Affare concluso?

Affare concluso.

Il capitano ghermì il fascio delle banconote, facendole immediatamente scomparire nelle sue tasche.

Passepartout e il “detective”, che assistevano alla scena, sbiancarono in volto.

«Altre ventimila sterline!...  Il mio  premio  sta  per  andarsene  in fumo»,  fu  il  pensiero di Fix.  «E questo Fogg lascia inoltre al suo venditore lo scafo e la macchina,  vale a dire quasi il valore  totale dell’imbarcazione!  E’ vero però che la somma rubata alla Banca era di ben cinquantacinquemila sterline!».

Phileas Fogg intanto spiegava ad Andrew Speedy:

Capitano,  la cosa non deve  sorprendervi.  Sappiate  che  io  perdo ventimila sterline se non sono di ritorno a Londra il 21 dicembre alle ore  8  e 45 di sera.  Ora avendo perduto il piroscafo da New York,  e siccome voi rifiutaste di condurmi a Liverpool...

E feci bene,  per tutti i diavoli  dell’inferno!  Ci  ho  guadagnato almeno 40 mila dollari!...  Sapete?  - soggiunse,  quindi,  Speedy più pacatamente; - devo dirvi una cosa, capitano...

Fogg.

Capitano Fogg, c’e dello «yankee» in voi!

E il rozzo marinaio,  dopo questa specie di  complimento,  strinse  la mano al suo passeggero. Poi fece per andarsene.  Ma il “gentleman” lo trattenne.

Un momento: questa nave dunque mi appartiene?

Certo! Dalla chiglia alla punta degli alberi... per tutto quel che è legno, s’intende.

Allora  a  bordo  dell’«Henrietta»  la  voce  energica di Phileas Fogg lanciò il più bizzarro comando che mai capitano abbia dato:

Si demoliscano tutte le parti in legno della nave.  E  coi  rottami, fuoco nella macchina!

Quel  giorno il casseretto,  le cabine,  gli alloggi,  il falso-ponte, tutto fu ridotto in cenere.

L’indomani, 19 dicembre,  furono bruciate le alberature,  le dare,  le pennole. Quei tronchi giganteschi venivano atterrati, spaccati a colpi di  ascia.  Era  una  febbre di demolizione a cui partecipava l’intero equipaggio: Passepartout  a  capo,  tagliando,  frantumando,  segando, facendo il lavoro di dieci uomini.

Al terzo giorno si passò a sacrificare le impavesate, le opere morte e buona  parte  della tolda.  Lo scafo dell’«Henrietta» era ridotto raso come un pontone.

Ma intanto si era giunti in vista della costa d’Irlanda, e del faro di Fastenet.  Alle dieci di sera tuttavia l’isola non  era  stata  ancora sorpassata  e  l’«Henrietta»  si  trovava  esattamente  all’altezza di Queenstown a cui volgeva il babordo.

Non rimanevano a Phileas  Fogg  che  ventiquattr’ore  per  portarsi  a Londra  nei termini della scommessa.  Altrettante ne sarebbero occorse invece all’«Henrietta» per arrivare soltanto a Liverpool,  quand’anche avesse filato a tutto vapore.  E il combustibile stava per finire;  la pressione del vapore nella macchina calava inesorabilmente.  Speedy,  che ormai si interessava ai progetti del suo passeggero,  gli si avvicinò.

Signor  Fogg,  -  gli disse,  - vi compiango davvero!  Siamo appena davanti a Queenstown.

Ah!  - fece il “gentleman”.  - E’ Queenstown quella città di cui  si scorgono i fuochi?

Sì.

Possiamo entrare nel porto?

Non prima che siano passate tre ore: all’alta marea.

Aspettiamo.

Sul  volto  del “gentleman” non trasparì per nulla il lampo di suprema ispirazione con cui egli era in procinto di vincere ancora  una  volta la sorte avversa.

Phileas  Fogg  sapeva  infatti  che  Queenstown è un porto della costa d’Irlanda a cui i transatlantici provenienti dagli Stati  Uniti  fanno breve  scalo  per  il  servizio  postale.  Da  Queenstown  la  posta è inoltrata a Dublino per mezzo di treni espressi che si  susseguono  in partenza con serrato orario;  e da Dublino a Liverpool l’allacciamento postale è  completato  con  piroscafi  celerissimi.  Talché,  seguendo questo  itinerario,  si sopravvanzano di dodici ore circa i più rapidi camminatori della linea transatlantica.

Pertanto il signor Fogg decise con matematica precisione:

«Le dodici ore che guadagna così il corriere d’America,  le guadagnerò io  pure.  Invece  di  giungere  con  l’  “Henrietta”  domani  sera  a Liverpool,  seguendo l’altro itinerario ci sarò  a  mezzodì:  avrò  il tempo di arrivare a Londra prima che scada l’ora fatidica».  Verso  l’una  del  mattino con il favore dell’alta marea l’«Henrietta» entrava nel porto di Queenstown.

Il “gentleman”,  dopo aver ricevuto una vigorosa stretta di  mano  dal capitano Speedy,  lo lasciava sullo scafo raso della sua nave la quale pur ridotta così rappresentava ancora un discreto  capitale:  la  metà della cifra che Speedy si era fatta pagare.  I passeggeri sbarcarono subito.

In  quel  momento  Fix  sentì  una  voglia  feroce di arrestare la sua vittima.

Non lo fece. Perché?  Quale lotta avveniva dentro di lui?  Si era egli forse ricreduto sul conto del “gentleman”? Capiva finalmente d’essersi ingannato?... Mistero per lui stesso.

Ma Fix non abbandonò Phileas Fogg.  Con lui, con la signora Auda e con Passepartout che non trovava più il tempo per respirare,  si cacciò in uno scompartimento del direttissimo per Dublino.  A  Dublino  sul  far  del  giorno tutti s’imbarcarono su uno di quegli “steamers” della Compagnia Inglese i quali somigliano a fusi d’acciaio e hanno macchine potentissime.

A mezzogiorno meno venti minuti, il 21 dicembre, Phileas Fogg sbarcava infine a Liverpool. Egli non era ormai che a sei ore da Londra.  Ma in quel momento Fix gli si avvicinò, gli posò una mano sulla spalla e mostrando il mandato disse:

Il signore Phileas Fogg?

Sì, io in persona.

In nome della Regina: siete in arresto!

 

 

 

 

 

 

 

34.

PASSEPARTOUT HA L’OCCASIONE DI FARE UN GIOCO DI PAROLE ATROCE MA FORSE INCONSUETO.

Phileas Fogg era finito in gattabuia. Era stato rinchiuso nel posto di guardia della Dogana di Liverpool, in attesa di venire trasferito alle carceri di Londra.

Fix lo aveva arrestato poiché il suo dovere glielo imponeva,  fosse il “gentleman” colpevole o no. La Giustizia avrebbe deciso.  Al   momento   dell’arresto   c’era   voluto  l’intervento  di  alcuni «policemen» per togliere  il  troppo  solerte  agente  dalle  mani  di Passepartout, il quale gli si era avventato contro come una belva.  La  signora  Auda,  spaventata dalla brutalità del fatto,  non sapendo nulla,  non riusciva a capacitarsi.  Fu il francese a  spiegarle  ogni cosa.  Allora  copiose  lacrime  sgorgarono  dagli occhi della giovane indiana,  mentre il suo cuore batteva in un tumulto  di  sdegno  e  di dolore.

Il signor Fogg,  l’onesto e coraggioso “gentleman”,  a cui debbo la vita, arrestato come ladro?! Ah, è un’infamia, una cosa inconcepibile!  Davanti alle lacrime della signora Auda,  più  che  mai  terribile  si riaffacciò allora alla mente di Passepartout, il pensiero che egli era la  causa di quella sciagura.  Perché s’era preso la responsabilità di non avvertire il suo padrone il giorno che Fix gli  aveva  svelato  la propria  qualità  di  agente  di  polizia  e  la  missione  di cui era incaricato?  Il signor Fogg,  messo sull’avviso,  avrebbe senza dubbio dato a Fix, le prove d’essere innocente, gli avrebbe dimostrato il suo errore.  Ad ogni modo non avrebbe scorrazzato a spese del “gentleman”, quel dannato poliziotto la cui prima  cura  era  stata  di  arrestarlo appena messo piede in Inghilterra!

«Imperdonabile imprudenza è stata la mia,  proprio da uomo balordo che sta  a  pensare  a  sciocchi  riguardi!»,   continuava   a   ripetersi Passepartout.  E piangeva.  Faceva pena: voleva dar la testa nel muro.  La signora Auda riuscì adagio adagio a calmarlo.  Erano rimasti  sotto il  porticato  della  Dogana.    l’uno    l’altra  si decidevano a muoversi di là: intendevano rivedere il signor Fogg.  «Chi sa in che stato d’animo si troverà il mio padrone comprendendo di essere ormai irrimediabilmente rovinato!»,  pensava  con  angoscia  il fido servo.

Chi  invece  fosse  entrato in quel momento nel posto di guardia della Dogana di Liverpool vi avrebbe trovato il “gentleman” seduto sopra una panca, olimpicamente tranquillo ad aspettare... Che cosa? Serbava egli qualche speranza? Credeva ancora alla riuscita della sua impresa, pure in simili condizioni? Oppure che si fosse addensato in lui uno di quei furori segreti, compressi, terribili, che non appaiono, ma che per ciò appunto scoppiano poi ad un dato punto con una forza irresistibile?  Comunque sia,  il signor Fogg aveva tratto con  mossa  pacata  il  suo orologio  dal taschino,  lo aveva posato sopra la tavola e ne guardava girare le sfere.

Non una parola gli sfuggiva dalle labbra;  ma il suo sguardo aveva una fissità singolare.

La situazione di quell’uomo era certo assai critica.  E chi non poteva leggere nella sua coscienza l’avrebbe riassunta  così:  se  innocente, Phileas Fogg era ad ogni modo rovinato; se colpevole, era perso.  Ebbe egli in quel momento il pensiero di salvarsi?  Pensò a cercare se vi fosse nella guardina una possibile via d’uscita?  Non è da escludersi,  poiché a un dato momento il “gentleman” fece  il giro  della  stanza.  Ma  la  porta  era  sprangata  dal di fuori e le finestre erano munite di solide sbarre.

Phileas Fogg  tornò  a  sedere  ed  estrasse  dal  portafogli  il  suo itinerario di viaggio.

Sulla  linea  dove  erano  scritte queste ultime parole: «21 dicembre, sabato - Liverpool» egli aggiunse: «Ottantesimo giorno,  ore 11  e  40 del mattino». E si ridispose in attitudine di chi tranquillo aspetta.  Suonò  l’una all’orologio della torre.  Il signor Fogg verificò che il suo orologio avanzava di due minuti rispetto a quello della torre e lo regolò. Suonarono le due!

La fronte di Sir  Phileas  Fogg  si  corrugò  lievemente.  Certo  egli pensava  che  salendo  in  quel  momento sopra un direttissimo avrebbe potuto giungere a Londra,  al Club della Riforma,  prima dello scoccar dell’ora fatale.

Il  ticchettio  dell’orologio  in  quella  lugubre  prigione  piena di silenzio pareva la voce d’una condanna inesorabile.  Alle due e trentatrè minuti,  fuori della porta  suonò  un  rumore  di passi,  poi  uno  stridore di catenacci smossi.  Si sentiva la voce di Passepartout, si sentiva la voce di Fix.

Lo sguardo di Phileas Fogg brillò per un istante.  La porta del posto di guardia si aperse: la signora Auda, Passepartout e Fix si precipitarono incontro al  “gentleman”.  Fix  era  trafelato, aveva i capelli scomposti: non riusciva a parlare.

Signore...  - balbettò, - signore... perdonatemi! Una rassomiglianza deplorevole...  Il ladro è stato arrestato da tre giorni...  Voi siete libero!

Ah, sono libero!

Sir Phileas Fogg non disse altro. Fece due passi verso il “detective”, lo guardò bene in faccia.  Poi, compiendo l’unica mossa rapida che mai avesse fatto e mai dovesse  fare  in  vita  sua,  trasse  indietro  le braccia  e  con la precisione d’un automa assestò uno dopo l’altro due formidabili pugni all’infelice poliziotto.

Ben fissati!  - esclamò Passepartout,  che  si  permetteva  così  un atroce  gioco di parole ben degno di un francese e aggiunse: Perdiana!  Ecco quel che si può chiamare un bell’uno-due della boxe inglese!  Fix,  gettato a terra,  non pronunciò nemmeno una parola.  Aveva avuto quel che si meritava.

Lasciando  il “detective” a scrollarsi di dosso la polvere,  il signor Fogg,  la signora Auda e Passepartout  si  precipitarono  fuori  della Dogana  e,   imbucatisi  in  una  carrozza,  raggiunsero  la  stazione centrale. Erano le due e quaranta minuti.  Il diretto per Londra era partito da trentacinque minuti. Phileas Fogg ordinò allora un treno speciale.

C’erano  parecchie  locomotive  di  grande  velocità  in  manovra   in stazione, con le caldaie surriscaldate. Tuttavia, date le esigenze del movimento,  il  treno speciale non poté lasciare Liverpool prima delle tre.

Al momento della partenza Phileas Fogg aveva detto alcune paroline  al macchinista, di un certo premio da guadagnare: ma bisognava percorrere in cinque ore e mezzo, anziché in sei, la distanza Liverpool Londra.  Cosa  fattibilissima,  quando tutta la linea potesse trovarsi sgombra.

Ciò peraltro difficilmente si verifica. Ci furono dei forzati ritardi.  E allorché il “gentleman”  metteva  finalmente  piede  sulla  banchina della  stazione  di  Londra,  le lancette del grande orologio sotto la pensilina segnavano esattamente le nove meno dieci minuti.  Phileas Fogg, dopo aver compiuto l’avventurosissimo viaggio intorno al mondo, giungeva con cinque minuti di ritardo.  Aveva perduto la scommessa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

35.

PASSEPARTOUT NON SI FA RIPETERE DUE VOLTE  L’ORDINE  DATOGLI  DAL  SUO PADRONE.

L’indomani gli abitanti di Saville Row si sarebbero mostrati increduli se  qualcuno  avesse  detto  loro  che  il  signor Fogg era tornato al proprio domicilio.  Porte e finestre della casa contraddistinta con il numero   7  continuavano  a  rimanere  ermeticamente  chiuse;   nessun cambiamento era avvenuto al di fuori,  da far pensare che la casa  non fosse più disabitata.

Infatti  proprio questo era stato l’ordine dato da Phileas Fogg al suo servo al momento di fare ingresso nel loro alloggio subito dopo  avere lasciato la stazione e avere pensato all’acquisto di alcune provviste.  Sir  Phileas Fogg aveva ricevuto con l’impassibilità consueta il colpo finale datogli dalla mala sorte.  Ma certo riconosceva lucidamente  di essere  un  uomo  liquidato  in quanto a finanze: e tutto per colpa di quel balordo ispettore di polizia.  Dopo  avere  camminato  con  passo sicuro  per  così lunga strada,  dopo avere affrontato mille pericoli, abbattuto mille ostacoli, trovando anche il tempo di concludere un po’ di bene cammin facendo, dover naufragare proprio ora che era giunto in porto, e per una causa perversa,  imprevedibile,  contro la quale egli era totalmente disarmato!

Triste cosa davvero. Della somma considerevole con cui era partito non gli rimaneva che un residuo insignificante. Tutte le sue finanze ormai si  riducevano  alle  ventimila  sterline  depositate  ancora presso i Fratelli Baring.  Ma quelle le doveva ai suoi colleghi  del  Club!  E’ vero  che,  quand’anche  avesse  vinto la scommessa,  dopo tante spese fatte non si sarebbe trovato ricco,  - e del resto egli non aveva  mai pensato  ad arricchirsi: aveva scommesso per punto d’onore - ma è vero pure che la scommessa perduta lo riduceva alla rovina.  Il “gentleman” concluse il proprio bilancio prendendo mentalmente  una decisione. Sapeva qual era l’unica cosa che gli rimaneva da fare.  Nella  casa  di  Saville  Row intanto c’erano a quell’ora due anime in pena.  La signora Auda,  alla quale era  stato  subito  riservata  una stanza della casa di Saville Row,  poteva dirsi addirittura disperata: dalle ultime parole pronunciate da Phileas Fogg prima di ritirarsi  le era  parso  di capire che egli meditasse qualche progetto funesto.  E’ noto infatti a quali  deplorevoli  eccessi  giungano  talvolta  quegli inglesi dall’idea fissa affetti da mono-mania. E la stessa impressione aveva avuto pure Passepartout il quale,  senza darlo a vedere,  teneva d’occhio il suo padrone.

Il bravo giovanotto,  al primo arrivare,  non  aveva  tralasciato  con tutto ciò di salire come un fulmine nella propria camera a spegnere il becco  a  gas che vi ardeva da ottanta giorni.  Ed aveva trovato nella cassetta delle lettere una fattura della Compagnia del Gas, ammontante ad una cifra spettacolosa.

Era tempo che mettessi fine a questo consumo  di  cui  sarò  l’unico pagatore responsabile!...  - sospirò il poverino lasciandosi cadere su una sedia, con la chilometrica nota fra le mani.  Venne la notte. La signora Auda si era coricata;  ma non poté prendere un  istante di riposo.  Anche nella camera del signor Fogg la luce era stata spenta e tutto era silenzio.  Chi  sa  però  se  il  “gentleman” dormiva?

Davanti  alla  porta  di  quella  camera,  accucciato  come  un  cane, Passepartout vegliò fino all’alba,  a orecchio teso sempre in ascolto.  L’indomani di buon’ora il signor Fogg chiamò il servo e gli raccomandò in  termini  molto asciutti di occuparsi della colazione della signora Auda.

Per me, - soggiunse,  - soltanto una tazza di tè e una fetta di pane tostato.  Riferirete alla signora Auda che la prego di scusarmi se non sarò presente né a pranzo né a cena,  dovendo rimanere occupatissimo a riassestare i miei affari. Verso sera soltanto le chiederò il permesso d’intrattenerla per pochi minuti: ho da parlarle.  Passepartout, conoscendo a puntino il famoso programma della giornata, non  avrebbe  avuto  che  da  andarsene  immediatamente  a mettersi in funzione.  E invece non si muoveva di lì;  continuava a fissare il suo padrone  con uno sguardo strano da cui traspariva tanta angoscia.  Sì!  Se egli avesse avvisato Mister Fogg,  se gli avesse svelato i progetti dell’agente  Fix,  il  signor  Fogg  non  si  sarebbe  tirato appresso l’agente Fix fino a Liverpool,  e allora...  Finalmente non seppe  più contenersi, e gettandosi ai piedi del “gentleman” scoppiò a piangere.

Padrone mio, signor Fogg, maleditemi! E’ stato per mia colpa che...

Io   non  accuso  nessuno  -  rispose  Phileas  Fogg  con  accento perfettamente sereno. - Andate.

Passepartout un po’ meno oppresso,  lasciò la camera del padrone e  si recò a fare la sua ambasciata alla signora Auda.

Signora,  - aggiunse, - io non posso nulla dal canto mio, nulla! Non ho alcuna influenza sul mio padrone. Voi forse...

Quale influenza potrei  io  mai  avere?  -  rispose  tristemente  la giovane indiana.  - Il signor Fogg non ne subisce alcuna. Non ha forse mai nemmeno capito quanto sia profonda la mia  riconoscenza  verso  di lui.  Non ha letto nel mio cuore.  Amico mio, a voi mi raccomando: non bisogna lasciarlo  solo  un  istante!  Voi  dite  che  ha  manifestato l’intenzione di parlarmi stasera?

Sì, signora.

Aspettiamo - sospirò la giovane donna.

E rimase pensierosa.

La  cosa più singolare che avvenne quel giorno fu che Phileas Fogg per la prima volta in vita sua, pur essendo presente a Londra, non uscì di casa per recarsi al Club allo scoccare delle undici e mezzo.  E perché del  resto  avrebbe  dovuto  andarvi?  I  suoi  colleghi  certo non lo aspettavano più.  Se allo scader del 21 dicembre alle ore 8,45 Phileas Fogg non si era mostrato nel salone del Club della Riforma, per lui la scommessa  era  perduta.  Non  gli  restava  nemmeno  la  necessità di presentarsi ai banchieri Fratelli Baring  per  ritirare  le  ventimila sterline:  i  suoi avversari stessi vi avrebbero provveduto essendo in possesso dell’assegno regolarmente firmato.  Phileas Fogg non aveva quindi ragione di uscire.  E non  uscì.  Rimase chiuso in camera tutto il giorno a mettere in ordine i suoi affari.  E Passepartout per tutto il giorno non tralasciò di salire e scendere le scale, tornando ogni momento presso quell’uscio.  Origliava,  guardava dal  buco della serratura,  sentendosi più che scusato in coscienza di non  commettere  con   ciò   un’indiscrezione,   date   le   terribili circostanze:  c’era  da temere da un momento all’altro una catastrofe.  Talvolta Passepartout si metteva a pensare a  Fix,  ma  nel  frattempo c’era  stato  un  cambiamento  nella sua valutazione.  Aveva smesso di volerne all’ispettore di polizia.  Fix si era sbagliato come tutti nei riguardi  di Phileas Fogg,  e pedinandolo e poi arrestandolo non aveva fatto che il suo dovere,  mentre  invece  lui...  Questo  pensiero  lo prostrava ed egli si considerava l’ultimo dei miserabili.  Questi  amari  pensieri  opprimevano  il  povero  servo  e lo facevano sentire talmente infelice che a volte non era più capace  di  rimanere solo.  Allora  bussava  alla  porta  della  camera della signora Auda; entrava da lei e si sedeva in un angolo, senza aprire bocca, guardando la giovane indiana sempre pensierosa.

Verso le sette e mezzo di sera Phileas Fogg  fece  chiedere  alla  sua gentile ospite se poteva riceverlo.

Pochi  minuti  dopo il “gentleman” era in presenza della signora Auda.  Il signor Fogg  prese  una  sedia  e  sedette  accanto  al  caminetto, dirimpetto  alla giovane donna.  Il volto di lui non rifletteva alcuna emozione.  Il signor Fogg ritornato dal lungo viaggio era il  medesimo che era partito. Aveva la stessa calma e impassibilità.

Signora,  - disse il “gentleman”,  dopo un breve silenzio, guardando in volto la signora Auda e  alzandosi,  -  mi  perdonerete  di  avervi condotta in Europa?

Io, signor Fogg?...

C’era  un  indicibile  accento nelle parole della giovane indiana,  ed ella comprimeva a fatica i battiti del cuore.

Vogliate permettermi di finire - riprese il “gentleman”. Allorché io ebbi il pensiero di trarvi lontana da quella terra pericolosa per voi, ero ricco e contavo di porre una parte della  mia  sostanza  a  vostra disposizione.  La vostra esistenza sarebbe stata felice e libera.  Ora io sono rovinato...

Lo so, signor Fogg - lo interruppe la giovane indiana con un sorriso infinitamente triste.  - Perciò sono io che vi chiedo a mia volta:  mi perdonerete di avervi seguito e,  chi sa?,  di avere forse, causandovi ritardo, contribuito alla vostra rovina?

Signora, voi non potevate assolutamente rimanere in India! La vostra salvezza non era assicurata se non in un luogo dove quei fanatici  non potessero mai più riprendervi.

Così,  signor  Fogg,  non  contento di avermi strappata a una morte orribile,  voi vi credevate  anche  obbligato  ad  assicurare  la  mia posizione in Europa?

Certo,  signora - rispose il “gentleman”, inchinandosi lievemente. - Ma gli avvenimenti si sono volti contro di me.