto occupato fino allora dalla folla venne vigilato dalle ronde degli “yakunini”. Questi ufficiali, per i loro magnifici costumi e per il seguito da cui erano circondati, rassomigliavano ad ambasciatori, e Passepartout, ogni volta che s’imbatteva in qualche splendida pattuglia, si ripeteva con piacevolezza: «Ci siamo! Ecco un’altra ambasceria giapponese che parte per l’Europa!».
23.
IL NASO DI PASSEPARTOUT SI ALLUNGA IN MANIERA SMISURATA.
L’indomani, Passepartout si risvegliò con le ossa rotte e affamato più che mai. Suo primo pensiero fu che bisognava mangiare a qualunque costo, e quanto più presto fosse successo, tanto meglio sarebbe stato. Aveva certo come risorsa la possibilità di vendere il suo orologio, ma lui sarebbe piuttosto morto di fame. Il poveraccio concluse invece che era venuto il momento di sfruttare la voce forte, se non proprio melodiosa, che madre natura gli aveva largita. «Mi pare di aver sentito dire che i Giapponesi sono amanti della musica, dal momento che presso di loro tutto si fa al suono di cimbali, di tam-tam e di tamburi. Dovrebbero quindi apprezzare senz’altro un po’ di bel canto europeo. Conosco un discreto repertorio di canzonette francesi ed inglesi. Vediamo: con quale posso cominciare?...».
Ma forse l’ora era un po’ troppo mattutina per organizzare un concerto: e il francese pensò giudizievolmente di non disturbare la gente nel sonno, perché non l’avrebbero certo ripagato con monete su cui ci fosse l’effige del Mikado.
In attesa che passasse il tempo per poter dare inizio alla sua singolare professione di cantante girovago già esercitata in tempi assai lontani, Passepartout fece qualche riflessione, e gli parve di essere troppo ben vestito, per un artista ambulante. «Se cambiassi gli abiti che porto con altri più modesti e alla giapponese, in modo da non parer più un forestiero? Forse nel cambio potrei anche guadagnare un po’ di denaro che utilizzerei immediatamente per far tacere l’appetito».
Presa tale risoluzione, Passepartout cercò e scoprì dopo lunghe
ricerche un rigattiere al quale fece la proposta del cambio. L’abito
all’europea piacque al rigattiere. E qualche istante dopo
Passepartout uscì dalla botteguccia abbigliato da giapponese
autentico, con una lunga veste carica di galloni e piuttosto
malandata, e con una specie di turbante scolorito dall’uso. Ma in compenso alcune monetucce d’argento gli tintinnavano in tasca. «Bene. Farò conto di essere di carnevale», disse a se stesso il giovane.
E così «giapponesizzato» entrò in una modesta «bottega da tè», dove finalmente poté mettere sotto i denti qualcosa: un avanzo di pollo e non più che una manciata di riso.
Consumando il suo spuntino adagio adagio, come suol fare chi abbia ancora da risolvere il problema del pranzo e della cena, il giovanotto rifletteva:
«Ora si tratta di non perdere la testa. Debbo tener conto che non ho più la risorsa di vendere gli abiti per altri di minor prezzo! Perciò l’importante è lasciare quanto prima questo paese del Sole, di cui conserverò un ben amaro ricordo».
Passepartout pensò allora di fare una capatina ai piroscafi in partenza per l’America: intendeva offrirsi in qualità di cuoco o di cameriere, non chiedendo altra retribuzione che il passaggio e il vitto. A San Francisco poi si sarebbe ingegnato a trarsi d’impaccio: l’importante era varcare il Pacifico e giungere a metter piede sul Nuovo Mondo.
Non essendo uomo da trascurare una buona idea, il francese si diresse subito al porto. Ma strada facendo il progetto che gli era sembrato dapprima così semplice cominciò ad apparirgli pieno di difficoltà. Possibile che mancassero cuochi o camerieri a bordo di un piroscafo americano? E quale fiducia avrebbe ispirata lui, vestito a quel modo? Quali raccomandazioni, quali referenze aveva con cui potersi presentare?
Mentre si angustiava in simili incertezze, Passepartout posò a caso lo sguardo sopra un cartellone che un “clown” in livrea da circo portava su e giù per le vie di Yokohama.
Il giovane lesse l’annuncio che era scritto in inglese:
“Compagnia Acrobatica Giapponese
dell’onorevole
WILLIAM BATULCAR Ultime rappresentazioni, prima della partenza
per gli Stati Uniti d’America, dei famosissimi
‘Lunghi-Nasi - Lunghi-Nasi’
Spettacolo straordinario
sotto la diretta invocazione del dio Tengù.
Grande attrazione!”
«Una compagnia d’acrobati in partenza per gli Stati Uniti! E’ proprio quello che fa per me».
In quattro salti, Passepartout aveva raggiunto l’uomo-cartello; e gli tenne dietro attraverso tutta la «città indigena». Dopo un quarto d’ora di giravolte, il “clown” si fermò finalmente davanti ad un baraccone ornato di pavesi multicolori e dipinto all’esterno in tinte chiassose con goffe figure senza prospettiva che rappresentavano buffoni e giocolieri nei loro esercizi. Quello era il circo dell’onorevole Batulcar, direttore di una compagnia di saltimbanchi, ginnasti, acrobati, giocolieri, pagliacci, equilibristi, e simili. Come annunciava il manifesto, la compagnia era alle sue ultime rappresentazioni, dovendo l’indomani levare le tende e partire per l’America.
Passepartout entrò sotto un breve porticato che c’era a fianco al baraccone e domandò del signor Batulcar.
Comparve il signor Batulcar in persona.
Che volete? - domandò a quello sconosciuto, che gli era parso un giapponese.
Avete bisogno d’un servo? - azzardò un po’ titubante Passepartout.
Il signor Batulcar si accarezzò il folto pizzo grigio che gli ornava il mento.
Un servo! - ripeté. - Ne ho già due, obbedienti, fedeli, che non mi lasceranno mai, e che mi servono senza chiedere salario, a patto ch’io li nutra. Eccoli.
Così dicendo, il padrone del circo mostrava le sue braccia nerborute rigate da vene grosse come corde di contrabbasso.
Sicché, io non posso esservi utile a nulla? - insisté Passepartout.
A nulla.
- «Parbleu!» (1) Eppure mi sarebbe proprio convenuto partire con voi.
Oh, oh, - fece il signor Batulcar, - voi siete giapponese come io sono una scimmia! Perché dunque siete vestito a codesta maniera?
Uno si veste come può.
Questo è vero. Siete un francese, voi a quanto pare.
Sì: parigino di Parigi.
Allora dovete saper fare molte smorfie.
Passepartout, punto dalla frase che urtava il suo amor proprio nazionale, rispose pronto:
Oh, sì, sì! Noi Francesi sappiamo fare molte smorfie; ma non meglio degli Americani.
Siete spiritoso! Ebbene, se non vi assumo come servo, posso scritturarvi come “clown”. Vedete, giovanotto, è così: in Francia ci vogliono pagliacci stranieri, e all’estero pagliacci francesi.
Certo.
E dite un po’: siete robusto?
Specialmente quando mi alzo da tavola!
E sapete cantare?
E come! - rispose Passepartout senza esitare. - In passato ho fatto più d’un concerto cantando all’aperto, per le strade, s’intende.
Ma sapete cantare con la testa in giù, con una trottola che gira sulla pianta del piede sinistro e una sciabola in equilibrio sulla pianta del piede destro?
Altro che! Sono stati questi gli esercizi della mia prima giovinezza.
E allora, - concluse il signor Batulcar, - se siete disposto a sobbarcarvi a un po’ di tutto, potremmo combinare. Per far parte della mia compagnia, vedete, tutto sta nell’adattarsi. Anche se quella scritturazione assai modesta in funzione di pagliaccio non lusingava molto l’amor proprio del giovanotto, era alla fin fine una sistemazione, che in più gli offriva la possibilità di trovarsi fra otto giorni in viaggio per San Francisco. Passepartout accettò. E il contratto fu stipulato su due piedi. La rappresentazione di quel pomeriggio, annunciata in tutta la città dai pagliacci della Compagnia Batulcar, doveva avere inizio alle tre. Già un’ora prima i formidabili strumenti che fanno immancabilmente parte di ogni orchestra giapponese - tamburi e gong - suonavano con fragore davanti all’ingresso del baraccone. Ben presto questo fu letteralmente gremito di spettatori: europei e indigeni, cinesi e giapponesi - uomini, donne e ragazzi - avevano preso d’assalto le anguste panche disposte a gradinata e i palchi che fronteggiavano la scena.
All’ora stabilita per l’inizio della rappresentazione, l’orchestra al completo venne ad occupare il suo posto al proscenio. Gong, nacchere, tamburi, flauti, timpani e grancasse suonavano in un crescendo assordante.
Infine la musica tacque, ed ebbe inizio lo spettacolo. Bisogna pur dire che i Giapponesi sono i migliori equilibristi del mondo. E quelli della Compagnia Batulcar non temevano concorrenza. Uno camminava su spade poste di taglio; un altro, lungo esili cavi di acciaio tesi ad altezza notevole da una parte all’altra della scena. Chi, con una leggerezza da dirsi una sfida alla legge del peso, compiva in punta di piedi il giro dell’orlo di grandi vasi di cristallo dalle pareti estremamente sottili; chi s’arrampicava su scale di bambù fragili ed altissime, e poi di lassù, in mirabolante posizione di equilibrio, con un ventaglio e con pezzetti di carta eseguiva l’esercizio tanto grazioso delle farfalle e dei fiori. C’erano i giocolieri specializzati a scrivere in aria, con il fumo odoroso delle pipe, serie di parole azzurrine che formavano un complimento all’indirizzo del pubblico. E poi prestigiatori i quali eseguivano sorprendenti giochi d’abilità con una serie di candele accese: se le facevano passare una dopo l’altra davanti alla bocca, accendendole, spegnendole, riaccendendole con successivi soffi e aspirazioni d’aria senza usare alcuna esca. I più applauditi dai ragazzi erano i giocolieri che presentavano inverosimili combinazioni con le trottole giranti. Sotto la loro mano quei ronzanti arnesi parevano animarsi d’una vita propria. I giocolieri saltavano, e con essi le trottole saltavano e giravano in aria; le lanciavano a guisa di volanti, mediante racchette di legno, e le trottole continuavano a girare; se le cacciavano in tasca, e quando le tiravano fuori quelle giravano ancora; finché, allo scatto d’una molla, si cambiavano in... crepitanti fuochi d’artificio! Scrosci di battimani salutavano via via tutti questi giochi e quelli dei ginnasti e degli acrobati: esercizi alla scala, alle pertiche, alle botti.
Finalmente il signor Batulcar in persona, portatosi il megafono alla bocca, annunciò il «numero» di sensazionale attrazione.
Signori, i «Lunghi-Nasi» stanno per dare inizio ai loro equilibrismi! E’ uno spettacolo dei più rari, che finora soltanto il pubblico di poche città del Giappone ha il privilegio d’aver potuto ammirare.
Quei «Lunghi-Nasi» - prodigiosi equilibristi che l’Europa non conosce ancora - erano vestiti come tanti eroi del medioevo e portavano attaccato alle spalle uno splendido paio d’ali, segno della loro particolare e diretta sudditanza al dio Tengù. Ma ciò che li distingueva in special modo era la smisurata appendice nasale saldamente fissata sulla loro faccia e costituita da una canna di bambù lunga più di tre palmi, talvolta liscia, talvolta bitorzoluta. Quale compito avessero quei lunghissimi nasi, lo capirono con meraviglia e con emozione gli spettatori quando videro una dozzina d’equilibristi andare a coricarsi supini sulla scena, con i nasi puntati in aria a guisa di parafulmini, e i compagni cominciare a sbizzarrirsi là sopra danzando, saltando, piroettando, rimbalzando da un naso all’altro con la massima disinvoltura. Per finire, i settari del dio Tengù si apprestarono a presentare il più difficile esercizio del loro repertorio: la piramide umana.
Il signor Batulcar con voce stentorea annunziò:
Signori, la piramide umana dei «Lunghi-Nasi» raffigurerà, come potrete costatare, il sacro carro del dio Tengù. La comporranno cento scelti equilibristi in dieci ordini sovrapposti: ma non appoggiandosi, come si usa fare di consueto, sulle spalle l’uno dell’altro, bensì sui... nasi!
Il pubblico applaudì freneticamente. L’attesa era piena d’emozione. Tra gli scelti equilibristi che entrarono in scena e andarono a formare la base del carro del dio Tengù c’era Passepartout. Il signor Batulcar, che a colpo d’occhio aveva valutato bene la forza e la destrezza di quel nuovo acquisto, lo aveva subito destinato a prestare il suo valido appoggio nel pericoloso esercizio della piramide umana, facendogli sostituire un altro equilibrista allontanatosi dalla Compagnia proprio in quei giorni.
Certo, il bravo giovane si era sentito un po’ mortificato nell’indossare la farsesca veste medioevale adorna di ali multicolori, e nel vedersi applicare sulla faccia quel naso di tre palmi. Ma poi si era rassegnato con un filosofico pensiero:
«Alla fin fine, questo naso mi dà da mangiare. Facciamoci animo». Ora Passepartout era là nella fila dei dieci equilibristi stesi a terra con il naso puntato contro il cielo. Una seconda squadra di giovani atleti agilissimi andò a prender posto su quelle lunghe appendici. Una terza le tenne dietro, e poi un’altra, e un’altra ancora... finché un monumento umano si innalzò in breve a toccare il soffitto del teatro.
Gli applausi andavano alle stelle; gli strumenti dell’orchestra facevano uno strepito d’uragano. Quando d’improvviso la piramide vacillò, l’equilibrio si ruppe: uno dei punti d’appoggio della base era venuto a mancare. E il monumento si sfasciò come un castello di carte.
Mentre sulla scena avveniva il fragoroso crollo, si vide uno degli equilibristi scavalcare d’un balzo la balaustra e come se davvero volasse con il sussidio delle sue ali variopinte, arrampicarsi sulla galleria di destra, raggiungere le ultime gradinate e lassù cadere ai piedi di uno spettatore esclamando:
Ah, padrone mio! padrone mio!
Voi?!
Io, sì, proprio!
Allora via, al piroscafo, ragazzo! Non c’è un istante da perdere.
Il signor Fogg, la signora Auda che l’accompagnava, e il ben ritrovato Passepartout si precipitarono fuori del baraccone. Ma lì trovarono a sbarrare il passo il signor Batulcar, furente il quale reclamava i danni per il crollo e lo sciagurato fallimento dello spettacolo.
Phileas Fogg placò quel furore gettando al grosso padrone del circo una manata di banconote.
Alle sei e mezzo in punto, cinque minuti prima che il piroscafo per San Francisco lanciasse il segnale di partenza, il signor Fogg e la signora Auda mettevano piede a bordo, seguiti da Passepartout, il quale portava tutt’ora attaccate alla schiena le ali e sulla faccia quel naso di tre palmi, di cui non era ancora riuscito a liberarsi.
NOTE.
NOTA 1: Caratteristica esclamazione francese. Equivale al nostro «Perbacco!».
24.
VIENE PORTATA A TERMINE LA TRAVERSATA DELL’OCEANO PACIFICO.
Si sarà compreso cos’era avvenuto in vista di Shanghai! I segnali lanciati dalla «Tankadère» erano stati ricevuti dal piroscafo di Yokohama. Il capitano scorgendo una bandiera a mezz’asta, s’era diretto verso la piccola goletta. Qualche minuto dopo, Phileas Fogg, compensando il passaggio ricevuto al prezzo che era stato convenuto, metteva nelle mani di padron John Bunsby cinquecentocinquanta sterline. Poi il nobile gentiluomo, la signora Auda e Fix erano saliti a bordo del piroscafo, che aveva immediatamente fatto rotta per Nagasaki e Yokohama.
Arrivati quella stessa mattina del 14 novembre, all’ora regolamentare, Phileas Fogg, lasciando che Fix se ne andasse per i suoi affari, si era recato a bordo del «Carnatic» e vi aveva appreso, con grande gioia della signora Auda - e forse anche sua, ma egli non ne lasciò trasparire nulla -, che il francese Passepartout era effettivamente giunto la vigilia a Yokohama.
Phileas Fogg, che doveva ripartire quella stessa sera per San
Francisco, si mise immediatamente alla ricerca del suo domestico. Si
rivolse, ma fu inutile, agli agenti consolari francese e inglese, e,
dopo avere percorso tutte le strade di Yokohama, disperava ormai di
ritrovare Passepartout, quando il caso, o forse una specie di
presentimento, lo fecero entrare nel baraccone della Compagnia
Batulcar. Non avrebbe tuttavia certamente riconosciuto il suo
domestico sotto quell’eccentrico travestimento; ma era stato il suo domestico che, dalla sua posizione rovesciata, aveva scorto il suo padrone nella galleria. Non era riuscito ad impedirsi di muovere il naso e questo aveva rovinato l’equilibrio e causato tutto ciò che ne era seguito.
Questo era ciò che Passepartout venne a sapere dalla stessa bocca della signora Auda, che gli raccontò pure come si fosse svolta la traversata da Hong Kong a Yokohama in compagnia di un certo signor Fix, sulla goletta «Tankadère».
Quando sentì il nome di Fix, Passepartout non fece alcun gesto. Riteneva che non fosse ancora giunto il momento di riferire al suo padrone ciò che era accaduto tra lui e l’ispettore di polizia. Perciò, raccontando la storia delle sue avventure, Passepartout prese su di sé tutta la colpa e si scusò solamente perché si era lasciato sorprendere dall’ubriachezza da oppio in una fumeria di Hong Kong. Il signor Fogg ascoltò con freddezza questo racconto, senza dare una risposta; poi aprì per il suo domestico un credito sufficiente, affinché potesse procurarsi a bordo degli abiti convenienti. E in realtà era trascorsa meno d’un’ora che il giovanotto aveva spezzato il suo naso e raschiato via le ali, eliminando così tutto ciò che potesse ricordargli di essere stato un seguace del dio Tengù. Il piroscafo che compiva la traversata da Yokohama a San Francisco apparteneva alla Compagnia del «Pacific Mail steam» e si chiamava «General-Grant». Era un magnifico “steamer” a ruote con una stazza di duemilacinquecento tonnellate, ben attrezzato e dotato di una grande velocità. Un enorme bilanciere si alzava e si abbassava alternativamente al di sopra del ponte; a una delle sue estremità si articolava la sbarra di un pistone, e all’altra quella di una biella, che, trasformando il movimento rettilineo in un movimento circolare, si applicava direttamente sull’albero delle ruote. Il «General-Grant» era attrezzato come un tre alberi-goletta e possedeva una grande superficie di velatura, che aiutava grandemente la spinta del vapore. Filando alla velocità di dodici miglia all’ora, il piroscafo non doveva impiegare più di ventuno giorni per attraversare il Pacifico. Phileas Fogg era quindi in diritto di credere che, sbarcando il 2 dicembre a San Francisco, avrebbe potuto giungere l’11 a New York e il 20 a Londra, anticipando così di qualche ora la data fatidica del 21 dicembre.
I passeggeri erano in buon numero a bordo: Inglesi, Americani una vera emigrazione di «coolies» (1) cinesi e numerosi ufficiali dell’esercito coloniale delle Indie i quali approfittavano del loro periodo di congedo per compiere una crociera di diporto intorno al mondo. La traversata procedeva nelle migliori condizioni, su un oceano così calmo da giustificare appieno il suo nome di Pacifico. Il piroscafo, sostenuto dalle larghe ruote e appoggiato dalla robusta velatura, rollava poco. Silenzioso e per nulla comunicativo come d’ordinario, il signor Fogg trascorreva a bordo la vita più uniforme e regolata, riservando giornalmente alcune ore alla compagnia della signora Auda. La giovane indiana col passar del tempo e delle vicende si sentiva sempre più portata verso il “gentleman” da sentimenti non solo di riconoscenza ma anche di ammirazione. Quella natura così silenziosa e così generosa colpiva la sua immaginazione; e quasi inconsapevolmente la signora Auda si lasciava invadere da un delicato sentimento di simpatia, di cui Phileas Fogg pareva non subire minimamente l’influenza.
Chi sapeva leggere nel cuore della signora Auda, era Passepartout. E ora che la giovane indiana si interessava come lui ai progetti del signor Fogg e all’esito del suo viaggio, assai sovente signora e servo s’intrattenevano a discorrere in proposito.
Il più difficile è fatto! - affermava con convinzione Passepartout, trascinando nel proprio entusiasmo la gentile ascoltatrice. - Siamo usciti finalmente da quei fantastici paesi della Cina e del Giappone! Ritorniamo, se Dio vuole, in contrade civili. Ormai, un treno che ci porti da San Francisco a New York, e un piroscafo che da New York ci sbarchi a Londra: e il signor Fogg ha bell’e finito il suo giro del mondo, nei termini di tempo della scommessa! La convinzione del francese poggiava in realtà su qualche buon fondamento. Nove giorni dopo avere lasciato Yokohama, Phileas Fogg si trovava ad aver percorso esattamente la metà del globo terrestre. Infatti il «General-Grant», alle 9 di mattina del 23 novembre, passava il meridiano 180 che è quello diametralmente opposto al meridiano di Londra.
E’ vero che di ottanta giorni messi a sua disposizione il signor Fogg ne aveva già impiegati cinquantadue, e non gliene rimanevano che ventotto. Ma bisogna notare che se il “gentleman” si trovava a metà strada quanto a meridiani, in realtà tuttavia aveva già percorso più di due terzi del tragitto totale. Questo non seguiva circolarmente il parallelo di Londra (in tal caso sarebbe stato di sole 12000 miglia); ma, comprese tutte le giravolte da Londra ad Aden, da Aden a Bombay, da Bombay a Calcutta, da Calcutta a Singapore, da Singapore a Yokohama, assommava in totale a 26000 miglia, delle quali Phileas Fogg ne aveva già percorse 17500. A quella data del 23 novembre perciò gli rimanevano da compiere ormai, in linea diretta, 8500 miglia soltanto. «E Fix non è più tra i piedi a frapporre ostacoli!», concluse mentalmente Passepartout al colmo della contentezza. Accadde pure che, quello stesso giorno 23 novembre, il bravo giovanotto provasse un’altra intensa gioia. Il suo orologio di famiglia, che, a dispetto di tutti i consigli contrari, egli si era ostinato a mantenere sull’ora di Londra, ritenendo errate tutte le ore dei paesi che percorreva, quel giorno, senza che nessuno lo avesse messo né avanti né indietro, si trovò esattamente a segno con i cronometri di bordo.
Il vanto che Passepartout ne menò fu cosa indescrivibile.
Vorrei proprio sentire un po’ che cosa ne direbbe Fix se fosse qui presente! Quell’imbroglione che mi sciorinava tante fandonie sui meridiani, sui soli e sulle lune! Che gente, veh? Se si desse ascolto a loro, begli orologi ci sarebbero davvero! Io ero più che sicurissimo che un giorno o l’altro il sole si sarebbe deciso a regolarsi sul mio cronometro.
Passepartout ignorava una nozione semplicissima: e cioè che se il quadrante del suo orologio fosse stato ripartito in ventiquattro ore come è in molti orologi italiani, egli non avrebbe avuto motivo alcuno di rallegrarsi e di vantarsi. Infatti in tal caso, quando gli orologi di bordo avessero segnato le nove del mattino, quello di Passepartout avrebbe segnato le ventuno, ossia le nove di sera, essendo proprio dodici ore la differenza che intercorre fra Londra e il meridiano 180. Solo per il fatto che l’orologio del francese aveva il quadrante ripartito in dodici ore, il divario non era rilevabile. Se Fix anche questa volta si fosse trovato presente a spiegare la cosa, chi sa del resto se il testardo sarebbe stato in grado di comprenderla, o per lo meno di ammetterla. Ma il “detective” questa volta non c’era.
Già, e dove si trovava Fix in quel momento?
Fix era precisamente a bordo del «General-Grant». Giungendo a Yokohama, il “detective” aveva abbandonato provvisoriamente il signor Fogg, col proposito di rintracciarlo in giornata; e si era precipitato senza indugio negli uffici del Consolato inglese. Lì aveva trovato finalmente il famoso mandato di cattura speditogli da Hong Kong con quello stesso «Carnatic» a bordo del quale si credeva che egli viaggiasse. Il dispetto strappò allo sfortunato agente una esclamazione energica: «Diavolo! Ormai questo è uno straccio di documento perfettamente inutile! Il furfante ha lasciato il territorio inglese: per arrestarlo ci vuole un atto di estradizione in piena regola».
Ma passato il primo momento di collera, Fix rifletté con pacatezza. «Vediamo un po’. Il mio mandato non è più valido qui: ma lo sarà in Inghilterra. Il ladro pare che voglia ritornare in patria credendo di avere ingannato la polizia. Benone! Io lo seguirò fin là. Quanto al denaro, Dio voglia che ne rimanga! Ma in premi, in passaggi, in processi, in ammende, in elefanti, in spese d’ogni genere, il mio uomo deve avere lasciato sulla sua strada già più di cinquemila sterline... Alla fin fine, non preoccupiamoci: la Banca d’Inghilterra è ricca». Confortato da queste riflessioni Fix aveva finito per imbarcarsi sul «General-Grant» poco prima che vi salissero Phileas Fogg, il suo servo e la signora Auda. Con somma meraviglia aveva riconosciuto Passepartout sotto il grottesco travestimento da giocoliere. Allora aveva stimato prudente correre anche questa volta a rintanarsi nella propria cabina per evitare una spiegazione che avrebbe potuto comprometterlo.
Ma quella prigionia gli pesava. E col trascorrere dei giorni, fidando che la gran confusione di viaggiatori a bordo del «General-Grant» riuscisse a farlo passare inosservato, Fix aveva cominciato a salire di quando in quando a prendere una boccata d’aria sul ponte. I monti non s’incontrano, ma la gente sì!... Una sera, mentre faceva la tranquilla passeggiatina a prua, il “detective” si trovò a faccia a faccia con il suo nemico.
Passepartout senza pronunciare una parola saltò alla gola di Fix. E, con gran piacere di alcuni americani presenti alla scena, i quali scommisero immediatamente per lui, somministrò all’infelice ispettore di polizia una gragnuola di pugni che dimostrò l’indiscutibile superiorità del pugilato francese su quello inglese. Quando Passepartout ebbe terminato, si sentì più calmo Fix si rialzò tutto ammaccato, e guardando il suo avversario, gli disse freddamente:
E’ finito tutto?
Sì, per il momento.
Allora dobbiamo parlare a quattr’occhi.
Io, con voi?!
Nell’interesse del vostro padrone.
Passepartout come soggiogato da quella calma, seguì il poliziotto; ed entrambi andarono a sedersi a prua.
Voi mi avete picchiato - disse Fix. - Bene. Adesso ascoltatemi. Fin qui io sono stato l’avversario del signor Fogg. Da ora sono con lui.
Finalmente! - esclamò il francese. - Voi lo giudicate adunque un onest’uomo?
No. Lo credo un briccone... Zitto là! Non vi muovete e lasciatemi dire. Finché il signor Fogg stette su terra di possedimento inglese, ebbi interesse a trattenerlo, aspettando un mandato d’arresto. Tutto quanto feci fu proprio per questo: io aizzai contro di lui i sacerdoti indiani di Bombay, io vi ubriacai a Hong Kong per separarvi dal vostro padrone, io gli feci perdere la partenza del piroscafo per San Francisco...
Passepartout serrando i pugni stava sulle mosse di scattare. Fix lo dominò con un’occhiata calma.
Adesso - riprese Fix, - il signor Fogg torna in Inghilterra, vero? E va bene. Lo seguirò fin là. Ma d’ora innanzi mi impegnerò ad allontanare gli ostacoli dal suo cammino, con tanta cura e tanto zelo quanti ne posi fin qui a procurargliene. Lo vedete, dunque: il mio gioco si è capovolto, ed è in vostro favore. Aggiungerò che anche il vostro interesse è identico al mio, giacché soltanto in Inghilterra voi saprete finalmente se siete al servizio di un ladro o di un gentiluomo.
Passepartout aveva ascoltato attentissimo, e fu convinto che Fix parlasse in assoluta buona fede.
Siamo amici? - domandò questi.
Amici no - rispose pronto il francese.
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